Giugno 29th, 2024 Riccardo Fucile
“DERIVE FIN QUI NASCOSTE ORA VENGONO ESIBITE”
È scossa e preoccupata, la senatrice a vita Liliana Segre, dai rigurgiti di razzismo e antisemitismo che serpeggiano tra le file dei giovani di Fratelli d’Italia, come documentato dalla recente inchiesta di Fanpage.
E non intende certo lasciar correre. «Credo che queste derive che sono venute fuori in quest’ultima settimana in modo così eclatante ci siano sempre state, nascoste, non esibite, e che con questo governo si approfitti di questo potere grande della destra – del resto è stata votata, non è che è rivoluzionaria -, non ci si vergogni più di nulla», riflette la sopravvissuta ad Auschwitz in un’intervista a In Onda, su La7.
«Ho seguito nelle varie trasmissioni queste sedute in cui si inneggia ‘Sieg Heil’, quindi anche motti nazisti che purtroppo ricordo in modo diretto, non per sentito dire», ricorda la senatrice a vita, per poi chiedersi con profonda amarezza: «Ora alla mia età dovrò rivedere ancora questo? Dovrò essere cacciata dal mio Paese come sono già stata cacciata una volta? È una domanda che è una risposta». Che interpella di fatto direttamente la premier e leader di FdI Giorgia Meloni.
(da Open)
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Giugno 29th, 2024 Riccardo Fucile
“MACRON? HA SBAGLIATO A INDIRE LE ELEZIONI, LE PEN POTRA’ USARE IL GOVERNO PER ANDARE ALL’ELISEO”… “DOPO L’AUTONOMIA, MELONI DEVE ESSERE ATTENTA AL SUO ELETTORATO MERIDIONALE”… “RENZI? SI SENTE RAPPRESENTATO SOLO DA SÉ STESSO, CALENDA HA REALISMO E DEVE TROVARE SPAZIO NEL CENTROSINISTRA”
«L’Italia rischia di essere isolata: una tragedia per chiunque faccia politica». Romano Prodi commenta preoccupato l’esito del Consiglio europeo, con il governo di Giorgia Meloni che si è messo fuori dall’accordo, insieme soltanto all’Ungheria di Viktor Orbán.
Partiamo da un giudizio di merito. Von der Leyen, Costa, Kallas. Al di là dei nomi, il pacchetto dei top jobs uscito dal vertice di Bruxelles rappresenta la guida forte che serve all’Europa?
Sulla carta sta uscendo un’Europa più debole. Non mi riferisco alle nomine, ma ai punti interrogativi che nascono rispetto alla leadership franco tedesca che ha sempre guidato l’Europa e allo sbandamento italiano che di fronte alle nuove incertezze sta dimostrando di non sapere dove andare. Una politica di inserimento preventivo poteva far giocare al nostro paese un ruolo forte come in passato, ma questa politica non c’è stata perché Meloni non aveva deciso da che parte stare: se essere presidente del Consiglio italiano o leader dell’estrema destra.
La premier Meloni ha votato contro due nomine su tre, astenendosi sulla presidente della Commissione. E ha denunciato l’esistenza di una conventio ad excludendum nei confronti dell’Italia.
C’è stata una excludendum senza conventio. Una auto-excludendum. Quando la tradizionale maggioranza si scolla, o ti inserisci per creare un nuovo equilibrio oppure, se ti escludi da sola, devi rassegnarti che qualche collante si ristabilisca».
In realtà Meloni ha provato per più di un anno a costruire l’asse, anche personale, con Ursula von der Leyen.
Sì, ma l’asse si è spezzato a Madrid, quando Meloni ha partecipato al raduno di Vox. Mi ha sorpreso, ma evidentemente la premier contava su una vittoria massiccia della destra estrema. Questo non è avvenuto. La verità è che nel parlamento europeo l’aumento del numero dei parlamentari delle destre è stato minimo, inferiore a ogni previsione.
Cosa rischia ora l’Italia?
Di essere isolata: una tragedia per chiunque faccia politica.
Domani si vota per il primo turno delle elezioni legislative francesi. L’azzardo del presidente Emmanuel Macron sta riuscendo?
Vedremo se vince o se perde. Ma in ogni caso è stato un “errore di sbaglio”. È stato il gesto di chi dice: “dopo di me il diluvio”. Con l’Assemblea precedente c’erano maggiori possibilità di riaggiustare, di riarmonizzare il tandem franco-tedesco. Se poi vincerà Marine Le Pen, ça va sans dire….
C’è chi dice che Macron voglia veder fallire il Rassemblement nella prova del governo, per poi sconfiggerlo nelle presidenziali del 2027.
Alcuni politologi francesi la pensano così, ma non considerano che quando poi si arriva al potere, molti sono i meccanismi utilizzabili per vincere anche le elezioni presidenziali, con le robuste leve che consente il sistema istituzionale francese. È pur vero che da qui al 2027 le cose possono cambiare anche tra chi intende costruire un’alternativa alle destre, così in Francia come in Italia.
Sull’Italia pesa una procedura europea di infrazione per il debito pubblico. Fanno 32 miliardi di risorse aggiuntive da trovare nella prossima legge di bilancio. Nessuno ne parla in questi giorni. Che cosa rischiamo?
Il rischio è altissimo. Se leggiamo le proposte di politica economica il disastro diventa una certezza: si va dritti verso l’infrazione. L’attuale ministro dell’Economia poi si adatta alle circostanze: Giorgetti è leghista a Roma e legittimista a Bruxelles, ma ha la fortuna di abitare a metà strada, davanti al bellissimo lago di Varese.
Com’è lo stato di salute del governo Meloni?
È sempre stato cattivo, ma finora l’antibiotico Meloni ha sempre funzionato. È una coalizione con un comando accentrato, qualsiasi rottura porterebbe i due alleati al disastro, quindi la maggioranza è forte e al contempo debole, com’era all’inizio.
Però alle elezioni europee il partito di Meloni è arrivato quasi al trenta per cento.
Gli italiani hanno semplificato i due schieramenti. Le coalizioni di oggi sostituiscono la sfida tra i partiti che c’era all’inizio della storia repubblicana, tra democristiani e comunisti
Il bipolarismo Meloni-Schlein è paragonabile a quello Berlusconi-Prodi?
Oggi il ruolo delle due contendenti in maggioranza e all’opposizione è semplificato. Meloni e Schlein hanno vinto bene e non hanno distrutto le alleanze. Questo è un vantaggio, ma si deve fare attenzione. Bisogna vedere se la semplificazione induce qualcuno alla disperazione. Quando si vede il proprio partito diminuire, si possono trovare ovunque ragioni per la rottura . Non penso solo al campo largo.
La prima battaglia è quella sull’autonomia differenziata. Meloni dice: è stato il centrosinistra ad aver aperto la strada con il cambio del titolo V della Costituzione.
Rischiamo di avere regioni che si mettono singolarmente d’accordo con il governo e fanno la diversità regionale a seconda delle convenienze di partito e della ricchezza della regione.
Il referendum abrogativo è una sfida con possibilità di vittoria, con il quorum del 50 per cento dei votanti da superare?
È una sfida rischiosa, ma ci sono sfide che devono essere fatte perché giuste. Portare a votare una maggioranza oggi è ancora più difficile e Meloni punterà su questo. Ma è un gioco democratico puntare sull’astensionismo? Non lo è. E dovrebbe essere attenta al suo elettorato meridionale, potrebbe essere una vittoria di Pirro.
Il premierato: la destra afferma che era il primo punto del programma dell’Ulivo nel 1995.
È una gran balla. Nel nostro programma c’era il rafforzamento della presidenza del Consiglio, indispensabile, con il potere di revoca dei ministri per fare una squadra efficiente. Ma non venivano assolutamente toccati il parlamento e i poteri del presidente della Repubblica.
Fratelli d’Italia vorrebbe eliminare il doppio turno anche dalla legge elettorale dei comuni.
Se c’è una cosa in cui il paese è cambiato in meglio è il governo delle città. Prima ci lamentiamo dell’astensionismo e poi vogliamo comprimere il voto?
Dopo il voto europeo e i ballottaggi vittoriosi il Pd di Elly Schlein appare più forte. Vuol dire che l’alternativa alle destre è più vicina?
È il momento di scrivere un serio programma di governo, discusso nel paese. Ricostruire la base. Serve un pullman dell’Ulivo moderno, contemporaneo.
Andiamo con i suggerimenti. Per la segretaria del Pd Schlein?
Costruire il programma. Prendere le parole di cui discutono gli italiani nelle loro case, il lavoro, la sanità, la casa, la scuola Giusto parlare di salario minimo e di sanità, bisogna farlo con migliaia e migliaia di persone. C’è bisogno di rianimare il dibattito politico. Così si vincono le elezioni.
Per Giuseppe Conte? Nel 2022 il Pd sembrava destinato a morire, superato dal Movimento 5 stelle.
Ho detto a Conte, anche direttamente, che il Movimento 5 stelle è nato da un’emozione, c’era allora il senso di una piramide che opprimeva e che andava rovesciata. Oggi c’è la guerra, la paura delle nuove generazioni, la gente non vuole più l’emozione, vuole essere rassicurata. L’Italia è il paese con le minori proteste di piazza. Il vaffa è finito, è durato anche troppo. I Cinque stelle hanno ancora un patrimonio, o fanno il loro programma oppure, adagio adagio, spariscono.
Per Renzi e Calenda: possono ancora rappresentare qualcosa?
Renzi si sente rappresentato solo da sé stesso, il problema quindi non si pone. Calenda […] deve […] portare quella sensibilità e quella consapevolezza nel centrosinistra che ne ha bisogno. […] Il realismo di un uomo intelligente come Calenda deve spingerlo a capire che quella è la strada in cui può trovare uno spazio ampio.
La segretaria del Pd ha le carte in regola per candidarsi quando sarà il momento alla guida di una coalizione di governo?
Schlein può vincere le elezioni, ma solo se rappresenta tutte le sensibilità. Non si vince senza interagire con tutti i pezzi del paese. Così come è importante tener conto della presenza di una grande area cattolica riformista. Un paese complesso come l’Italia esige una flessibilità del comando. Il pluralismo è fatto di convivenza mediata, ragionata, discussa. La composizione della diversità è la caratteristica di una democrazia matura.
Un punto dove finora è stata impossibile trovare una sintesi è il sì o il no al sostegno militare all’Ucraina.
Dopo l’aggressione russa, pesa la fatica della guerra. Sta cominciando la stanchezza. Le divisioni dell’Europa hanno impedito che l’unico protagonista che poteva fare la pace si mettesse al tavolo. Ci hanno provato la Turchia, l’Arabia Saudita, il Qatar, il Vaticano, nessuno ha ottenuto nulla. Si fa una conferenza di pace con la presenza di una sola parte. Fino alle elezioni americane non si muoverà nulla. Il presidente Biden ha ora la priorità della pace in Israele.
Se vince Trump sull’Ucraina cambia qualcosa?
Sì, perché ha le mani libere. Trump è del tutto imprevedibile, ma comincia un capitolo da zero che avvantaggia sia lui che Putin, con l’Europa in mezzo che continuerà a non contare nulla. Ma arriverà il giorno in cui la Francia sarà costretta a fare il grande passo per costruire finalmente l’esercito europeo, portando a livello dell’Unione il suo diritto di veto al Consiglio di Sicurezza e l’arma nucleare.
Dopo il faccia a faccia televisivo con Trump, Biden dovrebbe ritirarsi?
La sua debolezza è apparsa evidente. E quattro anni sono obiettivamente lunghi. La decisione è solo sua.
(da Editorialedomani)
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Giugno 29th, 2024 Riccardo Fucile
IL POLITOLOGO MARCO TARCHI: “MELONI INDOSSA DUE CAPPELLI: PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E LEADER DI ECR. NON C’È DA STUPIRSI SE LE CONVERGENZE MANCANO”… “LA RIVOLUZIONE CULTURALE DELLA DESTRA IN ITALIA? VEDO SOLO NOMINE AI VERTICI DI ISTITUZIONI CONTROLLATE DALLO STATO. LE PREMESSE DI QUESTA RIVOLUZIONE NON LE VEDO”
Politologo, docente universitario a Firenze, considerato l’ideologo della Nuova destra, catalogazione che rifiuta in quanto da oltre vent’anni ritiene obsoleta la dicotomia destra-sinistra, Marco Tarchi è impegnato ma trova il tempo per rispondere
Alle ultime elezioni si è scoperto che, come dicono i sondaggisti, il governo dell’Unione europea è contendibile. Se lo aspettava?
«Dopo mesi di campagna in cui Meloni aveva promesso che il suo gruppo sarebbe stato decisivo nella scelta del nuovo, o vecchio, presidente della Commissione europea, c’era chi si aspettava di meglio. Invece, la prospettiva di una conferma della vecchia maggioranza popolari-socialisti-liberali resta in piedi. Io non ho mai creduto nel sorpasso».
Le sembra che la leadership interpretata da Emmanuel Macron e Olaf Scholz stia traendo adeguate conseguenze dalla sconfitta?
«No. Tirano a campare, fino a quando non saranno sbalzati di sella dai rispettivi elettorati nazionali. E dubito che l’attuale presidente francese, anche se subisse un altro pesante schiaffo il 7 luglio, rinuncerà alla carica. Anzi, sfrutterà la prevedibile ingovernabilità dell’Assemblea nazionale per far valere ancora di più le sue prerogative».
Finora Ppe, socialisti e liberali si stanno mostrando indifferenti all’esito elettorale. Questo orientamento aumenterà la distanza tra i cittadini e le istituzioni di Bruxelles e alimenterà sentimenti di rabbia nei raggruppamenti cresciuti e consolidati dal voto?
«Non c’è, né in Italia né in nessun altro paese dell’Unione, un vero interesse dell’opinione pubblica per le vicende politiche europee. Gli unici momenti in cui questa indifferenza cessa sono quelli in cui c’è da contestare qualcuna delle politiche decise a Bruxelles su agricoltura, commercio, limiti alle emissioni e via dicendo. L’Ue ha sempre scaldato solo i cuori di un ristretto nucleo di politici e intellettuali».
Sembra che Giorgia Meloni voglia far pesare lo spostamento a destra dei consensi. Fa bene ad alzare la voce contro i tentativi di procedere alle nomine senza tenerne conto?
«A quanto sembra, viste le reazioni di Tusk e Weber, sì. Ma in queste dichiarazioni si sottolinea il ruolo dell’Italia, “Paese fondatore della comunità europea”, non quello dei conservatori che Meloni dirige, mostrando che, pure loro, tengono d’occhio più gli interessi dei rispettivi Stati che quelli dei “fratelli” d’oltre frontiera».
Il presidente Sergio Mattarella ha ribadito che bisogna tenere conto dell’Italia: non toccherebbe anche alle opposizioni, Pd compreso, fare squadra per sostenere la rilevanza del nostro Paese in Europa?
«Nell’attuale gioco, Meloni indossa contemporaneamente i due cappelli: presidente del Consiglio e leader di uno specifico gruppo. Stanti così le cose, e dati i toni dell’attuale politica bipolare, non c’è da stupirsi se le convergenze mancano. Ma, quando si è trattato di nomine ai vertici, è stato più o meno sempre così, e non solo da noi. Si è visto persino il clamoroso autogol di Salvini nel 2019, quando fece cadere il governo di cui faceva parte nel momento in cui era convinzione comune che il posto di commissario italiano sarebbe toccato a Giorgetti. E così lì ci andò Gentiloni».
Che ripercussioni avrebbe sugli equilibri del governo italiano la decisione di Giorgia Meloni di appoggiare la candidatura di Ursula von der Leyen?
«Darebbe un solido argomento polemico alla Lega, che già con la fortunata scelta di Vannacci si è candidata a fare concorrenza da destra a Fratelli d’Italia. Forza Italia, ne sarebbe soddisfatta, ma dubito che quel gesto diminuirebbe la potenziale conflittualità con il partito di maggioranza della coalizione».
Quanto sarà determinante l’esito delle imminenti elezioni francesi?
«Dipenderà, ovviamente, dal riscontro delle urne. E ho il sospetto che una, peraltro improbabile, maggioranza assoluta di seggi dell’alleanza Rassemblement national-Républicains di Ciotti, e una conseguente ascesa di Jordan Bardella alla carica di primo ministro non rallegrerebbe Meloni. Che tiene moltissimo ad essere considerata il faro delle destre europee e che conduce una politica in molti punti divergente da quella di Marine Le Pen e soci».
Quanto plausibili sono gli allarmi di alcuni analisti che vedono i fondamenti dell’attuale consorzio europeo messi in discussione dalla cosiddetta avanzata delle destre?
«Li considero in larga misura eccessivi. Sia i partiti facenti capo all’Ecr sia il partito di Orbán non hanno alcuna intenzione di mettere in discussione l’attuale struttura dell’Ue. Tutt’al più auspicano qualche modifica del suo funzionamento. Il caso Meloni insegna: una volta entrati nel salotto buono dell’Unione, ci si adegua alle sue buone maniere».
L’Europa è destinata a rimanere un’entità fredda e dirigista o ci sono margini per recuperare un’identità propria nel rispetto dell’autonomia delle diverse nazioni?
«Di margini ne vedo pochi, perché fino a quando l’Ue resterà legata a doppio filo alle strategie degli Usa e della Nato».
Nel suo ultimo libro analizza le stagioni della destra italiana: pensa che un’abiura definitiva del fascismo metterebbe Giorgia Meloni al riparo dalle critiche e dalle diffidenze che la accompagnano?
«Nessuna abiura avrebbe questo effetto, e anzi verrebbe interpretata come un segnale di debolezza. Sarebbe solo un modo per alienarsi quegli elettori che, pur senza coltivare nostalgie, si rifiutano di accettare la riduzione caricaturale di un fenomeno complesso della storia italiana all’immagine manichea che ne danno gli antifascisti di professione».
Come giudica il tentativo del governo di modificare il sistema culturale in Italia?
«Esiste, questo tentativo? Dov’è? Io, per il momento, vedo soltanto nomine ai vertici di questa o quella istituzione controllata dallo Stato. Ma nelle case editrici, nelle redazioni giornalistiche, nelle scuole, nelle università, nelle società di produzione cinematografica, nelle compagnie teatrali, nel mondo della musica e via elencando niente è cambiato. E niente potrà cambiare se non si costruirà, poco alla volta, una nuova atmosfera culturale. Che ha bisogno di idee capaci di attrarre consenso e di ingegni capaci di produrle e farle circolare, non di direttori o commissari straordinari di questo o quell’ente. Per adesso, le premesse di questa rivoluzione culturale non riesco a scorgerle all’orizzonte».
(da La Verità)
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Giugno 29th, 2024 Riccardo Fucile
SINDACATI, OPPOSIZIONI E ASSOCIAZIONI, SI PREPARA LA MACCHINA ORGANIZZATIVA PER RACCOGLIERE LE FIRME
Il fronte contrario all’Autonomia differenziata si muove. E si prepara alla sfida annunciata: quella che porterà al referendum abrogativo. Stamattina la prima tappa concreta, tre giorni dopo la firma definitiva della legge da parte del Quirinale: partiti politici di opposizione, organizzazioni confederali Cgil e Uil e numerose realtà associative del Paese si sono riuniti “per affrontare gli adempimenti necessari a depositare in Corte di Cassazione il quesito abrogativo della legge Calderoli e avviare quanto prima la campagna referendaria”. Proprio il ministro leghista Roberto Calderoli oggi ha sottolineato che l’entrata in vigore della legge è previsto per il 13 luglio perché nelle scorse ore è avvenuta la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale “con molto anticipo – ha esultato – rispetto al tempo massimo previsto”. L’obiettivo del fronte contrario all’Autonomia, a questo punto, diventa raccogliere le firme prima del 30 settembre in modo che la consultazione popolare possa svolgersi entro il 2025. Poi si dovranno fare i conti con il quorum, eterno scoglio dei referendum. Ma per quello c’è ancora tempo.
Anche perché in questo caso il comitato promotore è davvero variegato: “Si sta lavorando alla costituzione di un comitato promotore il più ampio e trasversale possibile, cui far partecipare tutte le forze, le associazioni e le personalità che condividono l’obbiettivo di fermare un’autonomia differenziata destinata ad aumentare, inevitabilmente, i divari territoriali e le già insopportabili diseguaglianze a tutte le latitudini, compromettendo le prospettive di crescita e di coesione sociale dell’Italia intera”, si legge in una nota congiunta, al termine dell’incontro di stamattina. Tra le principali forze politiche sono già in campo Pd, M5s, Avs, + Europa. Ma il fronte potrebbe allargarsi anche verso il centro. I contatti sono già in corso.
E intanto il segretario di +Europa, Riccardo Magi, contesta: “Da parte nostra, abbiamo ribadito la necessità che il governo attivi con urgenza la piattaforma per la raccolta di firme online che ormai attende da due anni, come previsto dalla legge. È evidente che l’esecutivo Meloni sta rallentando l’attivazione della piattaforma per timore delle consultazioni referendarie che smonterebbero le due riforme madre della destra: autonomia e premierato. Si tratta di un gravissimo sgambetto antidemocratico: Meloni, Nordio e Mantovano attivino la piattaforma ed escano dall’illegalità”.
(da agenzie)
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Giugno 29th, 2024 Riccardo Fucile
LA PRESIDENTE CERCHERA’ I VOTI DEL M5S, CHE HA 8 VOTI – L’IPOTESI DI UNA INTESA “SEGRETA” CON FRATELLI D’ITALIA (CHE VERREBBE SUBITO SCOPERTA)
«Meloni e Orbán adesso potrebbero tentare di tutto per farti cadere a Strasburgo». Giovedì notte, dopo il via libera del Consiglio europeo alle nomine Ue, il messaggio lanciato a Ursula von der Leyen da diversi capi di Stato e di governo, tra cui il francese Emmanuel Macron, è stato questo. Italia e Ungheria sono ormai all’opposizione nel consesso dell’Unione.
§E la presidente designata della Commissione deve affrontare il voto del Parlamento europeo, previsto per il 18 luglio, costruendo una rete di sicurezza intorno alla sua maggioranza composta da Ppe, Pse e Renew. Da tessere nei prossimi venti giorni chiedendo voti a largo spettro. Con interlocutori privilegiati – i Verdi – e secondari – deputati non iscritti a gruppi. Il punto di partenza è numerico.
La maggioranza “tripartita” può contare su 399 dei 720 europarlamentari. In teoria, quindi, ben al di sopra della maggioranza assoluta richiesta di 361 seggi. Ma quel margine di 38 voti potrebbe non essere sufficiente.
Tradizionalmente la quota di franchi tiratori nell’Eurocamera è piuttosto alta. Almeno del 10 per cento. Vuol dire che quei 399 “sì” potrebbero diventare meno di 360. Per cautelarsi, dunque, von der Leyen deve cercare consensi personalmente altrove. E metterà sul tavolo aperture “programmatiche” e anche qualche “poltrona”.
La prima sponda sarà quella degli ambientalisti. Su questo fronte spingono soprattutto i socialisti. Si tratta, però, di un terreno scivoloso, perché i popolari non sono per niente favorevoli ad aprire a un’intesa strutturata con gli ecologisti. Il Green Deal ha un peso nella posizione del Ppe. La capa dell’esecutivo europeo è semmai pronta a intavolare un negoziato con alcune singole delegazioni nazionali dei Verdi. Da quella tedesca, che conta 16 deputati, a quella olandese (6), fino a quella spagnola (4) e italiana (3). Non si tratterebbe di un coinvolgimento diretto nella maggioranza ma di un “appoggio esterno” ricompensato con qualche concessione tematica e alcuni “incarichi”: gli “inviati speciali” nominati dalla Commissione.
La presidente della esecutivo Ue ha spiegato di volere aprire un canale di comunicazione anche con l’ex premier italiano e leader M5S, Giuseppe Conte (ad ora contrario): i grillini sono 8 e al momento figurano tra i non iscritti. Spera poi che Smer, il partito del premier slovacco Fico – che giovedì notte ha votato a favore – torni tra i socialisti e quindi metta a disposizione i suoi eletti (5).
Poi c’è il capitolo-destra. In particolare quello del gruppo Ecr, i Conservatori di cui fa parte Fratelli d’Italia. Ursula non vuole chiudere il rapporto con Meloni ma sa di non poter più costruire con lei una intesa programmatica e politica. Soprattutto dopo la scelta adottata dalla presidente del Consiglio nei suoi confronti. Nei progetti di Palazzo Berlaymont c’è ancora l’intenzione di chiedere i voti a FdI e non all’Ecr. Puntualizzando che si tratterebbe di una collaborazione solo istituzionale.
Nello staff di Ursula, c’è chi propone di stringere un patto segreto a tal proposito con Palazzo Chigi. Il senso del ragionamento è questo: datemi i voti (24) senza rendere pubblica la vostra disponibilità e io sarò generosa con il portafoglio da affidare al commissario italiano. Ma molti si chiedono se un accordo di questo tipo, che coinvolge tanti soggetti, possa davvero rimanere riservato. Poco probabile.
Si tratta di un confronto, dunque, molto difficile e molto rischioso. Anche perché la risposta fornita in queste ore da FdI è piuttosto esigente: «Vogliano una vicepresidenza esecutiva e vogliamo che la commissaria spagnola, l’attuale ministra socialista Ribera candidata alla Transizione ecologica, non ottenga anche la vicepresidenza». Pretesa inaccettabile, anche perché i socialisti sono organicamente in maggioranza e il primo ministro spagnolo Sanchez è stato tra i “main sponsor” di Ursula
(da la Repubblica)
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Giugno 29th, 2024 Riccardo Fucile
PESANO IL CONTESTO ECONOMICO ANCORA DEBOLE E L’ELEVATA INCERTEZZA GEOPOLITICA
Il contesto economico ancora debole e l’elevata incertezza geopolitica portano Abi e Cerved a stimare che nel 2024 il tasso di deterioramento del credito delle imprese si assesterà al 3,5% (dal 2,4% registrato nel 2023), mentre nel 2025 un maggior tono della crescita economica e il minor livello atteso dei tassi di interesse porteranno a un lieve calo (3,2%), per concludere nel 2026 con un tasso di deterioramento previsto al 2,7%, tre decimi di punto più del dato del 2023 ma al di sotto del livello del 2019 (2,9%).
Nel 2024 gli aumenti più consistenti si stimano per le micro (dal 2,7% al 3,7%) e le medie imprese (dall’1,3% al 2,3%), per le attività che operano nelle costruzioni (dal 2,5% al 4,0%), soprattutto di media dimensione (dal 2,7% al 4,8%), e nel Sud Italia (dal 3,2% al 4,4%), con incrementi particolarmente marcati per le microimprese (dal 3,4% al 4,6%).
Secondo l’Outlook Abi-Cerved, il clima sfidante in cui si trovano a operare le imprese è testimoniato dall’aumento, seppur ancora limitato, dei tassi di deterioramento delle società non finanziarie riportato da Banca d’Italia, che mostra un valore pari al 2,43% nel complesso del 2023 (contro il 2,18% dell’anno precedente). Il 2023 presenta inoltre una dinamica in crescita lieve ma costante anche per il comparto delle famiglie.
“Le nostre stime sull’evoluzione dei crediti deteriorati restituiscono un quadro ancora complesso per le imprese italiane, alle prese con tensioni geopolitiche e condizioni finanziarie restrittive”, afferma Carlo Purassanta, presidente esecutivo di Cerved. “Il livello atteso per quest’anno – prosegue Purassanta – resterebbe comunque lontano dai livelli record raggiunti in passato, a testimonianza di una migliore redditività e posizione patrimoniale delle imprese italiane nell’ultimo decennio. Il patrimonio informativo, la ricerca e le capacità analitiche di Cerved, di concerto con le istituzioni e le accademie, sono a supporto del Paese per l’interpretazione e l’analisi degli scenari e dei relativi impatti per il tessuto economico”.
“In uno scenario macroeconomico che resta sfidante, il livello del rischio di credito per il mondo bancario italiano risulterà, nel prossimo futuro, fisiologicamente superiore a quanto sperimentato nell’ultimo biennio”. Questo il commento di Gianfranco Torriero, vice direttore generale vicario dell’Abi, che aggiunge: “Grazie all’affinamento delle tecniche di gestione e prevenzione del rischio da parte delle banche e al significativo e strutturale miglioramento del merito di credito delle imprese, l’intensità di tale aumento risulterà, tuttavia, contenuta nel confronto storico”.
Le previsioni dei flussi di nuovi NPL nel biennio 2025/26 riflettono un quadro caratterizzato da una graduale ripresa dell’attività economica, su cui incombe tuttavia un elevato grado di incertezza, e dalla progressiva minore restrittività della politica monetaria. Il percorso di riduzione dei tassi d’interesse da parte della BCE, avviato a giugno 2024, contribuirebbe a migliorare le condizioni di accesso al credito da parte delle imprese e a partire dal 2024 il Pil è stimato in costante crescita, seppure a percentuali contenute.
Nel 2025 il calo del rischio è comune a tutte le classi dimensionali, più marcato per medie e grandi imprese (dal 2,3% del 2024 all’1,8% del 2025 le prime, dal 2,0% del 2024 all’1,5% del 2025 le seconde). Al 2026 micro e piccole imprese rimarranno al di sopra dei valori del 2023 le medie imprese li eguaglieranno (1,3%) mentre le grandi lo ridurranno (dall’1,1% del 2023 all’1,0% del 2026). Quanto ai settori, nel 2025 il calo del flusso di nuovi crediti deteriorati li interesserà tutti. Il miglioramento più accentuato è previsto per l’industria (dal 3,0% al 2,5%), seguita da costruzioni (dal 4,0% al 3,6%) e servizi (dal 3,6% al 3,2%).
Nel 2026 è invece l’agricoltura il settore che farà osservare il miglioramento più netto (-0,5%), portandosi al 2,4% (contro il 2,9% del 2025). A livello territoriale, nel 2025 si registrerà la riduzione maggiore della percentuale di crediti in default sul totale dei prestiti in bonis nel Nord-Ovest (dal 3,2% al 2,8%) e nel Nord-Est (dal 2,7% al 2,3%), mentre Sud e Isole (dal 4,4% al 4,1%) continueranno ad essere l’area più rischiosa, seguita dal Centro (dal 4,0% al 3,7%). Al termine del periodo di previsione, ogni area presenterà valori inferiori rispetto al 2019.
(da agenzie)
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Giugno 29th, 2024 Riccardo Fucile
L’ALTA VELOCITA’ SOFFRE PERCHE’ E’ AL LIMITE, MA IL VERO PROBLEMA SONO LE AUTOSTRADE
Solo ieri sulla rete dell’alta velocità un «incidente tecnico» ad un treno sulla Roma-Firenze poco dopo aver lasciato la stazione Tiburtina, un «inconveniente tecnico» alla linea Milano-Bologna all’altezza di Piacenza ed una persona investita da un treno sulla Verona-Bologna hanno prodotto la solita sequenza di ritardi a cascata. Attorno alle 11, tanto per fare un esempio, alla stazione di Bologna, tutti i treni dell’alta velocità risultavano in forte ritardo: 120 minuti il Frecciarossa per Roma delle 9.47, 100 minuti l’Italo delle 10.06 per Torino, 80 minuti due treni per Venezia, dai 30 ai 55-75 minuti un’altra decina di convogli. Non è andata meglio a quanti hanno scelto l’autostrada: bastava ascoltare ieri pomeriggio «Rai Isoradio» per avere notizia di disagi altrettanto seri: 12 chilometri di coda per un mezzo in fiamme a Fabbro sulla A1 Firenze-Roma, 3 km di coda in direzione opposta e del solito imbuto («code a tratti») in zona galleria di Valico.
Disagi quotidiani per milioni di italiani
Storie di ordinario disagio per chi si deve spostare su e giù per l’Italia, o se vogliano una istantanea di quanto sia fragile (per le ragioni più disparate) la rete nazionale di trasporto dove ogni giorno si muovono 55 milioni di italiani usando bus, tram, metro, auto, pullman e treni lumaca e treni veloci. Più che le ferrovie, spiegano gli esperti, la vera criticità riguarda le autostrade. «Dopo gli anni Settanta, periodo in cui eravamo primi in Europa in termini di sviluppo della rete praticamente si è fermato tutto» spiega Antonello Fontanili, direttore di Uniontrasporti, società consortile delle Camere di commercio che si occupa di assistenza tecnica e progettuale in materia di infrastrutture, trasporti e logistica. «Ma non si è passati a modalità di trasporti più sostenibili – avverte Fontanili -. Infatti il trasporto su gomma di passeggeri e merci è cresciuto molto più rapidamente di quello ferroviario col risultato che oggi abbiamo reti stradali in gran parte congestionate, soprattutto nelle aree del Nord».
«C’è un problema di rigenerazione delle infrastrutture che vale un po’ per tutta Italia: è questo il nostri problema», spiega Ennio Cascetta, ordinario di Pianificazione dei sistemi di trasporto all’università Federico II di Napoli ed uno dei massimi esperti del settore. «Dal dopoguerra sino a tutti gli anni ’80 abbiamo realizzato quasi tutti i 7 mila chilometri di rete attuale, poi ci stiamo fermati mentre Germania, Franca e Spagna ci superavano. Parliamo di opere realizzate 50-60 anni fa che per poter durare per i prossimi 50 anni oggi hanno bisogno di interventi profondi».
«La sveglia forte e chiara» come la definisce Cascetta ce l’ha data il crollo del ponte Morandi. Dopo quella tragedia sono state riviste le norme che risalivano al 1960 e quindi è stata fatta tutta un serie di verifiche puntuali e dettagliate della staticità di ponti, gallerie e di tutto il resto per cui ora si rende necessario mettere in campo miliardi di euro di investimenti. «È un tema nazionale gigantesco, a cui peraltro il Pnrr non riserva nemmeno un euro – spiega l’esperto -. I soldi concretamente non ci sono per cui finirà che tutti i lavori li pagheranno gli automobilisti ed i camionisti attraverso i pedaggi».
Bianco e Brennero, il nodo dei tunnel
E sempre un problema di «rigenerazione» è quello che riguarda il Monte Bianco. «Abbiamo un doppio collegamento stradale, Monte Bianco e Frejus. In realtà è come se ne avessimo uno solo perché il tunnel del Bianco, nato come una bellissima opera di ingegneria di cui per anni siamo andati giustamente fieri, oggi è praticamente un fossile vivente, perché una galleria con una canna sola è incompatibile con tutti gli standard di sicurezza europei – spiega ancora Cascetta – . Sono anni che l’Italia chiede giustamente alla Francia di realizzare una seconda galleria scontrandosi però con una strutturale opposizione francese che non vuole un aumento del traffico pesante in val d’Isère. Peccato, perché una seconda canna consentirebbe tutt’altra tempistica dei lavori; che invece, se dovessero protrarsi per vent’anni come si prevede ora, farebbero uscire definitivamente il Bianco dalle rotte commerciali».
Oltre al Bianco, segnala a sua volta Fontanili, c’è il problema del Brennero su cui da tempo con l’Austria si consuma una battaglia diplomatica e legale, situazione che a breve potrebbe precipitare visto che appena dall’altra parte del confine c’è un ponte che deve essere completamente rifatto. «Si tratta di una situazione simile a quella del Bianco – sostiene il direttore di Uniontrasporti – ma almeno da questa parte, anche se vecchia di 150 anni, in attesa della nuova galleria di valico prevista per il 2032 c’è una alternativa ferroviaria che riesce ancora a performare bene. Sul fronte del Bianco, invece, non ci sono proprio alternative». Cascetta conferma: «Sul versante con la Francia la situazione ferroviaria è assolutamente lontana dagli standard di qualità e capacità che si richiedono oggi alle ferrovie europee. A parte la frana che la blocca la linea del Frejus risale all’800, roba da archeologia ferroviaria, ci possono passare pochi treni, corti e a costi molto alti».
E l’alta velocità è fragile anche lei? «Nel senso letterale del termine si può dire di sì, ma è una fragilità, in positivo, legata al suo successo» commenta Francesco Ramella, docente di trasporti all’Università di Torino. «Le linee sono saturate “a tappo” – aggiunge Cascetta – venisse realizzata una nuova linea Nord-Sud sono convinto che si saturerebbe pure quella». Solo le merci faticano a viaggiare spedite. «Mentre l’alta velocità ha cambiato il modo di muoversi dei passeggeri, sul fronte delle merci trasportate ci siamo fermati, tanto che gli obiettivi per il riequilibrio modale non potranno essere raggiunti: oggi il trasporto ferroviario assorbe appena l’11-12% contro il 18-20% di media europea quando si dovrebbe arrivare al 30% entro il 2030, ovvero domani. Impossibile». Le ragioni? «Mancano reti ferroviarie performanti e si tende sempre a dare la precedenza all’alta velocità, alla lunga percorrenza ed al trasporto locale e quindi le stesse imprese preferiscono il trasporto stradale anche se meno sostenibile».
Secondo Cascetta sul fronte ferroviario l’Italia è sulla strada giusta: «Tutte le grandi scelte che dovevano essere fatte l’Italia le ha fatte. È solo una questione di tempo. Ci sono il terzo valico, il tunnel di base del Brennero e la Napoli-Bari in costruzione, l’alta velocità al Sud tra mille discussioni è comunque partita – sintetizza -. Manca sono il completamento del Brennero, perché mancano ancora progettazione e finanziamento del raccordo con Verona». Quanto ai ritardi che affliggono la rete dell’alta velocità, a suo parere, una parte dei problemi è legata ai cantieri ed ai lavori in corso, «ma in buona parte saranno superati con l’intervento sul nodo critico di Firenze, dove dopo anni di discussioni sono finalmente partiti i lavori per la nuova stazione Av ed il bypass».
Reti e cantieri, i progetti in campo
Contromisure? Tra i tanti progetti Rfi ha da poco iniziato i lavori sulla tratta alta velocità tra Roma e Firenze investendo 200 milioni di euro nell’upgrade del sistema (l’Ertms) che controlla del distanziamento dei treni. Sul fronte autostrade, in base al decreto Aiuti quater, il piano di Aspi invece prevede di realizzare una dozzina di interventi: in particolare opere strategiche e attese da anni, come la Gronda di Genova e il passante di Bologna, dovrebbero essere approvati tra fine 2024 e inizio 2025. Per guadagnare tempo su questi ed altri lavori (vedere grafico dei progetti in campo) Aspi ha stanziato 250 milioni di euro per avviare i «lotti zero» e realizzare tutte le attività propedeutiche al decollo dei cantieri, dalla costruzione dei campi base alla rimozione delle eventuali interferenze, dalle indagini archeologiche alle bonifiche da ordigni bellici, sperando che il via libero definitivo ai progetti arrivi poi rapidamente.
(da lastampa.it)
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Giugno 29th, 2024 Riccardo Fucile
IL RAPPORTO AGROMAFIE E CAPORALATO
Dai due maxighetti della Capitanata con ottomila persone, alle campagne di Ragusa dove tuttora, nonostante inchieste e arresti, le braccianti rumene vivono in condizioni di totale sfruttamento, lavorativo e sessuale; dal Friuli Venezia Giulia dove la Flai-Cgil raccoglie decine di denunce contro i caporali, alla Piana di Gioia Tauro.
La definisce “una bomba a orologeria” Jean René Bilongo, presidente dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, che della situazione del caporalato in Italia conosce i numeri e, soprattutto, le storie. Tutte diverse, tutte difficili. La verità è che poteva accadere anche altrove la vicenda di Latina, dove il bracciante indiano Satnam Singh è stato abbandonato davanti casa dopo aver perso un braccio in un incidente sul lavoro ed è morto dissanguato.
Sarà presentato il prossimo autunno il VII Rapporto Agromafie e caporalato, ma già la scorsa edizione ha fornito una vera e propria mappa del caporalato in Italia, individuando 405 tra località e aree in cui lo sfruttamento è sistematico.
La geografia del caporalato
“Abbiamo individuato 45 aree nel Nord Ovest, 84 nel Nord Est, 82 al Centro, 123 al Sud e 71 nelle Isole, a dimostrazione che questo non è un fenomeno che riguarda solamente e soprattutto il Meridione” sottolinea Jean René Bilongo a ilfattoquotidiano.it. Dalla mappa pubblicata sul rapporto è evidente che ci sono, poi, situazioni particolarmente critiche localizzate in alcune regioni. Basti pensare che in Sicilia ci sono 53 aree tra quelle individuate, in Veneto sono 44, in Puglia 41, nel Lazio 39, in Emilia-Romagna 38, in Calabria 29, in Campania 28, in Toscana, Piemonte e Lombardia rispettivamente 27, 22 e 21. “Le aree dove il fenomeno ha assunto da anni o sta assumendo dimensioni preoccupanti sono tantissime. Tra queste ci sono certamente – dice il presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto – la Capitanata in Puglia, la Piana di Gioia Tauro in Calabria, il Matapontino in Basilicata, ma anche la situazione a Rauscedo, frazione del comune di San Giorgio della Richinvelda, in Friuli-Venezia Giulia. E poi Trapani, Vittoria, in provincia di Ragusa e Cassibile (Siracusa), la piana del Fùcino, in provincia dell’Aquila, in Abruzzo”. Oltre a paghe da miseria, sfruttamento e condizioni di lavoro inaudite, che accomunano i braccianti che vi arrivano in Italia da Paesi diversi, poi ogni area fa storia a sé.
Gioia Tauro, una bomba a orologeria
“Stiamo registrando un aumentare delle situazioni di disagio psichico, per esempio, a Gioia Tauro. Segno che lo smantellamento delle tendopoli non dà i risultati sperati, anche perché non ci sono alternative, a parte il Villaggio della solidarità” è la tesi di Bilongo. Qui, infatti, ad aprile è stato sgomberato il campo container di Rosarno, insediamento nato dopo la rivolta del 7 gennaio 2010, ma rimasto provvisorio per circa dieci anni, arrivando ad ospitare anche più di 300 persone. Novanta lavoratori stagionali sono stati trasferiti nel ‘Villaggio della solidarietà’, realizzato nell’area della Betom Medma, ex cementificio confiscato alla cosca Bellocco. I posti, però, non bastano. A maggio 2024, inoltre, il consiglio comunale ha bocciato la delibera per sbloccare la riqualificazione dell’area di San Ferdinando, dicendo no all’ecovillaggio per i lavoratori immigrati, una struttura per ospitare 350 persone, già finanziata dalla Regione Calabria con 10 milioni di euro di fondi comunitari. L’obiettivo era quello di chiudere proprio la tendopoli di San Ferdinando che, insieme al campo container di Rosarno e ai casolari abbandonati di Contrada Russo, a Taurianova, è stata oggetto di un recente report dell’organizzazione umanitaria Medici per i Diritti Umani (Medu). Nella Piana, secondo il dossier, oggi ci sono circa mille persone, in calo rispetto alle circa 2.500 degli anni precedenti al 2020, dovuto a una contrazione nell’offerta di lavoro derivante dalla crisi ormai pluriennale del settore agrumicolo. “Le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti – spiega Medu – restano ancora ben lontane dagli standard minimi di dignità. I nuovi insediamenti istituzionali, inaugurati con estremo ritardo, costi elevati e fondati dubbi sulla sostenibilità futura, queste soluzioni riguardano solo una minima parte dei braccianti”. Resta il dubbio su quali saranno le sorti di centinaia di braccianti che raggiungeranno la Piana all’inizio della prossima stagione.
Piana di Metaponto, il centrodestra non apre il centro di accoglienza
Domande che ci si pone anche nella piana di Metaponto, in Basilicata. Il centrodestra alla guida della Regione ha deciso di non riaprire il centro di accoglienza per i lavoratori stagionali. “La mancata riapertura a Palazzo San Gervasio del Centro di accoglienza rende di fatto meno controllabile il fenomeno del caporalato” denuncia Antonio Nisi, dirigente Cia Basilicata, riferendo che “per ora a Palazzo sono arrivati tra i 50 e i 60 extracomunitari, quasi tutti di origine africana, ma il problema sarà decisamente più grave nelle prossime settimane”.
Il caporalato nel ricco Friuli tra vigneti e allevamenti di polli
Bilongo ricorda che nell’ultimo rapporto Agromafie e caporalato, le due aree indicate per il Friuli sono state Rauscedo e San Giorgio della Richivelda, entrambe a Pordenone. “Qui c’è ormai un sistema radicato – sostiene il sindacalista – che coinvolge cooperative spurie (quelle che mascherano l’individualità del caporale con una personalità giuridica di natura collettiva, ndr), commercialisti e professionisti di varia natura, come mostrano le indagini aperte sul territorio”. Nel 2021, in particolare, è stata aperta un’inchiesta dopo che una cinquantina di immigrati provenienti dal Pakistan e dall’Afghanistan, hanno denunciato i propri sfruttatori. Alcuni di loro erano costretti a lavorare non solo per dodici ore al giorno nei vigneti, ma anche di notte, raccogliendo i polli negli allevamenti. Questi lavoratori, e si tratta di un caso senza precedenti, hanno ottenuto il permesso di soggiorno proprio per lo sfruttamento subìto dai caporali.
Portati nella Piana del Fucino con i voli charter perché “indispensabili”. E sfruttati
Anche la Piana del Fucino, in Abruzzo, non fa eccezione. Il Pil prodotto nel Fucino è pari a circa un terzo di quello della regione. Oggi, tra i lavoratori stagionali, la maggioranza è di origine magrebina ed il resto di origine macedone, pakistana, tunisina. Come denunciato di recete dal sindacato Flai Cgil dell’Aquila, dopo quanto emerso nelle assemblee con i braccianti agricoli “il caporale di turno stabilisce differenze di paga oraria fra lavoratori che pure svolgo la stessa mansione nei campi, l’uno al fianco dell’altro, facendo dei profitti sulla loro fatica”. Bilongo ricorda con amarezza i tempi in cui, in pieno lockdown, gli imprenditori agricoli del Fucino fecero arrivare a proprie spese, a bordo di voli charter, i braccianti marocchini nel frattempo rientrati in patria, perché ritenuti “indispensabili” nella raccolta di patate, finocchi, lattuga e spinaci. “Passata la pandemia – commenta – tutto è tornato come prima, con le paghe da fame pre-pandemiche”.
Per gli immigrati della Capitanata “quella è l’Italia”
Tra Foggia e Manfredonia, in Puglia, c’è una situazione che Bilongo definisce “ormai storica”. L’area è quella della Capitanata, “dove ci sono due maxi ghetti con circa 8mila persone”. Borgo Mezzanone è nato negli anni Novanta, poi dal 2018 si è allargato nel vicino Centro di accoglienza per richiedenti asilo, chiuso e abbandonato dopo il decreto Salvini. Le condizioni sono rimaste disperate e, così, negli ultimi anni sono diversi i braccianti che hanno perso la vita in un rogo o perché intossicati dal monossido di carbonio mentre cercavano di riscaldarsi con un braciere. “Quella, però – commenta il sindacalista – è una situazione che neppure esplode, perché è consolidata. Quei ragazzi credono che quei luoghi siano la normalità. Per loro quella è l’Italia”. Diverse le inchieste, le storie di migranti per 10 ore di lavoro nei campi 15 euro al giorno, meno i cinque da restituire per il trasporto.
In Sicilia, dagli stupri di Vittoria ai raccoglitori di olivi nell’ex cementificio
Diverse le aree siciliane nella ‘mappa del caporalato’. Dieci anni fa, a Vittoria (Ragusa) scoppiò il caso delle bracciante rumene costrette non solo allo sfruttamento nei campi, ma anche a quello sessuale. Casi di figli nati, ma anche di tanti, tantissimi aborti. “Dopo le inchieste e gli anni passati – racconta Bilongo – ci sono meno aborti, ma le donne rumene sono ancora costrette a partecipare ai festini, per accontentare i caporali e i loro amici”. A Cassabile (Siracusa) ogni anno da aprile a giugno, in occasione della raccolta delle patate, diverse centinaia di migranti, soprattutto di origine marocchina e sudanese, si aggiungono ai circa 5 mila residenti del Comune. Normalmente si apre una struttura “ma una parte corposa dei lavoratori che arrivano vivono in condizioni inaccettabili”. A Trapani, invece, è stata sgomberata a maggio scorso l’area dell’ex cementificio ‘Calcestruzzi Selinunte’, a Castelvetrano occupata dai migranti che ogni anno arrivano per la raccolta delle olive: “Centinaia di sub-sahariani che, anche in questo caso, vivono in condizioni disumane, nonostante concorrano a sostenere una filiera importante per tutto il territorio”. Condizioni di vita “indecenti” anche per il ghetto di contrada Ciappe Bianche, in territorio di Paternò, dove viveva il bracciante marocchino Mouna Mohamed, ucciso a febbraio 2024 da un connazionale, in una stazione di servizio. Qui vivono i migranti impiegati negli agrumeti della Piana di Catania, sfruttati per pochi euro al giorno.
Il caporalato fuori dai campi. I casi del Veneto
Nel report dell’Osservatorio Placido Rizzotto, si dà ampio spazio anche al Veneto e, in particolare alla provincia di Treviso. Non che manchino le storie di braccianti, anche minorenni, a cui era stata promessa una paga di 6 euro all’ora e un contratto regolare per lavorare nei vigneti, ma che hanno visto solo botte e minacce di morte, ma è anche un buon esempio per mostrare che il caporalato non si fa solo in agricoltura. D’altro canto, ad aprile scorso è stato chiesto il processo per nove cittadini cinesi che sfruttano operai nei laboratori tessili e del comparto calzaturiero di ditte con sedi tra i comuni di Altivole, Borso del Grappa e Asolo. Nello stesso mese, altre due operazioni sono state condotte in due laboratori finiti nel mirino della Finanza, anche per caporalato, a Istriana e in quattro aziende di Villorba. Forse, però, il caso più emblematico resta quello di Grafica Veneta, l’azienda finita nella bufera a luglio 2021, quando 11 persone sono state arrestate per caporalato nei confronti di altrettanti lavoratori pakistani, sfruttati, picchiati, e costretti a turni di 12 ore al giorno, senza alcuna indennità. Né dignità.
(da il Fatto Quotidiano)
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Giugno 29th, 2024 Riccardo Fucile
“È UNA VITA CHE BAZZICA IN TV: HA FREQUENTATO I PEGGIORI BAR DI CARACAS (RICORDO UNA SUA RIDICOLA TRASMISSIONE SUI MAGHI E L’OCCULTISMO, UN’ALTRA SULLE CANZONI DIALETTALI), HA CONDOTTO LA QUALUNQUE, SEMPRE ALL’INSEGNA DELLA DEMAGOGIA E DEL POPULISMO. NON MI CAPACITO COME A MEDIASET POSSANO LAVORARE TIPINI COME LUI”
Non ho potuto fare a meno di dare un’occhiata a un nuovo programma di Rete4: «4 di sera», condotto da Roberto Poletti e Francesca Barra.
Il motivo è semplice: ma come fa uno come Poletti a condurre così tanti programmi, uno così privo di personalità? Eppure, Poletti è una vita che bazzica in tv: ha frequentato i peggiori bar di Caracas (ricordo una sua ridicola trasmissione sui maghi e l’occultismo, un’altra sulle canzoni dialettali), ha condotto la qualunque per poi approdare in Rai e a Mediaset, sempre all’insegna della demagogia e del populismo.
Dopo aver fatto l’inviato di Paolo Del Debbio, Poletti ha compiuto un notevole salto con il libro «Io, Letizia. Il sindaco di Milano si racconta», una lunga intervista in ginocchio all’allora sindaco Letizia Moratti, che gli procurò una consulenza per la comunicazione con l’Atm, dopo essere stato consulente di Trenord grazie al leghista Davide Boni
Poi Poletti entra in Rai (è solo una pura coincidenza), dopo aver pubblicato la biografia di Matteo Salvini, «Salvini & Salvini. Il Matteo-pensiero dall’A alla Z» Poi è tornato a Mediaset e adesso conduce ben due programmi. L’altra sera, all’esordio serale, ha un po’ bistrattato la co-conduttrice Francesca Barra, giusto per segnare etologicamente chi comanda.
Ha dato molto spazio all’avv. Annamaria Bernardini de Pace che chiamava familiarmente il nostro primo ministro con il solo nome Giorgia (detta Giorgia).
Ecco, a Poletti manca la biografia di «Giorgia». Sto leggendo con vero interesse il libro di filosofia «Umano, poco umano», scritto da Mauro Crippa e Giuseppe Girgenti (Piemme). Sfogliando quelle pagine non mi capacito come a Mediaset possano lavorare tipini come Roberto Poletti.
Aldo Grasso
per il “Corriere della Sera”
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