Giugno 22nd, 2024 Riccardo Fucile
INSIEME A LUI ALTRI 14 IMPRENDITORI DELLA ZONA INDAGATI PER SFRUTTAMENTO DEL LAVORO
Il TgLa7 ha pubblicato in esclusiva un documento della Procura in cui si legge che Renzo Lovato, padre di Antonello Lovato, il 37enne che ha abbandonato sotto casa il bracciante indiano Satnam Singh dopo che quest’ultimo aveva perso il braccio destro in un incidente sul lavoro nella sua azienda agricola, è indagato da cinque anni per reati di caporalato in un altro procedimento.
Non è dunque la prima volta che un’azienda dei Lovato finisce sotto inchiesta. L’imprenditore agricolo del pontino che subito dopo la tragedia di Satnam Singh ha provato a scaricare la colpa dell’incidente sulla vittima (“ha compiuto una leggerezza che è costata cara a tutti”) attende infatti la data dell’udienza che potrebbe costargli il processo per un’indagine partita già 5 anni.
L’inchiesta, come rivela il TgLa7, è stata aperta nel 2019 dalla procura di Latina e si chiama Yamuna, dal nome del fiume del Punjab, area da cui proviene la maggior parte dei braccianti impegnati nei campi del basso Lazio.
Quell’inchiesta, oltre a Renzo, vede indagati altri imprenditori dell’agro pontino. Ora al tribunale non resta che fissare l’udienza davanti al gup, il giudice che dovrà decidere sul loro possibile rinvio a giudizio.
Come si legge nel capo di imputazione mostrato durante il telegiornale, Renzo Lovato e il collega Massimo Varelli si sarebbero rivolti al caporale indiano Paul Uttam per trovare manodopera a basso costo. Di più, a costi stracciati. I lavoratori, secondo la ricostruzione della procura, venivano pagati a cottimo senza il rispetto del salario minimo.
Violate anche le norme di sicurezza e di igiene sul lavoro: gli investigatori a cui i pm hanno delegato l’indagine hanno trovato bagni fatiscenti e nessun luogo idoneo a consumare i pasti o per cambiarsi i vestiti
Capitolo a parte quello delle abitazioni dei braccianti: case fatiscenti, con tetti precari, dove i lavoratori vivono ammassati come animali. Per di più pagando, ovviamente al datore di lavoro, un affitto da 110 euro al mese. Ora non resta che attendere la fissazione dell’udienza. Lovato rischia il processo per sfruttamento del lavoro.
(da La Repubblica)
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Giugno 22nd, 2024 Riccardo Fucile
IL CAPITONE HA “CONGELATO” LA POLTRONA DI SEGRETARIO FEDERALE, FINO AL CONGRESSO DI AUTUNNO. MA LA LIGA VENETA ORMAI GLI HA GIRATO LE SPALLE… LA FRECCIATA DI SALVINI A BOSSI: “NON AMO I TRADITORI, I VIGLIACCHI, I VOLTAGABBANA” (CHE SI RIVOLGESSE A SE STESSO?)
Vannacci doveva esserci ma non c’è, da queste parti dicono che il generale l’hanno subìto eppure, nel segreto dell’urna – gabina elettorale, diceva Bossi – il profondo Veneto di voti gliene ha dati eccome. «Qua siamo par el leon de San Marco, no par a Decima Mas e ste robe da mòna». Antonio Bonato, camionista in pensione.
Gonfia il petto sotto la felpa “Liga Veneta”, le manone applaudono Zaia più che Salvini: «Xe il doge – soprannome del governatore veneto – che ga fato la bataglia, l’altro xe andà in rimòrchio» («È Zaia che ha fatto la battaglia, l’altro è andato a rimorchio»). L’altro sarebbe il Capitano. Uno a cui il Veneto leghista, fino a un minuto prima dell’approvazione notturna della legge sull’Autonomia differenziata, aveva girato le spalle, pronto a buttarlo giù dalla torre della segreteria federale.
E invece, grazie anche alla carta Vannacci, Salvini ha congelato la poltrona almeno fino al congresso di autunno. «Qualche giornalista ha sperato che io e voi fossimo stanchi – dice dal palco – no, io non sono stanco e siamo solo all’inizio di un percorso che ci porterà lontano».
Montecchio Maggiore, 23mila abitanti nel vicentino. Per celebrare l’agognata (dai veneti, molto) autonomia la Lega ha scelto questo paesone che domani e dopo, tra gli altri, deciderà al ballottaggio se eleggere sindaca la consigliera regionale leghista Milena Cecchetto o il candidato del centrosinistra Silvio Parise, sostenuto – attenzione – dal sindaco uscente, ovvero il leghista Gianfranco Trapula.
Paradossi veneti, dove la Lega sfibrata, esausta, si è ridotta a un terzo dei voti di Forza Italia. La rappresentazione plastica della crisi, proprio perché dovrebbe essere una seratona di festa, è piazza Guglielmo Marconi con più bandiere e striscioni che persone: la gente non la riempie nemmeno per metà. Suona vagamente distopico Salvini: «Questa è la piazza dell’unità della Lega e della coalizione».
Il giallo e il bordeaux dei vessilli di San Marco hanno anche la funzione di provare a coprire i vuoti. C’è un Leone enorme steso a terra davanti ai gazebo per il tesseramento e per la raccolta firme per «il riconoscimento della lingua veneta e del popolo veneto».
Zaia, apre lui. Pare voler intestare il successo storico alla spinta del Veneto più che alla strategia di Salvini, liquidato con un «ringrazio anche Matteo». Anche. Ancora Zaia: «Tutti bravi, adesso, a parlare di autonomia. Ma se si va alla notte dei tempi… Nel 2017 due milioni e 300mila veneti sono andati a votare per l’autonomia».
Era il referendum consultivo, che nella regione ebbe un esito da plebiscito con l’adesione di quasi tutte le forze politiche. Salvini ascolta a braccia conserte, lo sguardo sulla piazza come a contare le persone. Applaudono in posa quasi marziale i militanti di Lega Giovani. Indossano magliette nere con la scritta “Veneto”, stesso font usato dai gruppi neofascisti. Si vedono molti cittadini del Bangladesh con la spilla “Cecchetto sindaco”.
Il senso della kermesse vicentina era ed è soprattutto uno: l’ha voluta Salvini per consolidare/rilanciare una leadership che fino a ieri appariva traballante. Incassata l’autonomia dagli alleati di governo il Capitano se l’è subito rivenduta coi suoi; era scontato. Prima che sul palco salga Calderoli («Mi sono fatto un culo così», chiosa raffinato), Salvini si toglie qualche sassolino. «Non mollate mai, la bandiera non si ammaina mai. Non amo i traditori, i vigliacchi, i voltagabbana».
Ogni riferimento a Bossi è puramente voluto. I bengalesi folgorati da San Marco lo ascoltano mentre spiega che «siccome la sinistra ama il fumo legalizzato allora vende fumo dicendo che l’autonomia spacca l’Italia». Seguono un pensierino a Giorgia Meloni («Con l’elezione diretta del premier il Paese sarà più stabile») e uno al “traditore” Gianfranco Trapula.
(da La Repubblica)
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Giugno 22nd, 2024 Riccardo Fucile
LA TUNISIA NON E’ PIU’ UN “PAESE SICURO” E LA SUA GUARDIA NAZIONALE NON E’ IN GRADO DI FARE OPERAZIONI DI SOCCORSO
La Tunisia non può essere considerata un Paese sicuro e la sua Garde Nationale non è in grado di effettuale operazioni di ricerca e soccorso nella zona Sar appena istituita: lo spiega Cristina Cecchini, avvocata dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), partendo dal caso delle sei motovedette che avrebbero dovuto essere inviate al Paese. Un trasferimento che è stato sospesa dal Consiglio di Stato.
Le sei motovedette che l’Italia avrebbe dovuto inviare alla Tunisia erano parte dell’accordo stretto da Giorgia Meloni con Kais Saied per rafforzare la cooperazione tra i due Paesi, in particolare per quanto riguarda i flussi migratori.
Il Consiglio di Stato, però, ha accolto il ricorso presentato da sette associazioni – secondo cui fornire questi mezzi alle autorità tunisine avrebbe significato esporre le persone migranti a un maggiore rischio di respingimenti, deportazioni illegali e violazioni dei diritti umani – sospendendone di fatto l’invio.
“Questo innanzitutto è un segnale. Il Consiglio di Stato ha preso molto seriamente la possibilità che il danno del provvedimento, che noi riteniamo illegittimo, si producesse nel momento in cui le motovedette dovessero essere trasferite”, ha commentato con Fanpage.it Cristina Cecchini, del pool di avvocate che ha seguito il caso e parte dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).
“Il Consiglio di Stato ha evidenziato che fosse molto importante fare una valutazione più approfondita. Quando viene accolta una cautelare si sottintende che ci sia un margine di ragionevolezza nelle argomentazioni prospettate. Quindi, in questo caso, speriamo che il Consiglio di Stato faccia un lavoro molto più approfondito di quello che ha fatto il Tar”, ha proseguito l’avvocata. Le sette associazioni, infatti, si erano prima rivolte al Tar del Lazio, che però non aveva accolto il ricorso affermando che l’accordo per il trasferimento delle motovedette fosse legittimo. “È molto contraddittoria la decisione del Tar – ha spiegato Cecchini – perché ammetteva che ci fossero dei possibili profili di pericolosità in Tunisia – su cui fosse necessario monitorare – ma citava la collaborazione con le autorità dal 2015, senza dare atto quindi del netto cambiamento che c’è stato nell’ultimo anno, e la conferma che la Tunisia fosse considerata un Paese sicuro dal nuovo decreto del governo”.
“La Tunisia non può essere considerata un Paese sicuro”
Si tratta di un punto centrale. Lo scorso 7 maggio nel suo ultimo aggiornamento sulla lista dei Paesi di origine sicuri – fondamentale nella gestione delle richieste di protezione internazionale – il governo aveva confermato la Tunisia nell’elenco, ma secondo diverse organizzazioni che si occupano di diritti umani (nonché parlamentari dell’opposizione che si sono recati in missione nel Paese) non avrebbe tenuto conto del netto deterioramento delle condizioni interne. Saied è alla guida del Paese dal 2019: dal 2021 ha impresso una forte virata autoritaria, concentrando su dì sé i poteri e sospendendo l’attività del Parlamento. Diversi oppositori politici sono stati arrestati, così come numerosi attivisti per i diritti umani che denunciavano gli abusi e le violazioni ai danni contro, in particolare, i migranti subsahariani nel Paese.
Saied, in un discorso pubblico, ha accusato i migranti dei Paesi subsahariani di essere arrivati in Tunisia nel tentativo di minarne l’identità araba e musulmana, in un progetto di sostituzione etnica: da quel momento sono aumentati i soprusi verso i migranti, tra arresti per strada e deportazioni nel deserto, al confine con la Libia. In questo modo troppe persone hanno perso la vita.
“Il fatto che la Tunisia sia un Paese di origine sicuro è già una questione fortemente in discussione – ha commentato Cecchini – E comunque è un istituto che si applica sulle domande di asilo dei tunisini, non delle persone di altri Paesi, in particolare dell’Africa subsahariana, che sono quelle che maggiormente cercano di fuggire dalla Tunisia perché è diventato un Paese estremamente insicuro. Ad ogni modo questo istituto di Paese sicuro per la Tunisia viene già messo in discussione da moltissimi giudici interni che lo disapplicano, proprio perché anche per loro la Tunisia di oggi non può essere considerata un Paese sicuro”.
Una nuova Libia: le violenze della Garde Nationale
Per l’avvocata il parallelismo con quanto fatto dal governo italiano con la Libia è palese: “Si sta chiedendo al governo tunisino di creare nel Paese una nuova Libia: in cambio di una fantomatica collaborazione sulle migrazioni dei tunisini si chiede un controllo e un blocco delle frontiere per le persone che fuggono dalla Tunisia. È lo stesso processo che è già stato fatto per la Libia: creare una zona Sar e fornire poi strumenti, come le motovedette, a prescindere dal fatto che le autorità tunisine siano o meno in grado di gestire una zona di Ricerca e Soccorso”.
Un report pubblicato proprio ieri da Alarm Phone conferma ciò che già dicono diverse Ong, cioè che “la Garde Nationale tunisina, quella che dovrebbe ricevere le motovedette, nell’ultimo anno si è macchiata di crimini gravissimi contro i diritti umani, provocando naufragi, abbandonando le persone in mezzo al mare, picchiando e torturando i naufraghi esattamente come la cosiddetta Guardia costiera libica”.
Nel documento sono state raccolte diverse testimonianze portare da diversi attori della società civile tunisina e transnazionale, che documentano le pratiche dei gendarmi tunisini nel Mediterraneo centrale: dalla mancata assistenza a manovre fatte intenzionalmente per far ribaltare le imbarcazioni in difficoltà, provocando veri e propri naufragi.
Questa brutalizzazione delle autorità di frontiera tunisine, documentata ormai da anni dalla società civile tunisina e transnazionale1 , si inserisce in un contesto di rafforzamento delle politiche di esternalizzazione delle frontiere dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri. Di fronte all’aumento del traffico sulla rotta marittima tunisina a partire dal 2021 e nella speranza di limitare il numero di attraversamenti, l’UE ha aumentato notevolmente il suo sostegno alle forze di sicurezza tunisine, istituendo, come per la sua cooperazione con le milizie libiche, un “regime di respingimento per procura”.
Ora anche la Tunisia ha una zona Sar
Le similitudini con la Libia si sono viste anche nella nascita di una zona Sar tunisina, una zona di Ricerca e Soccorso in mare affidata proprio alla Garde Nationale. La notizia della formalizzazione è arrivata ieri: non è solo un passaggio tecnico, ma un rafforzamento delle politiche di esternalizzazione delle frontiere che i governi europei portano avanti ormai da anni.
“Il processo è lo stesso che abbiamo visto con la Libia – ha proseguito l’avvocata – Si crea questa macchina formale in cui si dice che la Tunisia ha una zona Sar, senza aver verificato se possa fare operazioni di Ricerca e Soccorso. Le mere intercettazioni in mare non possono essere considerate operazioni di Ricerca e Soccorso, quando la stessa vita dei naufraghi viene messa in pericolo da quelle autorità che le stanno svolgendo. E soprattutto un’attività di soccorso deve terminare con lo sbarco in un luogo sicuro: né la Libia né la Tunisia ad oggi possono essere considerate tali. Questo ormai viene confermato chiaramente dai giudici interni”.
Fornire delle motovedette per il pattugliamento della zona Sar da parte della Garde Nationale rischia di aumentare il rischio di abusi e violazioni dei diritti documentate in questi anni. Cecchini ha concluso sottolineando come il rispetto dei diritti umani non possa essere un mero dettaglio, nel rapporto tra due Paesi. Dovrebbe essere la priorità: “Il Tar diceva che l’accordo era legittimo in quanto l’Italia si impegnava a collaborare in vista di un futuro miglioramento. Posto che gli atti non lo chiedono (non includono quella condizionalità – seppure generica e solo sulla carta – sul rispetto dei diritti umani che era inclusa con la Libia) comunque non è possibile fare una collaborazione con qualcuno che si impegna per il futuro al rispetto dei diritti umani: va verificato che oggi quei diritti sono garantiti”.
(da Fanpage)
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Giugno 22nd, 2024 Riccardo Fucile
UN’IMBARCAZIONE ALLA DERIVA CON 60 PERSONE A BORDO, LA PAURA DI NON ARRIVARE IN TEMPO
Quando avverti un mayday, quando sai che c’è un’imbarcazione in pericolo, hai una sola paura: quella di arrivare troppo tardi. Arrivare quando la barca si è già ribaltata, arrivare quando le persone sono già in acqua, o arrivare dopo la cosiddetta Guardia costiera libica.
Sono appena le dieci, ma nel Mediterraneo centrale è già notte inoltrata, un’imbarcazione alla deriva con circa 60 persone a bordo ha immediato bisogno di soccorso.
È il terzo salvataggio che viene assegnato nella giornata di ieri, dalle autorità italiane all’Humanity 1, la nave umanitaria dell’ong tedesca Sos Humanity, Le operazioni iniziano alle 6 del mattino con il primo salvataggio di 31 uomini e un secondo avvenuto verso le 12 di 75 persone, tra cui 8 donne e 16 minori. Nel pomeriggio l’MRCC italiano (Italian Maritime Rescue Coordination Centre) assegna, all’Humanity 1 il salvataggio di altre circa 18 persone, e nella notte quello di altre circa 60 persone alla deriva.
In entrambi i casi la cosiddetta Guardia costiera libica è arrivata prima e ha preso in carico dei salvataggi precedentemente assegnati all’Humanity 1, rivendicato il fatto che ci si trovasse nella zona Sar libica. Nello stesso giorno l’aereo di ricognizione Seabird, dell’ong tedesca Sea Watch, ha segnalato l’intercettazione da parte della cosiddetta Guardia costiera libica di altre circa 60 persone. “Le acque internazionali sono divise in zone Sar, ma questo non significa che le nazioni abbiano competenza giuridica nelle proprie zone Sar, la Libia non ha competenza giuridica nella zona di ricerca e soccorso libica”, spiega Viviana Di Bartolo, Sar coordinator della tredicesima missione dell’Humanity 1. “Per il diritto internazionale tutte le navi in transito hanno la libertà di muoversi nelle acque internazionali ma anche in quelle territoriali a meno che non siano accusate di atteggiamenti di pirateria, ma se non ci sono queste condizioni il libero passaggio di ogni imbarcazione deve essere garantito, questo non è avvenuto ieri quando i libici ci hanno chiesto di lasciare la zona del soccorso”, conclude Di Bartolo.
Circa 138 persone, di fatto, ieri sono state illegalmente riportate indietro in un porto non sicuro, lo stesso da cui stavano fuggendo. Solo pochi giorni fa Sea Watch ha documentato il respingimento illegale di altre sessanta persone. Erano già state tratte in salvo dal mercantile Mardive Zohr 1, quando – come testimonia il video girato da Seabird – la cosiddetta guardia costiera libica è salita a bordo del peschereccio e ha costretto a colpi di bastonate i naufraghi a salire nella loro motovedetta. “Il soccorso in mare dovrebbe essere il frutto della coordinazione delle diverse unità di ricerca e soccorso, con i libici questa cosa non avviene mai anzi intralciano il nostro lavoro mettendo in serio pericolo la vita dei naufraghi e le operazioni in mare”, continua la coordinatrice delle operazioni Sar di Humanity 1.
Intanto sulla nave battente bandiera tedesca ci sono 106 sopravvissuti provenienti da diversi Paesi tra cui Siria, Bangladesh, Etiopia, Egitto
Di fronte a loro adesso quattro lunghi giorni di navigazione verso Ortona, il porto sicuro che è stato assegnato dalle autorità italiane.
(da Fanpage)
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Giugno 22nd, 2024 Riccardo Fucile
LE REGIONI DIVENTATE RICCHE CON I SOLDI DI TUTTI SI APPROPRIERANNO TOTALMENTE DEI BENEFICI
Non solo secessione dei ricchi. L’autonomia differenziata così come configurata dalla legge appena approvata in Parlamento comporta anche la possibilità che le regioni più ricche e meglio dotate di infrastrutture – linee ferroviarie, aeroporti, autostrade – costruite con il denaro di tutta la collettività si approprino totalmente dei benefici che ne derivano, restituendo poco o nulla al resto del paese.
Si tratta di infrastrutture che, purtroppo, non rientrano in alcun Lep (livello essenziale delle prestazioni), quindi possono essere oggetto di passaggio immediato alle regioni che ne faranno richiesta, provocano, oltre al danno di una diminuzione di risorse per le regioni peggio dotate, anche la beffa di una vera e propria appropriazione indebita da parte delle regioni più ricche.
Anche dove i Lep ci sono già, come in sanità, si accentua il rischio che parte dei ridotti finanziamenti che arriveranno alle regioni più povere dovranno essere utilizzati, come già succede, per finanziare i pendolari della sanità, che ancora più di prima si recheranno nelle regioni meglio dotate per ricevere le cure non disponibili nella loro regione, attuando una redistribuzione alla rovescia. In generale, il riferimento allo “storico” delle dotazioni e della spesa non promette nulla di buono per la riduzione delle diseguaglianze territoriali.
In un contesto economico segnato da un enorme debito pubblico che lascia poco spazio per aumentare la spesa, e con un governo che, per rafforzare la propria base elettorale, pensa di ridurre le tasse, è molto difficile che i Lep, se mai si riuscirà a definirli, andranno al di là di un minimo che in troppe zone del paese è davvero ai limiti della decenza e dell’equità. Al contrario, la riduzione della solidarietà intra-nazionale che pure sarebbe richiesta dalla Costituzione, unita alla possibilità che le regioni “diversamente autonome” possano pagare di più insegnanti, medici, infermieri, impiegati nella pubblica amministrazione, creando un mercato concorrenziale del personale, allargherà fatalmente le diseguaglianze esistenti nella disponibilità e qualità di beni e servizi pubblici. Queste non sono dovute, o solo in parte, come vuole invece la narrazione dominante, all’incapacità delle classi dirigenti locali, ma alla minore ricchezza collettiva solo parzialmente compensata dalla redistribuzione statale fin qui operata.
La cristallizzazione, se non l’allargamento, delle diseguaglianze territoriali è in contrasto non solo con il principio di una cittadinanza comune a prescindere da dove si vive, ma anche con uno dei requisiti per l’ottenimento dei fondi del Pnrr, appunto la riduzione dei divari territoriali nelle infrastrutture e nella disponibilità di beni pubblici. Una questione non marginale che sarebbe opportuno sollevare nelle sedi appropriate Le diseguaglianze territoriali non sono responsabilità di questo governo. E la possibilità di un’autonomia così ampia da includere sia elementi fondativi per la cittadinanza, come la tutela della salute e l’istruzione, ma anche la sicurezza sul lavoro, sia settori che non possono essere compressi a scala regionale (trasporti, tutela dell’ambiente, politiche energetiche) è stata introdotta, in modo poco lungimirante e un po’ raffazzonato, dalla riforma del titolo V della Costituzione.
Ma il modo con cui si dà attuazione a quest’ultima, e il pressoché nessun potere che il Parlamento ha nel deciderne gli sviluppi e monitorane gli esiti – tutti lasciati a commissioni e a negoziazioni tra governo e singole regioni – ne costituisce una interpretazione estrema che rischia di minare ulteriormente la già fragile cittadinanza comune. Rischia anche di svuotare di senso il premierato fortemente voluto da Giorgia Meloni, che si troverà ad essere forte rispetto non solo a un Parlamento svuotato di competenze e responsabilità, ma a regioni legittimate ad andare ciascuna per la propria strada senza curarsi del governo centrale. Al premier forte toccherà la responsabilità di fare fronte ai bisogni e alle richieste delle regioni più povere, che non hanno interesse per se stesse all’autonomia differenziata, ma patiranno le conseguenze di quella altrui.
(da lastampa.it)
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Giugno 22nd, 2024 Riccardo Fucile
SECONDO UN’INDAGINE DI MUP RESEARCH E BILENDI, IL 47% È IN DIFFICOLTÀ CON AUMENTO DEL COSTO DELLA VITA, IL 33% DENUNCIA UN RINCARO DEI PREZZI PER ANDARE IN VACANZA… E IN EFFETTI IL COSTO DEGLI HOTEL IN LOCALITÀ MARITTIMA È AUMENTATO DEL 19,6%. AUMENTI SI SONO REGISTRATI ANCHE NELLE TARIFFE DEI TRAGHETTI E PER GLI AEREI
Andare in vacanza è diventata una spesa sempre più difficile da sostenere. Per questo motivo, secondo un’indagine realizzata da mUp Research e Bilendi per Facile.it, saranno circa 3,7 milioni i cittadini italiani che quest’estate rinunceranno alle ferie per ragioni economico-finanziarie.
È stata la risposta del 56% degli intervistati, con un aumento del campione fino al 64% se si considerano i rispondenti di età compresa tra 25 e 34 anni e gli over 65. Il 47% ha dichiarato di essere in difficoltà per un generale aumento dei costi della vita, mentre il 33% ha fatto riferimento al rincaro dei prezzi per andare in vacanza. Nonostante il progressivo calo del livello di inflazione, infatti, nell’estate 2024 andare in ferie costerà fino al 20% in più dell’anno precedente.
Vediamo quali sono le voci di spesa più colpite.
Alberghi, fino a 3.500 euro a settimana
Da un’analisi di Assoutenti e Crc, emerge che nella settimana dal 12 al 18 agosto, la più cara della stagione, il costo più basso per un albergo in una località marittima sarà comunque più alta del 19,6% rispetto al 2023. Ad esempio, per una famiglia con due figli la spesa può variare da un minimo di 872 euro per alloggiare a Bibione (in provincia di Venezia) fino a un massimo di 3.500 euro per Porto Cervo, in Sardegna, una delle mete più frequentate in estate.
Le tariffe dei traghetti
Forti aumenti anche per quanto riguarda i trasporti. Mantenendo come esempio la famiglia composta da due adulti e due bambini e la settimana di Ferragosto, per spostarsi in traghetto con un’auto le spese in cui incorrerebbe sono le seguenti:
Genova-Porto Torres, 1.274 per andata e ritorno (+1,8% sul 2023)
Livorno- Olbia, 1.094 euro (+6,2%);
Napoli-Palermo richiede 699 euro (+7,2%).
L’aumento medio è di 6,3% rispetto allo scorso anno. Unica eccezione la fa la tratta da Civitavecchia a Olbia, le cui tariffe hanno registrato un calo del 7,4%.
Biglietti aerei in Italia e in Europa
Lo stesso vale per i viaggi in aereo. In una recente analisi del Corriere della Sera sulle tariffe per il periodo da giugno a settembre 2024, è emerso che per i voli intra-continentali i prezzi dei biglietti aerei in Europa iniziano a mostrare segni di risultano inferiori a quelli di un anno fa, ma i collegamenti interni al nostro Paese proseguono la loro corsa al rialzo. Nel quadrimestre «estivo», le tariffe per i voli interni sono in calo di circa il 3% rispetto allo stesso periodo del 2023. Ma, dal momento che fino a settembre i prezzi possono essere ulteriormente limati, non è escluso che il dato finale sia ancora più negativo.
Ad esempio, a giugno i biglietti sono in calo di circa il 3%, a luglio di quasi il 2%. Tutt’altra cosa è il mercato in Italia: la tariffa media per i voli tra giugno e settembre 2024 tra Italia ed Europa è più cara del 7% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, ma balza del 21% se si guardano soltanto i voli nazionali, con un +34% a giugno e un rincaro del 17-19% nei mesi successivi.
Spiagge: ombrelloni e lettini fino a 120 euro al giorno
Anche andare in spiaggia e noleggiare ombrelloni, lettini e cabine è sempre più caro. Sempre secondo l’indagine di Assoutenti, una famiglia (due genitori e due figli) pagherà in media il 5% in più: dai 25 euro della Romagna, si sale fino a 90 euro per il Salento, in Puglia, ma si superano anche i 120 euro al giorno in alcune zone della Sardegna.
Mangiare al ristorante nelle località di mare, invece, significa affrontare un aumento medio della spesa intorno al 3,5% su base annua.
(da Il Corriere della Sera)
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Giugno 22nd, 2024 Riccardo Fucile
I MASCHI SONO PIÙ PORTATI A CORRERE DEI RISCHI, UNO DEI MOTIVI PER CUI, NELL’UNIONE EUROPEA, LE DONNE VIVONO MEDIAMENTE OLTRE 5 ANNI PIÙ A LUNGO DEGLI UOMINI
Il governo francese ha da poco lanciato una campagna dedicata alla sicurezza stradale che punta sullo slogan «Conduisez comme une femme» (Guidate come una donna). Un’immensità di ricerche confermano che le donne alla guida sono significativamente meno pericolose degli uomini.
Commentando il lancio della campagna, la générale de Gendarmerie, Florence Guillaume (che detiene la delega alla sécurité routière nel governo Macron) ha spiegato che, secondo lei: «Gli uomini vogliono ancora mettere in mostra la propria forza attraverso il comportamento alla guida, anche in condizioni meteorologiche difficili, di stanchezza e dopo avere consumato alcool…»
La spiegazione di Guillaume che, più dei dati, rispecchia il concetto modaiolo della tossicità maschile (secondo il quale, in sostanza, gli uomini sono nati per rompere le balle e non imparano mai) può non convincere.
È anche vero, per esempio, che secondo le statistiche, gli uomini guidano molto di più e su percorsi mediamente più lunghi, mentre buona parte della guida femminile ha tuttora a che fare con modeste gite al supermercato e brevi viaggi per portare i bambini a scuola. Le donne avrebbero dunque una minor possibilità di incorrere in un incidente stradale.
Detto ciò, pare innegabilmente vero che il rapporto emotivo degli uomini con la propria auto sia diverso da quello delle femmine e che, in generale, i maschi siano più portati a correre dei rischi, uno dei motivi per cui, nell’Unione europea, le donne vivono mediamente oltre 5 anni più a lungo degli uomini. Ad ogni modo, la questione di «chi guida meglio, tra i due sessi» è stata molto studiata (probabilmente perché è facile: sia le assicurazioni sia la polizia raccolgono vaste quantità di dati sugli incidenti stradali).
Anche quando questi vengono corretti tenendo conto delle differenze nell’utilizzo dell’automobile, le donne vincono nettamente. Infatti, secondo i calcoli della Banca Mondiale (che danno implicitamente ragione a Guillaume e alle sue compaesane) «Se, per ipotesi, tutti gli automobilisti guidassero come le donne, il tasso di mortalità stradale nell’Ue diminuirebbe di circa il 20%».
(da Italia Oggi)
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Giugno 22nd, 2024 Riccardo Fucile
L’EX PREMIER EDOUARD PHILIPPE HA ABBANDONATO LA MAGGIORANZA E SI PRESENTERÀ IN AUTONOMIA, I MACRONISTI DELLA PRIMA ORA PUNTANO IL DITO CONTRO I CONSIGLIERI VICINI A BRIGITTE, BRUNO ROGER-PETIT E L’ETERNO PIERRE CHARON, ACCUSATI DELLA SVOLTA DEL PRESIDENTE … IL MINISTRO DELLE FINANZE BRUNO LE MAIRE: “I PARQUET DEI PALAZZI DELLA REPUBBLICA SONO PIENI DI SCARAFAGGI. SI ANNIDANO NELLE FESSURE DEL PARQUET. LA COSA MIGLIORE È NON ASCOLTARLI”
Più ci si avvicina alle elezioni che nessuno — tranne il RN di Bardella e Le Pen — avrebbe voluto, e più cresce il nervosismo nel campo di Macron. Tra insulti e frasi piene di rancore, gli ex uomini forti della maggioranza prendono le distanze. In fondo, sciogliendo l’Assemblea all’improvviso, il comandante del Titanic ha centrato l’iceberg di proposito, e senza consultarli. La nave ora sta affondando, e loro si sentono in diritto di provare a salvarsi.
Edouard Philippe è stato il primo premier di Macron e nel 2022 ha fondato il partito Horizons, che finora faceva parte della maggioranza, ma che ormai presenterà i suoi candidati in autonomia. «È il presidente della Repubblica ad avere ucciso la maggioranza presidenziale — dice Philippe —. Non sono io che me ne sono andato. Bene, passiamo ad altro. Ora c’è da costruire una nuova maggioranza parlamentare, che funzionerà su basi diverse. […]».
La «granata senza sicura», che all’indomani dell’annuncio Macron si vantava di avere lanciato tra le gambe del sistema, è scoppiata e la politica francese si trova ora nel caos. Pochi scommettono sulla durata del Nouveau Front Populaire a sinistra, ed Edouard Philippe sembra pensare a una nuova alleanza che dopo il 7 luglio potrebbe formarsi in Parlamento tra la destra gollista dei Républicains anti-RN, i macronisti sociali alla Clément Beaune, i deputati Horizons, i centristi di Bayrou, i socialisti di Glucksmann, gli ecologisti, e insomma la sinistra eccetto La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon.
Il ministro delle Finanze Bruno Le Maire vuole regolare qualche conto e incolpa i potenti consiglieri dell’«ala Madame» (gli appartamenti della première dame) dell’Eliseo, ovvero Bruno Roger-Petit (detto BRP) e l’eterno Pierre Charon, 73enne capitano di lungo corso già accanto a Jacques Chirac e poi a Nicolas Sarkozy.
BRP e Charon sono sospettati di avere incoraggiato la svolta a destra di Macron, in una lotta di palazzo che li ha visti prendere il sopravvento sui macronisti della prima ora. E sarebbero stati loro a consigliare al presidente una scelta che oggi appare suicida. Le Maire li disprezza: «I parquet dei palazzi della Repubblica sono pieni di scarafaggi (il termine preciso da lui usato in francese è cloporte, in italiano «oniscidea»; ndr). Si annidano nelle fessure del parquet, è molto difficile sbarazzarsene. La cosa migliore è non ascoltarli e restare al proprio posto, che uno sia presidente, premier o ministro».
Gérald Darmanin rimane in carica come ministro dell’Interno, in effetti, ma già annuncia: «Dopo il voto non resterò ministro un giorno in più», a meno di un’improbabile vittoria.
(da Il Corriere della Sera)
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Giugno 22nd, 2024 Riccardo Fucile
LA GIORNALISTA RIPERCORRE LA SUA LUNGA CARRIERA DA INVIATA PER LA RAI
Dopo una lunga carriera da inviata per la Rai, Giovanna Botteri è rientrata in Italia, nella sua casa a Roma, pronta per la nuova vita da pensionata. Come già specificò, il suo rientro non sarebbe un ritiro definitivo dal lavoro: al Corriere, in una lunga intervista, ha raccontato di sé, dell’amore per la figlia, del suo ex Lanfranco Pace ed anche del suo futuro. Il pubblico televisivo la rivedrà “un una nuova rete”, ovvero La7, nel programma In altre parole di Massimo Gramellini. “È stata una scelta naturale”, il commento.
Il rientro a casa, a Roma, dopo 25 anni all’estero
Dopo 25 anni Giovanna Botteri è rientrata nella sua casa a Roma, dove è tornata a vivere. Dopo New York, Pechino e Parigi, la giornalista, ora in pensione, ha raccontato al Corriere di sentirsi come “le divorziate che tornano sul mercato”. Ha lasciato il cuore a Sarajevo, ha spiegato, ricordando che a quel tempo lei era l’unica giovane donna con una figlia, “un elemento diverso del classico gruppo dei corrispondenti di guerra”. Fu un’esperienza molto forte che l’ha segnata profondamente: “Talmente forte che è impossibile che ti lasci indenne. Lasci il tuo cuore, perché hai condiviso con tante persone cose terribili”. Ad aiutarla durante quel periodo con la figlia Sarah fu il suo papà, e il pensiero di avere una famiglia a casa la aiutava ad essere lucida. Una volta Sarah le chiese di tornare e la sua richiesta la salvò.
Ero in Afghanistan con Maria Grazia Cutuli (giornalista uccisa nei pressi di Kabul, ndr). La sera mi ha chiamato la mia Sarah piangendo e io non mi sono aggiunta al convoglio di Maria Grazia, ho preso un’auto per l’aeroporto, per tornare a Roma. E mi sono salvata, la vita è incredibile.
Ha raccontato il Covid da Pechino, esperienza della quale ricorda “tanta solitudine e angoscia”, prima di approdare a Parigi dove ha proposto anche diversi racconti di costume.
La figlia Sarah è nata dal legame con Lanfranco Pace, morto lo scorso novembre a 76 anni, dal quale si separò. Giovanna Botteri ha ricordato il loro rapporto raccontando che fu la loro diversità ad unirli: “Non so davvero cosa ci ha unito, credo che l’amore sia questo: non capisci, non c’è ragione, ma accade. Dal nostro amore è nata Sarah ed è la cosa più bella. La storia è stata molto complicata. Io con Sarah piccola sono tornata a Roma a lavorare. Facevo su e giù con Parigi, poi non ce l’ho più fatta. Lui ha cominciato a collaborare con Il Foglio ed è cominciato il suo periodo di “ripensamento”. Anche Sarah ha avuto bisogno di capire. Ma non rinnego nulla”. Assente dai social, non ha mai dato peso alle critiche ricevute per il suo aspetto fisico: “Chissenefrega dei capelli. Ragazze vogliatevi bene così come siete”.
(da Fanpage)
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