Novembre 22nd, 2023 Riccardo Fucile
SECONDO LA RELAZIONE SULLE CONCESSIONI LA LUNGHEZZA DELLE SPIAGGE DEL NOSTRO PAESE È DI 11MILA CHILOMETRI, TREMILA IN PIÙ RISPETTO A QUANTO CERTIFICATO DALLA TRECCANI… UN TRUCCHETTO PER FAR RISULTARE PIU’ BASSA LA PERCENTUALE DI COSTA OCCUPATA DAGLI STABILIMENTI
Una forza di promettere «un’Italia grande» a Palazzo Chigi c’è chi si è po’
allargato. Aggiungendo quasi tremila chilometri, come da Aosta a Siracusa e ritorno, alla nostra linea costiera, isole comprese. Dai «circa 8.000» certificati dalla Treccani a 11.173. Boom! Risultato? Le spiagge occupate dalle concessioni balneari sembrano secondarie…
In realtà, come precisa lo studio sulla Dinamica Litoranea dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, condotto da Maria Luisa Cassese, Filippo D’Ascola, Valeria Pesarino e Andrea Salmeri, definire con esattezza quanto siano lunghe le nostre coste comprese i contorni degli scogli (sopra i 10 metri di diametro massimo ci si riesce, sotto no) è impossibile.
I «cambiamenti per erosione o per avanzamento» sono tali che nel giro di vent’anni, dal 2000 al 2020 il totale del nostro «profilo» costiero è sceso da 8.353 a 8.274 (2010) chilometri per risalire a 8.329. [
Esempio: l’area portuale di Napoli dal Circolo Canottieri vicino a piazza del Plebiscito al lungomare di San Giovanni a Teduccio, era in origine intorno ai cinque chilometri. Adesso, tra Avamporto di Levante, moli e banchine varie si arriva a oltre 22. Ripetiamo: circa. Su un pezzettino delle coste italiane.
Prova provata che fa bene la Treccani a restare sul vago e al contrario è stupefacente la precisione della «Relazione sullo stato di avanzamento dei lavori del tavolo tecnico consultivo» sulle concessioni balneari.
Che sotto il timbro della Presidenza del Consiglio dei Ministri dichiara: «Totale linea di costa: 11.172.794 metri». E i centimetri? Quanti centimetri se lo stesso Ispra che elabora tutti i dati con le Capitanerie di Porto resta alla larga da queste pignolerie sapendo che in dieci anni il totale della linea di costa può calare di 79 chilometri o crescere di 55?
Edoardo Zanchini di Legambiente, Roberto Biagini del Coordinamento nazionale Mare Libero, Stefano Deliperi del Gruppo intervento giuridico e larga parte degli ambientalisti sono convinti: lo spropositato «allungamento» delle nostre coste da parte del «tavolo tecnico consultivo» ministeriale coi rappresentanti di 24 associazioni balneari senza uno scienziato dell’Ispra aveva un solo obiettivo. Quello di far sembrare ridotta se non marginale l’occupazione delle concessioni balneari in vigore su 1.613.912 metri di costa, pari al 14%, e di quelle nuove o in fase di rinnovo su altri 529.781 per un totale di 2.143.693 metri (2.143 chilometri nel grafico in questa pagina, ndr ): il 19%. Meno di un quinto, era il messaggio «sdrammatizzante», delle coste a disposizione.
Ma è così? Mica tanto. Per cominciare la costa bassa e sabbiosa, per l’Ispra, è di soli 3.418 chilometri. Tutto il resto è costa alta e rocciosa. Ai piedi della quale stanno una miriade di spiaggette che non arrivano neppure alla misura minima di legge per esser data in concessione.
Quindi le spiagge reali sono solo il 41% degli 8.329 chilometri di costa totale e meno di un terzo addirittura di quelli sbandierati dalla relazione che punta a rinviare ancora una volta l’applicazione della legge europea. E già questo dato dice che gli stabilimenti lavorano in realtà, prendendo per buoni i numeri dei balneari, non il 19 ma quasi il 63% delle spiagge teoriche.
(da Huffingtonpost)
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Novembre 22nd, 2023 Riccardo Fucile
SE L’ITALIA NON DOVESSE ACCETTARE LA PROPOSTA DI SCHOLZ E MACRON, MELONI SI TROVERÀ CON I MERCATI CHE LA SFANCULERANNO A COLPI DI SPREAD… MA ALLA FINE, VEDRETE, FINIRÀ CHE FIRMERÀ IL MES INVENTANDOSI DI AVER OTTENUTO CHISSÀ QUALI FACILITAZIONE SUL PATTO DI STABILITÀ
All’indomani della ‘’sospensione tecnica” della Commissione europea sull’approvazione della finanziaria scodellata dal governo italiano (fino a primavera la tengono a bagno maria), l’incontro Scholz-Meloni sarà decisivo per capire come andrà a finire la partita di poker intavolata dalla Ducetta.
La premier insiste con determinazione sul portare a compimento il “pacchetto” (firmo il Mes in cambio di un Patto di Stabilità flessibile per l’Italia), fino al punto di minacciare Bruxelles di non ratificare il Meccanismo Europeo di Stabilità, unico paese su 27 dell’Unione, lasciando senza paracadute finanziario il sistema bancario dell’Eurogruppo.
In vista dell’incontro con la Furbetta della Garbatella, Macron e Scholz si sono parlati e sono d’accordo nel respingere la proposta in modalità Porta Portese del “pacchetto” meloniano, ma nello stesso tempo sono d’accordo di avanzare una offerta che preveda, intanto, una maggior flessibilità sul rientro al 3 per cento previsto dal nuovo Patto di Stabilità ed inoltre di non far configurare in bilancio alcune partite di bilancio ancora da valutare. Ovviamente a monte, c’è la firma della Sora Giorgia sul famigerato e per lei, oltre che per la Lega, inaccettabile Mes.
Se Meloni non dovesse accettare la proposta di Scholz e Macron, schifando la ratifica del Mes, sarà un bel problema per il nostro disgraziato paese. “Io so’ Giorgia e voi non siete un cazzo” si troverà, come ha ben spiegato Romano Prodi in una recente intervista, con i mercati che la sfanculeranno a colpi di spread, accompagnati dall’applauso degli altri 26 paesi della comunità europea.
Ma alla fine, vedrete, finirà che il Campo Hobbit di Palazzo Chigi firmerà il Mes inventandosi di aver ottenuto chissà quali facilitazione sul Patto di Stabilità.
(da Huffingtonpost)
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Novembre 22nd, 2023 Riccardo Fucile
LA PREMIER DA SCHOLZ CON GIORGETTI PER FIRMARE L’INTESA ITALIA-GERMANIA VOLUTA DAL GOVERNO DRAGHI
Si annuncia come una giornata di giubilo dal sapore amaro la visita di
domani a Berlino da parte di Giorgia Meloni, Giancarlo Giorgetti e diversi altri ministri del governo.
Da un lato, la premier si reca a firmare l’intesa istituzionale tra Italia e Germania, pensata all’epoca del governo Draghi per suggellare un patto di collaborazione tra i due Stati maggiori dell’Ue su diversi campi. Dall’altro, l’incontro con il cancelliere Olaf Scholz sarà l’occasione per fare il punto sulla riforma del Patto di stabilità e crescita. E qui sta il problema. Sul tavolo, c’è la proposta tedesca che il ministro delle Finanze Christian Lindner sta facendo avanzare grazie all’avallo del francese Bruno Le Maire e della presidenza spagnola dell’Ue.
A Roma non piace, per usare un eufemismo. La novità delle ultime ore è che Meloni arriva alla discussione con Scholz stretta nella morsa che Bruxelles le ha costruito intorno con il giudizio espresso oggi dalla Commissione europea sulla manovra economica per il 2024.
Il report presentato oggi a Strasburgo dai commissari Paolo Gentiloni e Valdis Dombrovskis non lascia spazio a dubbi: l’Italia ha un deficit ancora troppo alto, il 4,4 per cento del pil l’anno prossimo. Deve pensare a ridurlo, insieme al debito.
L’aggravante per Meloni è che quell’1 per cento del pil di risparmi ricavati dalla scelta del governo di eliminare i sostegni contro il caro-energia, apprezzata a Bruxelles, non viene utilizzato per ridurre il disavanzo ma per aumentare la spesa primaria.
Per questo la manovra “non è pienamente in linea” con le raccomandazioni europee. Per questo il governo deve porre rimedio. “L’Italia dovrà intraprendere un percorso di consolidamento per riportare il deficit nominale strutturale in linea con le raccomandazioni europee. E per questo è importante raggiungere un accordo sulle nuove regole fiscali”, ci dice una fonte europea che conosce bene il dossier.
Gentiloni usa toni più morbidi. “Non è una bocciatura ma un invito alla prudenza di bilancio e a usare al meglio le risorse comuni europee”, dice il commissario all’economia. E pure Dombrovskis evita di attaccare Roma. Lontanissimi anni luce i tempi del braccio di ferro tra il governo Conte I di Lega e M5s e Bruxelles sulla manovra economica 2019. Peraltro quella finanziaria venne giudicata a rischio di non essere in linea con le raccomandazioni europee, un voto decisamente più basso rispetto a Meloni, un livello di scontro decisamente più alto. Ma l’avvertimento è chiaro, anche se Gentiloni svicola se gli si chiede dell’opportunità di manovre correttive: “I nostri inviti puntano a prendere le misure opportune, ma non a fare manovre correttive”.
Il fatto è che il disavanzo italiano continua a superare la soglia del 3 per cento del pil prevista dalle regole fiscali europee: sia le vecchie che le nuove, come si evince sia dalla stessa proposta della Commissione europea e sia dalla discussione guidata da Francia e Germania. Il rischio è di una procedura per squilibri eccessivi l’anno prossimo.
Decisione che, dice Gentiloni, verrebbe presa non prima della “fine di giugno 2024”, nei confronti dell’Italia e degli Stati membri che non rispettano i parametri Ue. Insomma, dopo le elezioni europee, previste tra il 6 il 9 giugno dell’anno prossimo. Il fiato per la campagna elettorale è assicurato. Dopodiché si aprono le incognite sul baratro dei conti.
La pagella presentata oggi di fatto porta acqua al mulino tedesco sulla riforma del Patto di stabilità. Non è il primo avvertimento nei confronti dell’Italia, che accumula alert di Bruxelles sull’alto debito da prima della pandemia e prima dunque della sospensione delle regole fiscali per la crisi da covid.
Ma è il primo per Meloni, al governo da un anno. E suona come ultima chiamata, nei giorni cruciali della discussione sulla riforma del Patto di stabilità, in vista della riunione dei ministri finanziari europei l’8 dicembre a Bruxelles, preceduta da una cena straordinaria il 7 sera per cercare di trovare un accordo da votare all’Immacolata. Pur con i guanti bianchi e tutte le accortezze del caso per non aprire scontri con un governo che ci metterebbe poco a replicare con slogan anti-europei, il sentiero della politica fiscale di Roma per i prossimi anni è seminato ed è stretto. Meloni ha poche possibilità di sfuggire alla tagliola.
Dire no alla riforma del Patto, come minacciano sia la premier che Giorgetti, non sembra una soluzione. Senza accordo sul nuovo quadro fiscale, l’anno prossimo tornerebbero in vigore le vecchie regole. Le soglie del 3 per cento del pil per il deficit e del 60 per cento per il debito, entrambe ampiamente sforate dall’Italia, sono previste sia nel vecchio regime che nel nuovo che avanza.
Bloccare la riforma della governance servirebbe solo a costruire un clima ostile a livello europeo che non lascerebbe sperare nella concessione di ampie dosi di flessibilità come quelle di cui Roma ha sempre beneficiato in passato.
La premier per ora sta usando l’altra arma che pensa di avere a disposizione: la ratifica della riforma del Meccanismo europeo di stabilità. La strategia è continuare a tenerla in stand by per trattare sulla revisione delle regole fiscali. Oggi l’ultimo rinvio: il provvedimento era in programma per giovedì in aula alla Camera, ma slitta ancora. Ufficialmente per via dei tempi di discussione sulla fiducia sul decreto milleproroghe. Politicamente, è il viatico con cui Meloni si presenta a Berlino per cercare di strappare concessioni a Scholz.
Al momento, nel piano franco-tedesco, sostenuto dalla presidenza spagnola dell’Ue, c’è poco o nulla per l’Italia. Lo scomputo delle spese dal calcolo del deficit chiesto da Giorgetti è respinto al mittente dalla tolda di comando ‘frugale’ dell’Ue, Germania e Olanda.
Le spese per il Pnrr, quelle per la difesa e anche gli investimenti per i fondi nazionali aggiuntivi al piano di ripresa e resilienza figurano solo come ‘fattori rilevanti’ per evitare la procedure per squilibri eccessivi e giustificare un aumento della spesa primaria, il criterio di valutazione principale del nuovo Patto di stabilità considerato come tale già nel report di oggi sulla manovra. Va da sé che non si tratta di un vero e proprio scorporo, ma semmai di una concessione ex post.
Sulla carta c’è la possibilità di evidenziare le contraddizioni di Bruxelles, che da un lato proroga la possibilità di utilizzare gli aiuti di Stato per andare incontro alle imprese contro il caro-energia, come ha annunciato la Commissione europea ieri, e dall’altro invita gli Stati membri a eliminare tale sostegno pubblico per ridurre il disavanzo.
Ma si sa: certe concessioni valgono solo per chi ha spazio fiscale per sfruttarle. Dunque per la Germania, malgrado anche a Berlino abbiano problemi di spesa, come dimostra la recente sentenza della Corte Costituzionale tedesca, spietata sui trucchi contabili della coalizione semaforo. Ma questo non ha scalfito l’impostazione severa del ‘falco’ Lindner sulla riforma delle regole fiscali. Per Roma non c’è un giudice a Berlino. E nemmeno a Karlsruhe.
(da Huffingtonpost)
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Novembre 22nd, 2023 Riccardo Fucile
COMINCIATE LE GRANDI MANOVRE PER LE REGIONALI, PREPARIAMOCI AI FUOCHI D’ARTIFICIO
In gioco non ci sono solo cinque poltrone da governatore regionale in Sardegna, Piemonte, Abruzzo, Basilicata e Umbria. Dietro allo stridor di denti di Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani c’è ben altro. C’è l’intenzione della premier, in ragione dei nuovi rapporti di forza, di andare alla conquista di una grande Regione del Nord affermando l’egemonia di Fratelli d’Italia nel cuore dell’Italia produttiva.
Per l’esattezza nel Veneto, guidato da quasi quattordici anni dal leghista Luca Zaia. Ma non ora, nel 2025 e senza dirlo prima a Salvini. Sia per evitare al leader del Carroccio un travaso anticipato di bile, sia per non terremotare prematuramente la coalizione.
“In Veneto si vota tra un anno e mezzo: un tempo che in politica rappresenta un’era geologica”, dice a HuffPost Giovanni Donzelli, braccio destro di Meloni, “dunque ne parleremo a tempo debito. Se ne discutessimo adesso esploderebbe il caos…”
Donzelli, che per FdI cura il dossier, fa bene a essere prudente. I nervi nel centrodestra sono già molto tesi. E lo sono, guarda caso, per le sgomitate e i colpi bassi tra alleati al Nord: il prequel (chiamatelo anche antipasto) della resa dei conti che scatterà nel 2025. In palio: la presa del Settentrione.
Ricapitolando. Tutto nasce dello sgarbo di Maurizio Fugatti, appena rieletto presidente della Provincia di Trento: il leghista aveva promesso il posto di vicepresidente alla meloniana Francesca Gerosa ma poi, incassata la rielezione, le ha preferito il fedelissimo della sua lista civica Achille Spinelli. Giorgia Meloni, si sa, non è tipo da incassare senza reagire. Così due-tre giorni fa ha dato mandato a Donzelli e ai suoi colonnelli di regolare i conti in vista delle regionali del prossimo anno: Abruzzo, Sardegna, Basilicata, Piemonte tra marzo e giugno, Umbria in ottobre. E di regolarli in ragione dei nuovi rapporti di forza: “Salvini deve capire che non è più al 30% delle europee 2019…”, dicono nel quartier generale di Fratelli d’Italia di via della Scrofa.
Un ragionamento che porta Meloni & C. a dare il ben servito al governatore autonomista sardo, legato a Salvini, Christian Solinas.
La reazione del vicesegretario lumbard Andrea Crippa ieri è stata perentoria e minacciosa: “C’era un accordo per riconfermare tutti gli uscenti. Se si tocca la Sardegna si rimette in discussione tutto. Noi non possiamo accettare e non accetteremo veti!”.
Ma quelli di FdI nel day after non si mostrano intimoriti: “Salvini manda Crippa all’attacco ma sa benissimo che con Solinas, che ha problemi politici e giudiziari, si perde sicuro”, dicono in via della Scrofa, “dunque, la Lega si dia una calmata. Altrimenti dovrà rinunciare anche alla Tesei, quando nel prossimo autunno si voterà in Umbria”.
Meloni ha pronto il nome per sostituire Solinas: il sindaco di Cagliari Paolo Truzzu, FdI. “È il migliore e noi puntiamo sui candidati migliori”, certifica Donzelli. In più la premier non sembra, al momento, avere alcuna intenzione di ricompensare Salvini offrendogli la Basilicata o il Piemonte dove governano i forzisti Vito Bardi e Alberto Cirio, entrambi destinati alla riconferma nonostante il maldipancia leghista. Dunque: Sardegna, Abruzzo (dove governa Marco Marsilio) a FdI, Piemonte e Basilicata a Forza Italia, Umbria alla Lega.
Davvero poco per Salvini. Perciò è considerato probabile un feroce braccio di ferro dal quale Tajani potrebbe uscire “ridimensionato”, come dice una fonte di rango leghista. “Ma Antonio è fortunato”, è l’aggiunta velenosa, “se si votasse prima delle elezioni europee del 9 giugno rischierebbe di esserlo ancora di più…”. Chiaro il riferimento alle aspettative di Forza Italia in forte calo, orfana di Silvio Berlusconi.
Lo sguardo rivolto alle elezioni europee ha un significato ben preciso. Il voto di giugno sarà una sorta di spartiacque per il centrodestra. Ad attenderlo con trepidazione è soprattutto Meloni. Perché rappresenta un decisivo test di midterm per il suo governo, tant’è che è corsa ad alzare le bandiere del premierato e della delocalizzazione dei migranti in Albania per scippare voti alla Lega.
E perché i nuovi rapporti di forza, pesati e cristallizzati a giugno, varranno quando si tratterà di decidere i candidati alle regionali del 2025. Una tornata ben più importante di quella dei prossimi mesi: si voterà in Campania, Emilia Romagna, Liguria, Marche, Puglia, Toscana, Veneto. E Meloni, secondo diverse fonti di FdI e della Lega, punta sulla Campania, vuole fare il colpo grosso espugnando Toscana ed Emilia Romagna. E, soprattutto, sogna il Veneto.
Inutile dire che soltanto la prospettiva di perdere la Regione del Nord-Est fa venire l’orticaria a Salvini: per il vicepremier e ministro dei Trasporti sarebbe un colpo mortale. Ma se FdI, come sembra, alle europee si attesterà tra il 28 e il 30%, Meloni potrà vantare, a maggior ragione, il diritto di rivendicare una grande Regione del Nord. E con la Lombardia alla Lega e il Piemonte a Forza Italia rimane, appunto, solo il Veneto.
Da notare che Zaia governa ininterrottamente dal 2010, perciò è già al terzo mandato e vorrebbe fare il quarto. Con una legge regionale del gennaio 2015, con cui ha introdotto il limite dei due mandati, il governatore leghista ha però azzerato la situazione. Tant’è che ora Zaia viene considerato al secondo mandato, al pari del campano Enzo De Luca, del pugliese Michele Emiliano, del lombardo Attilio Fontana, dell’emiliano Stefano Bonaccini, del ligure Giovanni Toti e del friulano Massimiliano Fedriga. Da qui la richiesta della Conferenza delle Regioni di portare a tre il limite di mandati.
Meloni, però, che non ha governatori “anziani”, non appare intenzionata ad ascoltare l’invocazione bipartisan dei presidenti regionali. “L’opzione di portare a tre i mandati non è né allo studio, né in calendario. Dunque…”. Dunque? “Salvini dovrà farsene una ragione, Zaia non potrà essere ricandidato. Sarebbe governatore per un ventennio…” dice una fonte di rango di FdI.
Sintesi estrema della strategia di Giorgia: riequilibrio adesso delle poltrone regionali, asso pigliatutto dopo le europee. A partire dal 2025. Ha però ragione Donzelli: un anno e mezzo in politica è come un’era geologica.
(da Huffingtonpost)
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Novembre 22nd, 2023 Riccardo Fucile
PESA ANCHE LA CARENZA DI MEDICI: “IL 40% VORREBBE ANDARE ALL’ESTERO PER GLI STIPENDI PIU’ ALTI”
Nel 2022, quasi la metà delle famiglie italiane (il 47,9%) ha dovuto
rinunciare almeno parzialmente a un servizio sanitario per i costi delle prestazioni o per le liste di attesa troppo lunghe. Lo ha ricordato Elena Bottinelli, Head of Digital transition and transformation del Gruppo San Donato, nel discorso con cui sabato 18 novembre ha inaugurato l’anno accademico 2023-2024 della Scuola Imt Alti Studi di Lucca. Nella sua lectio magistralis, la dirigente del gruppo San Donato ha affrontato le sfide (presenti e future) che la sanità italiana si trova ad affrontare. E per farlo al meglio, Bottinelli ha suggerito di ripartire dai tre principi fondanti del Servizio sanitario nazionale, introdotto in Italia nel 1978: universalità, uguaglianza ed equità. «È arrivato il momento di sfruttare la trasformazione digitale della sanità per mettere a punto nuovi modelli organizzativi e di finanziamento che consentano di mantenere i cardini del Sistema sanitario nazionale», ha detto Bottinelli agli studenti della Imt di Lucca.
La carenza di medici
Quando si parla di futuro della sanità italiana, Bottinelli vede innanzitutto due sfide: una sociale e una digitale. Per quanto riguarda la prima, la preoccupazione è duplice: da un lato il progressivo invecchiamento della popolazione, dall’altro la carenza di personale sanitario. La media nazionale di infermieri è di 6,2 ogni 1000 abitanti, ben al di sotto della media Ocse del 9,9%. A pesare, almeno nel caso dell’Italia, è il problema degli stipendi. «Il 40% dei medici oggi sarebbe interessato a svolgere la professione all’estero, non solo per fare un’esperienza qualificata, ma anche per il miglior trattamento economico e la maggiore considerazione riconosciuta e riservata ai professionisti medici», spiega la dirigente del gruppo San Donato nella sua lectio magistralis.
Disuguaglianze (di reddito e geografiche)
A pesare poi sono anche le disuguaglianze sociali. Secondo un’indagine di Cerved, 10 milioni di famiglie a basso reddito, prevalentemente nelle regioni del Sud, segnalano ritardi e difficoltà di accesso ai servizi pubblici. Ne consegue che sempre più cittadini sono costretti a rivolgersi alla sanità privata. O meglio, solo chi può permetterselo. «La condizione economica incide notevolmente sulla propensione ad utilizzare servizi sanitari a pagamento, ma è significativo che il fattore determinante ancora più del reddito, sia l’area geografica e che le prestazioni private siano scelte maggiormente nel sud e nelle isole», osserva Bottinelli. Al Sud, le famiglie che utilizzano le prestazioni private per le visite mediche sono il 63% contro il 48% al nord.
Il ruolo delle aziende e dello Stato
Per migliorare i servizi offerti dal sistema sanitario nazionale, Bottinelli suggerisce due soluzioni. La prima passa dalle imprese: «Il welfare aziendale può contribuire a razionalizzare la spesa privata aggregando le famiglie dei lavoratori, trasformando una parte della spesa individuale in collettiva», spiega la dirigente. La seconda strada passa invece da un aumento della spesa pubblica, che serva ad ammodernare il Ssn sia in termini di investimenti nelle strutture sanitarie sia per «costruire un nuovo modello di sanità». Incrementare la spesa pubblica, ricorda Bottinelli, «significa anche espandere l’occupazione». Ad oggi infatti il servizio sanitario è uno dei più importanti datori di lavoro in Italia, con 670mila addetti e oltre 57mila medici generici, titolari di guardie mediche e pediatri di libera scelta.
La sfida digitale
Accanto alle questioni sociali ed economiche restano però le sfide digitali. Un aiuto fondamentale in questo caso arriva dal Pnrr, che ha destinato alla «missione Salute» 15,6 miliardi di euro, pari all’8,16% del totale. Le direttrici di questi investimenti sono essenzialmente quattro: potenziare il Fascicolo sanitario elettronico, realizzare infrastrutture digitali, diffondere la telemedicina e formare adeguatamente cittadini e operatori sanitari. «La digitalizzazione pianificata nel Piano Nazionale di Resistenza e Resilienza deve essere vista sia come uno strumento per integrare le prestazioni effettuate nei vari setting pubblici e privati, sia come la possibile soluzione per favorire la comunicazione tra medico e paziente», aggiunge Bottinelli. Accanto a tutto ciò, una sanità più digitale e al passo con i tempi permetterebbe anche di «ridurre il ricorso alle prestazioni in urgenza non necessarie e promuovere la prevenzione». E basterebbe questo, conclude la dirigente del Gruppo San Donato, «per ridurre del 50% la prevalenza di alcune malattie croniche e ritardarne l’insorgenza anche di 20 anni».
(da Open)
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Novembre 22nd, 2023 Riccardo Fucile
SOLO NEL 2022 CI SONO STATI 3.159 MORTI SULLE STRADE: EPPURE LA MAGGIOR PARTE DEI NOSTRI COMPATRIOTI SI DA’ UN “9” COME PILOTI
Ci diamo un 9 come piloti — alla Verstappen o alla Leclerc — ma giudichiamo da 5,5 il comportamento degli altri al volante. La versione rovesciata delle nostre responsabilità alla guida, dove abbiamo sempre ragione e mai torto, spiega perché fermare la strage sulle strade — 3.159 morti nel 2022; dati Istat — richiede una vera rivoluzione culturale.
Lo studio su un campione di 4.000 intervistati, condotto da Csa Research, rivela dati inquietanti. Ad esempio emerge che il 10% degli italiani gira un video con lo smartphone mentre è al volante[…] Il distanziamento minimo tra i veicoli è quasi sconosciuto: su un totale di oltre 102 mila veicoli al giorno osservati lungo tre direttrici stradali in gestione ad Anas, nel 38,5% dei casi la distanza di sicurezza non è stata rispettata. Il 50,9% non usa le «frecce» per segnalare un sorpasso, il 72,6% non usa le cinture di sicurezza sui sedili posteriori anche se sono obbligatorie.
“Il 10% degli italiani mentre è al volante gira un video con il cellulare. Tra questi, il 3,1% ha ammesso di averlo fatto in prima persona alla guida del proprio veicolo, mentre il 6,9% ha dichiarato di essere stato a bordo di un mezzo mentre il conducente filmava”. È il dato che emerge dalla terza edizione della ricerca sugli stili di guida degli utenti, commissionata da Anas (società del Polo Infrastrutture del Gruppo Fs) e condotta da Csa Research – Centro Statistica Aziendale – con interviste su un campione di 4mila persone e con oltre 5mila osservazioni dirette su strada, presentata oggi nell’ambito del convegno “Sicurezza stradale: obiettivo zero vittime”.
Del 3,1% che ha affermato di aver utilizzato il cellulare mentre guidava per fare riprese video, fanno parte in egual misura sia uomini sia donne in una fascia d’età compresa tra i 24 e i 44 anni, con punte più elevate tra i 25 e ianni. Lo stesso vale per il 6,9% di utenti che ha sostenuto di essere stato a bordo mentre il guidatore filmava: la percentuale più elevata riguarda le donne tra i 25 e i 34 anni. Il convegno è stato organizzato da Anas, Piarc (Associazione mondiale della strada) e Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in occasione della Giornata mondiale in ricordo delle vittime della strada. hanno partecipato il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini, il Presidente di Anas e di Piarc Italia Edoardo Valente, l’Ad di Anas Aldo Isi, Paolo Crepet Psicologo e Sociologo, il giornalista Luca Valdiserri.
Tra gli altri dati, “maglia nera” per il distanziamento minimo non rispettato. Su un totale di oltre 102 mila veicoli al giorno osservati lungo tre direttrici stradali in gestione ad Anas, nel 38,5% dei casi la distanza di sicurezza non è stata rispettata. Da un’analisi più dettagliata sul tipo di veicolo con cui si commette l’infrazione è emerso che i più indisciplinati sono i conducenti delle berline: oltre il 64% non usa le frecce né per manovra di sorpasso né per quella di rientro. Si tratta di una percentuale ben superiore alla media globale pari al 50%.
Ancora, tra i comportamenti scorretti spicca il mancato utilizzo delle cinture di sicurezza da parte del conducente (10,6%) e soprattutto dei passeggeri posteriori (72,6%); il mancato uso dei seggiolini per i bambini (46,8%).
“I dati preoccupanti evidenziati quest’anno dalla ricerca Anas sugli stili di guida – ha dichiarato l’amministratore delegato della società Aldo Isi – denotano come gran parte della responsabilità sia imputabile al fattore umano. Oltre al forte impegno nel continuare a sensibilizzare gli utenti sull’importanza di una guida prudente, sicura e senza distrazioni, Anas sta lavorando per potenziare ulteriormente gli standard di sicurezza della propria rete garantendo, come sempre, la manutenzione ordinaria delle infrastrutture e puntando anche sull’innovazione tecnologica”.
“Un dato significativo della ricerca – ha concluso Isi – è la percezione di sé mentre si è alla guida, di gran lunga superiore a quella che si ha degli altri. Il giudizio sui propri comportamenti al volante, in una scala da 1 a 10, raggiunge un gradimento medio prossimo al 9. La percezione degli automobilisti italiani è quindi che gran parte degli altri guidatori vadano troppo veloce e utilizzino il cellulare mentre sono al volante”.
(da agenzie)
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