Giugno 4th, 2024 Riccardo Fucile
500.000 EURO DI FONDI PUBBLICI PER FINANZIARE LA SFILATA E I VESTITI “IN PRESTITO” ALLA SOTTOSEGRETARIA DALLA CASA DI MODA (MA I RADICAL CHIC NON ERANO GLI ALTRI?)
Rivendicano di aver tagliato gli sprechi della “casta dei radical chic di sinistra” ai film e agli eventi di nicchia per gli amici degli amici. I paladini della destra del rigore però non batton ciglio se mezzo milione di fondi pubblici vengono usati per l’evento privato di una stilista amica loro.
Anche se veste da capo a piedi chi sta in cima ai ministeri che lo finanziano, magari con la formula furbetta dei “capi in prestito”. Basta non si sappia in giro, che non sta bene. Infatti, questa storia esce giusto dal fango
La sera del 26 maggio 2023 l’Emilia-Romagna affonda ancora nell’abisso portato dalla pioggia, ma nel centro di Rimini si accendono i riflettori e dalla porta di Castel Sismondo, come nulla fosse, escono modelle avvolte in abiti leggeri, trame di seta e veli di chiffon: va in scena “Ferretti Resort24”, la sfilata-evento con cui la stilista romagnola Alberta Ferretti, fondatrice del gruppo quotato Aeffe, svela la sua nuova collezione. In prima fila spiccano il ministro del Turismo, Daniela Santanchè, e la sottosegretaria alla Cultura, Lucia Borgonzoni.
Il Fatto scopre poi che quel ministero aveva contribuito all’evento con 90 mila euro. Solo ora da altre fonti si scopre che i ministeri generosi in realtà erano due, che rispondono alle due donne della politica ben in vista alla sfilata. Il secondo è un contributo per “servizi” di 305 mila euro erogato dal ministero della Cultura e pagato da Cinecittà il 4 aprile scorso. La causale: “Realizzazione sfilata-evento Rimini”. Cinecittà precisa però di aver svolto “solo un ruolo di supporto amministrativo”, giacché progetto e fondi sono della dg Cinema e Audiovisivo, dove la Borgonzoni è di casa, avendo le deleghe per cinema e moda.
Da lì è uscito un “progetto speciale” che unisce Fellini alla sfilata: “Il comune genius loci tra Alberta Ferretti e il Maestro Fellini, entrambi nati a Rimini, e il connubio moda/cinema, molto ricercato per questa collezione…”, è la giustificazione all’ulteriore contributo.
Contando i 90 mila euro dell’Azienda Turistica dell’Emilia-Romagna, la sfilata è costata mezzo milione di fondi pubblici. Altre cifre sono imbarazzanti
Nonostante la tragedia in corso, il Gruppo Ferretti e le istituzioni patrocinanti avevano scelto di non cancellare l’evento per “dimostrare la resilienza” del popolo romagnolo, annunciando una raccolta fondi per l’emergenza e la vendita di felpe disegnate ad hoc dalla Ferretti con la scritta “Io ci sono”, che naturalmente Santanchè e Borgonzoni indossano a favor di telecamere.
Aeffe comunicò poi al Fatto che le felpe fruttarono 57 mila euro soltanto, mentre nulla finora si sapeva sul conto ministeriale “Emergenza alluvione” aperto da Cinecittà.
Cinque mesi dopo da via Tuscolana partirono due bonifici ai Comuni di Villafranca e Sant’Agata sul Santerno per 300 mila euro destinati al ripristino di due palazzine. Per il “popolo degli alluvionati” furono dunque raccolti meno fondi di quanti lo Stato ne avesse versati al Gruppo Ferretti che fattura 350 milioni l’anno.
Tornando a quella serata, l’occhio cade sul vestito: la Santanchè, amica della stilista, si presentò con un completo Ferretti. Solo i pantaloni adornati di paillette e pietre costano quasi 4 mila euro. Magari lei li paga, diversamente da quelli che la Borgonzoni, amica e conterranea della stilista, sfoggia nelle occasioni istituzionali e di gala cui è chiamata a partecipare in virtù della sua carica: ad esempio quello arancione in seta ricamata sul red carpet della Mostra del Cinema, e quello turchese indossato l’indomani.
Mandiamo le foto delle politiche-indossatrici a Francesco Francavilla, capo comunicazione di Aeffe Spa: “I capi indossati da personaggi sui tappeti rossi fanno parte di un guardaroba dell’ufficio stampa che li mette a disposizione per gli indossi e poi li recupera”.
Però chi li recupera, come e quando non lo dice. L’ultimo messaggio è: “Lo facciamo come tutte le case di moda”. Le foto le giriamo alla Borgonzoni. “Non mi è stato regalato! – risponde piccata – Spero un giorno di essere contattata da lei per qualcuno dei tanti provvedimenti che seguo come sottosegretario. Buon lavoro”.
Il suo entourage si precipita a parare il colpo d’immagine del sottosegretario con delega alla moda che si fa “prestare” i vestiti dalle case di moda, compresa quella che il suo ministero finanzia. “Così fan tutti” è il refrain, ma lei non lo farà più per evitare “fraintendimenti”.
(da il Fatto Quotidiano)
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Giugno 4th, 2024 Riccardo Fucile
DAGLI ATTACCHI ALLA BCE ALLE LODI A DRAGHI
Serve un identikit del senatore leghista Claudio Borghi. Chi è, chi non è. Ancora una volta? Ancora una volta. Sono due giorni che il tipo va in giro a chiedere le dimissioni del nostro Capo dello Stato, Sergio Mattarella
Va bene.
Allora, facciamo così: volti pure pagina chi sa già tutto su questo cocco di Matteo Salvini, vero pilastro della sua truppa d’élite (con lui, quel gigante di Alberto Bagnai e il generale Vannacci, più Andrea Crippa, il vice-segretario tutto muscoli e braccialetti, sorrisone alla Jim Carrey e un fidanzamento con Anna Falchi, sobriamente annunciato a Radio Libertà).
Gli altri provino invece a immaginare un furbastro con la parlantina del furbastro. Che nei talk tv va fortissimo (anche qualche ora fa, all’Aria che tira, su La7, eccolo che straparla da una spiaggia deserta, ombrelloni chiusi e supercazzole a raffica, per ribadire i suoi ragionamenti un po’ comici, un po’ sovversivi: «L’Italia è una Repubblica anti-democratica fondata sulla burocrazia…»).
Ex fattorino, ex agente di cambio, ex broker, ex agente della Deutsche Bank, ex docente a contratto di Economia e mercato all’Università Cattolica e, per hobby — diciamo così — a sua volta mercante d’arte. La vita gli cambia una notte di dieci anni fa.
È sprofondato sul divano, in pantofole, con gli occhialini tondi scesi sul naso, la felpa, forse una busta di patatine fritte (su questo dettaglio, c’è incertezza). All’improvviso, il cellulare comincia a squillare. Numero sconosciuto. Rispondo, non rispondo. Okay, vediamo: chi è? «Ciao, sono Matteo… Matteo Salvini. Disturbo?». A certi sarebbe sembrato un film di Dario Argento. Borghi -—d’istinto — capisce che è un colpo di fortuna. Disturbare? Nemmeno a dirlo. «Bene. Perché, ecco, volevo chiederti una cosa: hai voglia di spiegarmi queste tue strane idee sull’euro?».
La mattina dopo, Borghi è lì che tiene una lezioncina privata al suo futuro boss. Che decide di pancia (in senso lato): infila nel cestino dei rifiuti il suo vecchio libro guida, Il sacco del Nord di Luca Ricolfi, e inizia a leggersi, anzi proprio a studiare a memoria, la bibbia degli euroscettici: Il tramonto dell’euro di Alberto Bagnai (la combriccola si sta componendo, e su Bagnai torneremo tra qualche capoverso: perché è un personaggetto niente male).
Salvini, intanto, è entusiasta di Borghi. Lo invita a convegni, cene, riunioni di partito. Insieme partecipano al No euro day di Milano del 2013. C’è stima, e amicizia. Borghi — cinico, spregiudicato, furbissimo — prova a passare all’incasso: subito si candida alle Europee del 2014 e però, niente, non ce la fa. Un anno dopo, prova allora a diventare governatore della Toscana: ma va di nuovo a sbattere. Nel 2017 cambia piano di volo, s’abbassa di quota, e sembra accontentarsi del Consiglio comunale di Como. È un trucco. Ha Montecitorio nel mirino ed è lì che alla fine sbarca, trionfale, con il suo mantra: «Dobbiamo uscire dall’euro».
Inevitabile che faccia ticket con Bagnai. Questo Bagnai — 61 anni, modesto suonatore di clavicembalo ai festival di musica barocca, senatore e docente all’Università di Pescara — è noto alla comunità scientifica solo ed esclusivamente per la sua forsennata battaglia contro l’Eurozona. Arrogante e grifagno, spesso minacciosetto contro chiunque osi criticarlo. Il collega Tommaso Monacelli della Bocconi ci prova. E lui, Bagnai, su X (all’epoca, Twitter): «Gli facciamo un bel cappottino di abete» (per alludere, simpaticamente, a una bara).
Odiano l’euro e la Bce, scrivono e dicono cose terrificanti. Poi, il pomeriggio in cui Mario Draghi riceve l’incarico di presidente del Consiglio, noi cronisti li becchiamo mentre vengono giù in completa letizia per via degli Uffici del Vicario, stretta stradina di sampietrini sotto il Parlamento, uno avanti e l’altro dietro. «Draghi è Ronaldo. Un fuoriclasse», dice quello più basso, cioè Borghi. E l’amichetto: «Draghi? Draghi l’ho sempre stimato».
Sono persone splendide, coerenti, ragionevoli. Infatti, di botto, da No euro diventano No vax (anche se tutti, compresi i governatori leghisti Zaia e Fedriga, impegnati sul fronte anti-Covid, hanno sempre avuto il sospetto che un paio di siringate salvifiche se le sia sparate pure lui, il Borghi). Ma poi, a pandemia superata, tornano a essere feroci nemici dell’Europa.
Immagini recenti: a Natale, quando il governo italiano boccia il Mes, Borghi sghignazza nel salone Garibaldi, il transatlantico di Palazzo Madama. «Trallallerò trallalà! E presto torneremo pure alla lira!». Poi, domenica, l’insolenza nei confronti del presidente Mattarella.
Mentre Salvini, dopo un teso (eufemismo) confronto con la premier Giorgia Meloni, prova a stemperare, Borghi va a Radio24 e conferma tutto, ogni parola.
Poi, accende il computer e si collega a X, la sua giostra preferita. E, tronfio, cinguetta: «Ringrazio i tanti che stanno scrivendo #iostoconBorghi…». Allora per curiosità vai a vedere chi sono. Eccoli, gli account dei suoi fan: ErCavajerenero, Il lupo bisbetico, Regina delle Nevi…
Fate voi.
Fabrizio Roncone
(da corriere.it)
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Giugno 4th, 2024 Riccardo Fucile
“È UN AMMIRATORE DI LUNGA DATA DI VLADIMIR PUTIN E IL SUO PARTITO HA FIRMATO UN ACCORDO NEL 2017 CON RUSSIA UNITA, IL PARTITO DEL PRESIDENTE RUSSO”
Matteo Salvini, vice primo ministro italiano, ha attaccato martedì Emmanuel Macron pubblicando un fotomontaggio del presidente francese in equipaggiamento da combattimento e armato di fucile d’assalto, accusandolo di voler spingere l’Europa nella guerra con la Russia.
“Un’escalation militare e soldati italiani al fronte su ordini di pericolosi “bombaroli”? No grazie», ha scritto sul suo account X il leader nazionalista di destra il cui partito, la Lega, appartiene alla coalizione di governo guidata da Giorgia Meloni.
Accanto alla foto che rappresenta il capo dello Stato francese nelle vesti di un combattente con l’elmetto, in uniforme con i colori dell’Unione Europea sotto un gilet tattico, appare un ritratto di Salvini in un comizio elettorale, con il braccio alzato e un rosario in mano. «Sì all’impegno dell’Italia per la pace, al rifiuto della guerra previsto dalla Costituzione, ispirandosi alla coscienza morale collettiva e alla nostra tradizione cristiana», aggiunge Salvini, che invita gli elettori a scegliere la Lega per «più Italia e meno Europa».
In vista delle elezioni europee del 9 giugno, la Lega fatica nei sondaggi. Nonostante avesse raccolto più del 34% nel 2019, questa formazione è accreditata intorno all’8% dei voti, molto indietro rispetto a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. La Lega fa parte, insieme al Rassemblement National francese (RN), del gruppo Identità e Democrazia al Parlamento Europeo.
Ammiratore di Vladimir Putin
Salvini è abituato agli attacchi contro Macron, che accusa di essere un “guerrafondaio” che vuole inviare truppe occidentali in Ucraina per combattere la Russia. Lunedì lo ha definito “pazzo” e all’inizio di maggio gli ha consigliato di “farsi curare”. Andando sistematicamente controcorrente rispetto alla politica pro-Kiev di Giorgia Meloni, di cultura atlantista, Salvini è un ammiratore di lunga data di Vladimir Putin e il suo partito ha firmato un accordo nel 2017 con Russia Unita, il partito del presidente russo.
Pur condannando l’invasione russa dell’Ucraina, ha espresso commenti controversi sulla rielezione di Putin (“Quando un popolo vota, ha sempre ragione”) e sulla morte in carcere di Alexei Navalny, il principale oppositore del Cremlino, affermando che spetta a “medici e giudici” russi fare luce sulle circostanze della sua morte. L’Italia resta comunque contraria all’invio di truppe occidentali in Ucraina e all’uso delle sue armi in territorio russo.
(da Le Figaro)
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Giugno 4th, 2024 Riccardo Fucile
SCHILLACI, DA QUANDO È MINISTRO, NON È RIUSCITO A PORTARE A CASA NULLA, TRA FONDI CHE NON GLI VENGONO RICONOSCIUTI E NOMINE DISCUTIBILI IMPOSTE DALLE CORRENTI DI FDI
Un decreto dimezzato, praticamente senza risorse o comunque con risorse non adeguate, oggi arriva al Consiglio dei ministri.
Il decreto legge per tagliare le liste d’attesa, annunciato tante volte dal ministro della Salute, rinvia al futuro molte misure, quelle legate ai soldi. Ancora una volta, Orazio Schillaci paga il suo status di tecnico nel governo. È medico, ex rettore a Tor Vergata, e ha le idee chiare su come muoversi, ma per lui è difficilissimo fare la voce grossa nella maggioranza.
Tra fondi che non gli vengono riconosciuti e nomine discutibili imposte dalle correnti di FdI, da quando è in carica non ha portato a casa nulla di veramente significativo.
L’idea era fare un decreto sulle liste di attesa prima delle Europee. La carenza di soldi ha suggerito di spacchettarlo, tenere alcune misure e inserirne altre in un assai più lento disegno di legge. Oggi dovrebbero essere annunciati il nuovo sistema di monitoraggio delle liste, la possibilità per Agenas (l’agenzia delle Regioni) di fare audit nelle Asl, il Cup (Centro unico di prenotazioni) regionale e nazionale.
Il passaggio più interessante dice che, se visite ed esami non sono assicurati nei tempi previsti, «le Asl garantiscono al cittadino la prestazione in intramoenia o nel privato accreditato». Per la misura però servono soldi (si stima un miliardo) e così le modalità di applicazione saranno definite più avanti.
Si annuncia l’innalzamento del tetto di spesa per le assunzioni con la promessa che dal 2025 sarà eliminato. Critiche le Regioni.
Guido Bertolaso, assessore alla Salute della Lombardia, realtà non nemica del governo, ha detto: «Non siamo di fronte a una rivoluzione rispetto ai problemi che gestiamo quotidianamente. Se queste sono le novità stiamo partorendo un topolino».
Il progetto era ambizioso: ridisegnare due aspetti fondamentali della sanità, cioè gli standard dell’assistenza territoriale e di quella ospedaliera. A inizio luglio dell’anno scorso il ministro ha nominato primo tavolo di esperti, tutti uomini Ben 76 persone si sono riunite e hanno discusso le riforme. Da mesi gli incontri si sono interrotti. Nessuno ha avuto più notizie dei risultati, neanche i partecipanti.
In alcuni casi la maggioranza ha palesemente bloccato le proposte del ministro. A gennaio 2023 Schillaci, che è un medico e conosce bene i danni del fumo, annunciava una stretta sulle sigarette, in particolare il divieto anche all’aperto se ci sono donne incinte e bambini e lo stop alla pubblicità di quelle elettroniche. Nulla di fatto, tutto bloccato.
E grandi polemiche, nella maggioranza, ha provocato anche la bozza del nuovo Piano pandemico. È stata presa di mira da esponenti di Lega e FdI perché, come chiede l’Oms, prevedeva, in caso di una nuova pandemia, una serie di misure del tutto simili a quelle adottate dall’Italia quando all’opposizione c’era l’attuale maggioranza
Anche qui è arrivato lo stop.
Il governo ha tolto 1,2 miliardi del Piano complementare collegato al Pnrr destinati alle Regioni dal programma “Verso un ospedale sicuro e sostenibile”, che finanzia interventi per l’antisismica e l’antincendio.
SANITÀ SPACCA L’ITALIA, A REGGIO CALABRIA SODDISFATTO SOLO 18% ISTAT, BOLOGNA AL TOP OLTRE 70%, AL SUD PERCENTUALI SOTTO IL 50%
La soddisfazione dei cittadini italiani per i servizi sanitari mostra un Paese spaccato in due e “sembra riflettere lo storico divario Nord-Sud”. Lo rileva l’Istat nel Focus sulla qualità della vita nella città italiane nel 2023. Le città settentrionali presentano percentuali di cittadini soddisfatti per la sanità che superano in quasi tutti i casi il 60%, mentre nelle città del Sud sono tutte inferiori al 50%.
Le quote di soddisfatti per i servizi sanitari oscillano tra il 30 e il 40% a Napoli, Catania, Palermo, Messina e Cagliari. Percentuali ancora più contenute sono rilevate a Sassari, Taranto e Reggio Calabria (che con il 18,2% riporta il valore minimo). In una situazione intermedia si trovano invece Roma e Genova (con percentuali attorno al 50%). Nei contesti urbani italiani, il gradimento più alto (oltre il 70%) per i servizi sanitari si registra a Bologna, seguita da Verona, Firenze, Trieste e Parma.
La soddisfazione dei cittadini italiani per i servizi sanitari mostra un Paese spaccato in due e “sembra riflettere lo storico divario Nord-Sud”. Lo rileva l’Istat nel Focus sulla qualità della vita nella città italiane nel 2023. Le città settentrionali presentano percentuali di cittadini soddisfatti per la sanità che superano in quasi tutti i casi il 60%, mentre nelle città del Sud sono tutte inferiori al 50%. Le quote di soddisfatti per i servizi sanitari oscillano tra il 30 e il 40% a Napoli, Catania, Palermo, Messina e Cagliari.
Percentuali ancora più contenute sono rilevate a Sassari, Taranto e Reggio Calabria (che con il 18,2% riporta il valore minimo). In una situazione intermedia si trovano invece Roma e Genova (con percentuali attorno al 50%). Nei contesti urbani italiani, il gradimento più alto (oltre il 70%) per i servizi sanitari si registra a Bologna, seguita da Verona, Firenze, Trieste e Parma.
(da La Repubblica)
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Giugno 4th, 2024 Riccardo Fucile
UNA MOLTIPLICAZIONE DELLE POLTRONE CHE RAFFORZA LA PRESA INTERNA DI VALERIA VITTIMBERGA, NEO DIRETTORE GENERALE CHE VANTA UN RAPPORTO DI VECCHIA DATA CON GIOVANBATTISTA FAZZOLARI, DAI TEMPI DEL FRONTE DELLA GIOVENTÙ
Prende forma l’Inps dell’era Meloni. Giovedì scorso il Cda ha approvato una delibera che riorganizza l’Istituto di previdenza guidato da Gabriele Fava. Creando tre nuove direzioni centrali e portando i direttori di prima fascia a 42.
Dando così il via a un risiko di nomine che rafforza la presa interna di Valeria Vittimberga, neo direttore generale in virtù di un rapporto consolidato e di vecchia data, dai tempi del Fronte della gioventù, con Giovanbattista Fazzolari, uomo forte di FdI, sottosegretario di Palazzo Chigi e braccio destro della premier.
Lo spacchettamento
Due delle tre nuove direzioni centrali derivano da uno spacchettamento di direzioni esistenti. Vengono cioè separate le direzioni di “Patrimonio e investimenti” e “Inclusione e invalidità”: i rispettivi direttori raddoppiano di conseguenza da due a quattro. La terza nuova direzione centrale nasce invece per supportare il presidente Fava e si chiama “Direzione centrale segreteria del presidente e del Cda” e dovrebbe essere guidata da una figura esterna all’Inps. Indiscrezione che avrebbe creato qualche malumore interno.
A queste cinque figure, tutte da attribuire, se ne aggiungono altre due preziose, perché si tratta sempre di direttori di prima fascia con retribuzioni da 240 mila euro lordi all’anno: la direzione Acquisti, lasciata libera proprio da Vittimberga con la promozione a dg, e quella dell’Antifrode che nella nuova riorganizzazione incorpora anche l’internal audit. Sette caselle da riempire, dunque. Alle quali sommare altre quattro direzioni territoriali [
In totale ci sono quindi undici poltrone che consentono di movimentare lo spoil system “previdenziale” del governo di destra. Va detto che non si tratta di operazioni fuori dalla norma. Negli anni l’Inps ha vissuto riorganizzazioni ben più profonde, sotto la direzione di Tito Boeri (cambiarono tutti i dirigenti di prima e seconda fascia) e anche di Pasquale Tridico. Questa del governo Meloni sembra limitata per ora. Ma rappresenta solo un primo tempo delle trasformazioni attese per l’Inps.
I nomi
Ma veniamo ai nomi. La procedura prevede un interpello interno tra i direttori di prima fascia. E poi un bando di selezione, in base a curriculum e prove valutate da una commissione d’esame, aperto a tutti i dirigenti di seconda fascia per i posti rimasti non coperti con l’interpello. Ciononostante, alcuni candidati sembrano delineati. Quelli vicini a Vittimberga sono già finiti nell’occhio del ciclone.
C’è Alessia Rimmaudo, attuale vicaria all’Audit, compagna di Fabio Vitale, direttore generale di Agea (Agenzia per le erogazioni generali in agricoltura) e membro del Cda Inps, nonché uomo di fiducia del ministro Francesco Lollobrigida.
C’è Domenico De Fazio che dall’Inps di Chieti sarebbe in pole per la cruciale direzione Investimenti perché dentro confluiscono anche 2,5 miliardi di partecipazioni dell’Inps e la sorveglianza della società in house 3-I che Palazzo Chigi da tempo cerca di controllare perché qui passano gli investimenti miliardari per le forniture informatiche a Inps, Istat e Inail.
C’è poi anche Alessandro Romano, altro abruzzese come De Fazio e come la Vittimberga, proiettato verso la direzione Antifrode e audit. Infine Isotta Pantellini, fin qui vicaria di Vittimberga, dovrebbe diventare la numero uno degli Appalti. È l’“amichettismo”, per citare la premier, in salsa Inps.
(da La Repubblica)
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Giugno 4th, 2024 Riccardo Fucile
LE REGIONI ASSEGNERANNO AI DIRETTORI GENERALI DELLE AZIENDE SANITARIE, GIÀ CON LE PEZZE AL CULO, LA RIDUZIONE DELLE LISTE D’ATTESA: PER FARLO SARANNO COINVOLTI GLI SPECIALIZZANDI CON INCARICHI FINO A 10 ORE SETTIMANALI… LA RESPONSABILITÀ DI RIDUZIONE DELLE LISTE D’ATTESA VIENE SCARICATA SU REGIONI E DIRETTORI GENERALI
Le Regioni assegneranno ai direttori generali delle aziende sanitarie alcuni obiettivi annuali sulla riduzione delle liste d’attesa. Il mancato raggiungimento può determinare la sospensione dall’elenco nazionale dei direttori per un periodo di 12 mesi. E, per aiutare a smaltire gli appuntamenti, verranno coinvolti anche gli specializzandi.
La bozza di ddl sull’abbattimento delle liste d’attesa che dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri oggi 4 giugno, prevede infatti anche un maggior coinvolgimento dei giovani medici con incarichi fino a 10 ore settimanali.
Alle Regioni, invece, spetta «l’attuazione di tutte le iniziative utili a garantire l’effettiva erogazione delle prestazioni sanitarie nell’ambito delle strutture pubbliche e private accreditate, per garantire il rispetto dei tempi di attesa» nonché «di monitorare e vigilare sul rispetto dei tempi di attesa e in caso di mancato rispetto prevedere misure nei confronti dei direttori generali delle aziende». Che, come detto, potrebbero anche rischiare la sospensione.
Ancora, tra le novità ci sarebbe un «aumento della tariffa oraria del 20% (soprattutto nei servizi che presentano maggiori necessità) delle prestazioni aggiuntive e decontribuzione fiscale con tassazione separata ad aliquota fissa del 15%» e che le Regioni possano destinare «risorse aggiuntive per la contrattazione collettiva integrativa privilegiando le specialità mediche più carenti o con condizioni di lavoro più disagiate (indennità di disagio)».
(da Il Corriere della Sera)
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Giugno 4th, 2024 Riccardo Fucile
MA CHE SUCCEDE SE URSULA DOVESSE FINIRE UCCELLATA PER LE SUE FREQUENTAZIONI MELONIANE? WEBER SPINGE ROBERTA METSOLA, GLI UNICI ALTRI CANDIDATI SONO IL CROATO PLENKOVIC E IL GRECO MITSOTAKIS, CONSIDERATI UN PO’ DEBOLUCCI…COMUNQUE, SARÀ IL POLACCO DONALD TUSK A TRATTARE
Concavo e convesso. Moderato, ma all’occorrenza pronto ad allearsi con la destra radicale. Ambiguo quanto basta per tenersi aperte tutte le porte. Di lotta, quando necessario, ma preferibilmente di governo. Soprattutto all’interno delle istituzioni di Bruxelles, dove punta a occupare le posizioni cruciali.
Con ogni probabilità, il Partito popolare europeo sarà ancora il più votato a livello continentale e dunque il primo gruppo al Parlamento europeo, ma – per la prima volta nella storia – non sarà al governo né in Francia né in Germania nel momento in cui bisognerà scegliere i nuovi vertici Ue. E questo potrebbe avere un impatto.
Sono passati soltanto cinque anni, ma sembra ormai lontanissima l’epoca in cui il Ppe guidava contemporaneamente la Commissione (con Jean-Claude Juncker), il Consiglio europeo (con Donald Tusk) e il Parlamento europeo (con Antonio Tajani) in un regime di quasi monopolio
Ora i popolari devono fare i conti con un emiciclo molto più frammentato e, soprattutto, con un peso nettamente minore al tavolo dei governi. Da un punto di vista numerico, il Ppe resta il partito con più esponenti che siedono al Consiglio europeo (ben 11 su 27), ma il loro peso specifico è nettamente ridotto rispetto a un tempo.
Detto di Francia e Germania, dove il Ppe sta all’opposizione, il Paese più grande guidato da un premier popolare è la Polonia di Donald Tusk. Spetterà a lui cercare di difendere al primo vertice post-elezioni la candidatura di Ursula von der Leyen, che ha iniziato a zoppicare proprio al congresso del partito tenutosi a Bucarest all’inizio di marzo a causa delle numerose defezioni interne. L’attuale presidente resta al momento la favorita, ma nel caso in cui gli altri leader alzassero un muro, spetterà a Tusk cercare di difendere quel posto per uno, o una, della famiglia.
«Per nessuna ragione al mondo, se si confermerà primo partito, il Ppe rinuncerà alla guida della Commissione» garantisce una fonte di alto livello del partito. «Qualsiasi altro candidato – prosegue – non avrebbe il nostro sostegno in Parlamento. E senza il Ppe non può esserci alcuna maggioranza».
E se l’opzione Von der Leyen non dovesse decollare? Secondo diverse fonti, il primo nome nella lista di Manfred Weber è quello dell’attuale presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola […]. Weber ha una certa esperienza con la bocciatura dei candidati Ppe alla presidenza della Commissione, visto che cinque anni fa fu proprio lui la vittima del veto di Macron in un percorso che poi portò alla nomina di Ursula von der Leyen.
Ora che è il presidente del partito e che intende ricandidarsi come capogruppo in Parlamento, il bavarese potrebbe sponsorizzare la maltese nel caso in cui servisse un piano B. Ma Weber non siede al tavolo del Consiglio europeo e non sarà presente alla cena tra i 27 leader Ue che è in programma il prossimo 17 giugno: toccherà a Tusk negoziare con gli altri capi di Stato e di governo per conto del Ppe.
E così nel quartier generale del partito in rue du Commerce a Bruxelles, si discute a bassa voce dei piani alternativi. Il nome che circola con più insistenza come alternativa a Von der Leyen è quello del premier croato Andrej Plenkovic, esponente di uno Stato piccolo, l’ultimo a entrare nell’Ue e nell’Eurozona, in uno scenario che servirebbe a tendere la mano ai Paesi dell’Europa Centro-Orientale.
L’altro è quello del premier greco Kyriakos Mitsotakis, altra figura di spicco all’interno del Ppe (nonché primo sostenitore, con Tusk, della candidatura di Von der Leyen), ma il diretto interessato continua a dire di non essere interessato. Entrambi saranno al tavolo delle trattative al Consiglio europeo, il che potrebbe essere un’arma a doppio taglio perché potrebbero essere accusati di muoversi favorendo i loro interessi personali.
Nelle scorse settimane, socialisti, verdi e liberali hanno chiesto al Ppe di firmare una dichiarazione in cui i gruppi si impegnavano a non cooperare in alcun modo con i partiti che fanno parte dei Conservatori o di Identità e Democrazia. Il partito popolare non l’ha firmata perché sta portando avanti una linea caratterizzata da un’ambiguità strategica.
Da un lato, il suo leader Manfred Weber continua ad assicurare che «il punto di partenza» per negoziare un programma elettorale per la prossima legislatura sarà la coalizione formata da Ppe, socialisti e liberali. Dall’altro, però, non esclude una collaborazione con i partiti alla destra del Ppe, a patto che siano «europeisti, anti-Putin e a favore dello Stato di diritto».
Un identikit tracciato anche da Ursula von der Leyen che aprirebbe per esempio al dialogo con Fratelli d’Italia, ma non con Afd o il Rassemblement National di Marine Le Pen. Il ragionamento è semplice: i margini per una maggioranza “tradizionale” sono risicati e siccome bisogna mettere in conto una quota di franchi tiratori, è necessario trovare un sostegno per superare la soglia del 361 voti necessari per eleggere il presidente della Commissione.
All’interno dello stesso Ppe, però, ci sono visioni diverse per quanto riguarda il dialogo con la destra.
In Italia, Finlandia, Croazia e Svezia i partiti affiliati al Ppe già governano in coalizione con la destra radicale oppure grazie al loro sostegno esterno, idem a livello regionale in Spagna.
Il partito di Donald Tusk, Piattaforma Civica, è invece “allergico” ai conservatori di cui fa parte la formazione Diritto e Giustizia del suo rivale Mateusz Morawiecki.
Una cosa però è certa: c’è una forte influenza della destra radicale sulla linea politica del Partito popolare europeo, che su molte questioni si è spostato su posizioni più estreme. È il caso per esempio delle politiche migratorie: nel suo programma elettorale per le Europee, il Ppe ipotizza una nuova riforma per consentire politiche simili al cosiddetto “modello Ruanda”. Oppure ancora del Green Deal che ha visto i popolari sacrificare alcune parti della «nuova strategia di crescita dell’Unione europea» sull’altare degli agricoltori, altra platea elettorale alla quale il Ppe è particolarmente attento.
Un segnale in questa direzione è atteso a breve, quando i cristiano-democratici potrebbero accogliere tra le proprie fila il partito dei contadini olandesi (BBB). Dai Paesi Bassi dovrebbero arrivare anche gli esponenti del Nuovo Contratto Sociale, il cui capolista è proprio l’ex portavoce di Weber, Dirk Gotink. E se i liberali di Mark Rutte dovessero essere espulsi da Renew per via dell’alleanza con Wilders (la resa dei conti è rimandata al post-elezioni), il Ppe sarebbe certamente pronto ad accoglierli a braccia aperte.
(da La Stampa)
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Giugno 4th, 2024 Riccardo Fucile
IL NOSTRO PAESE È STATO L’UNICO A CHIEDERE SUBITO L’INTERA QUOTA DI “LOANS”, CIOE’ SOLDI CHE ANDRANNO RESTITUITI – E COSÌ I FONDI DEL RECOVERY ITALIANO PESANO SUI SALDI DI FINANZA PUBBLICA MOLTO PIÙ DI QUEL CHE ACCADE NEL RESTO D’EUROPA
L’Italia vale il 12,8% dell’economia dell’Unione europea. Il suo Pnrr pesa per il 29,9% dei fondi Next Generation Eu richiesti da tutti i Paesi. Ma se si guarda solo alla quota dei prestiti Roma svetta, avendo ricevuto il 72,4% dei loans distribuiti fin qui da Bruxelles: 60,9 miliardi su 84,1 totali attesi entro il 2026.
Siamo invece al quarto posto per quota di risorse complessive incassate, tra prestiti e contributi a fondo perduto, sul totale assegnato: 52,7%, contro il 59,3% della Danimarca, il 58% della Francia e il 53% dell’Estonia.
Innanzitutto il nostro Paese nel 2021 è stato l’unico a chiedere subito l’intera quota di finanziamenti a debito, ed è tuttora tra i pochissimi Stati (insieme al Portogallo) ad aver già ricevuto quattro rate del Pnrr, mentre si attende la quinta legata ai 52 obiettivi del secondo semestre 2023.
Una scelta diversa è stata compiuta dalla Spagna, che inizialmente aveva optato per i soli contributi a fondo perduto e soltanto l’anno scorso ha deciso di ricorrere anche ai prestiti. Oggi il Piano spagnolo (9,5% del Pil) è proporzionalmente più consistente di quello italiano (9%), ma l’indebitamento arriverà a Madrid solo nella seconda metà del calendario del Recovery.
Ma più delle cause, nell’attuale scenario di finanza pubblica contano le conseguenze. Che vedono i fondi del Recovery italiano pesare sui saldi di finanza pubblica molto più di quel che accade nel resto d’Europa. Un dato, questo, che spiega il richiamo alla necessaria «qualità della spesa» arrivato con sempre maggiore insistenza dal ministro per il Pnrr, Raffaele Fitto; e aiuta a chiarire anche le preoccupazioni con cui si guarda allo sviluppo del Piano al ministero dell’Economia guidato da Giancarlo Giorgetti.
Perché a fine Pnrr, a patto di riuscire a centrare tutti i target fissati da qui a giugno 2026, il dispositivo per la Ripresa e la Resilienza porterà complessivamente in Italia deficit (e di conseguenza debito) per 122,4 miliardi, cioè poco meno del 5,7% del Pil attuale, con l’effetto che l’impatto reale sulla crescita sarà determinante per far quadrare i conti finali.
Nemmeno le sovvenzioni, ricevute fin qui per 41,5 miliardi, sono in realtà a costo zero, perché i soldi gratis non esistono fuori dai libri di fiabe. Sono infatti anch’esse figlie del debito comune europeo da restituire, in un calcolo che però riguarda i conti dell’intera Unione e non direttamente quelli dei singoli Paesi.
Ma da noi la quota di prestiti pesa di più, superando largamente i contributi a fondo perduto, come accade solo in Polonia e in Ungheria dove però le cifre in gioco sono decisamente più modeste. Nel complesso dell’Unione, invece, le sovvenzioni a fondo perduto sono maggioritarie coprendo il 63,8% delle risorse già distribuite; escludendo il caso italiano, la loro quota si allarga all’82,1%.
(da Il Sole 24 Ore)
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Giugno 4th, 2024 Riccardo Fucile
FIGURIAMOCI SE QUALCHE SOVRANISTA RINUNCIAVA A 10.000 EURO AL MESE PER TORNARE A VOTARE CON IL RISCHIO DI NON ESSERE RIELETTO
Con 18 voti contrari e 11 favorevoli il Consiglio regionale della Liguria ha respinto la mozione di sfiducia nei confronti del presidente della Regione, Giovanni Toti, presentata dalle opposizioni. Ora la maggioranza ha votato contro la mozione 109 proposta da Partito democratico, M5S, Linea Condivisa e Lista Sansa per sfiduciare Toti. Diciotto voti contrari versus 11 favorevoli.
«Nessuno deve fermare il rinascimento di questa terra», hanno ribadito i gruppi di centrodestra che sostengono la maggioranza, oltrepassando il senso del ridicolo.
In questo ultimo periodo è stato il vicepresidente Alessandro Piana a ricoprire ad interim il ruolo guida della Regione. Piana si era messo subito a disposizione per prendere le redini dell’ente, dopo l’arresto del governatore.
«Provo più pena che odio verso Toti, qui non discutiamo di lui ma di una cosa molto più grande. Toti da accusato si è fatto vittima e poi martire, ora persino giudice». Lo ha dichiarato il capogruppo della Lista Sansa in Liguria, Ferruccio Sansa, nel corso dell’assemblea in Aula
(da agenzie)
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