Giugno 21st, 2024 Riccardo Fucile
LE POSSIBILI USCITE E LE CORRENTI PRONTE AD EMERGERE SE CALENDA FA UN PASSO INDIETRO
Carlo Calenda è in convalescenza a causa dell’operazione per un’ernia. Era stata posticipata da tempo, così da poter terminare la campagna elettorale. Presto, però, tornerà. E ciò che troverà in Azione sarà un ribollire di correnti interne che pretendono un cambiamento dopo l’esito delle Europee: nessun eurodeputato eletto, soglia di sbarramento nemmeno sfiorata.
In vista del congresso in autunno, se il leader dovesse fare un passo indietro, due formazioni si contendono la successione.
C’è un’ala popolare, legata al mondo cattolico, le cui file si nutrono di politici provenienti da altri partiti. E c’è la frangia che, invece, vorrebbe Azione collocata permanentemente nel campo del centrosinistra. Nel mezzo, ex ministri insofferenti, esponenti locali accusati di essere degli infiltrati di Italia Viva e una componente che spera nella ricostituzione del Terzo polo.
I tentativi di fuga
Tra i membri di Azione c’è chi, insoddisfatto della strategia che ha portato al 3,35% dei consensi, ha chiesto udienza a Calenda. E c’è chi, constatato l’esito del voto, si sarebbe rivolto ai segretari di altri partiti. Open ha saputo di un incontro che sarebbe avvenuto, dopo la fine dello scrutinio, tra Mariastella Gelmini e Antonio Tajani. Si sarebbe valutata l’ipotesi di un rientro in Forza Italia dell’ex ministra e della senatrice Giusy Versace. Fonti interne agli azzurri, inoltre, spiegano che si è aperta una discussione a riguardo, per valutare i pro e i contro dell’operazione. E non sarebbe l’unico ritorno oggetto di verifiche. Pure Mara Carfagna starebbe patendo la permanenza in Azione. Non da oggi: già qualche tempo fa avrebbe mandato il suo compagno, l’ex deputato Alessandro Ruben, in avanscoperta per sondare la situazione in Forza Italia. Al momento, tuttavia, gli azzurri avrebbero mostrato freddezza verso la ricomparsa degli ex forzisti.
Le fazioni interne
Lasciare Azione, per alcuni, non è la prospettiva. Conquistarne la leadership, invece, sì. E nelle ultime settimane si sono definite due aree. Matteo Richetti guida la prima: il capogruppo alla Camera vuole ricollocare il partito nell’alveo del centrosinistra. In modo stabile, senza cedere alle tentazioni che sono arrivate e potrebbero ripresentarsi nell’ambito di elezioni territoriali. C’è un’area moderata, nel campo delle opposizioni, che ha vinto le Europee. Sono gli amministratori locali, da Antonio Decaro al Sud a Giorgio Gori al Nord-Ovest. Il loro elettorato non combacia con quello della segretaria del Pd Elly Schlein. Ed è lì, afferma chi segue Richetti, che bisogna rivolgersi. Senza paura di schierarsi nettamente su temi come la liberalizzazione della Cannabis, la Palestina e i diritti civili. L’altra corrente che prende forma è animata da Ettore Rosato. Ma non è lui il frontman. Il volto è Elena Bonetti. Due renziani entrati in Azione meno di un anno fa e che, adesso, puntano alla segreteria del partito. Senza disdegnare eventuali accordi con il centrodestra. La loro è la politica dei due forni.
L’intreccio con il congresso di Italia Viva
Lo showdown tra le due correnti si verificherà quando e se Calenda deciderà di fare un passo indietro. L’imminente tornata regionale in Emilia-Romagna potrebbe indicare, sulla base delle alleanze, la direzione verso la quale propenderà il partito. Elezioni che si terranno in autunno, così come il congresso di Azione. Che si intreccia, non solo a livello temporale, con quello di Italia Viva. Due figure stanno emergendo per un riavvicinamento con i renziani. Il primo è Enrico Costa, testimonial del garantismo più puro, al punto da abbracciare spesso le posizioni del centrodestra, da cui proviene. Anche nel suo Piemonte, di cui è commissario, ha spinto per allearsi con la maggioranza, alle ultime Regionali. Costa è, poi, vicinissimo a Luigi Marattin, il quale si è candidato ufficialmente al congresso di Italia Viva. I due, anche dopo la scissione del Terzo polo, hanno continuato a girare il Paese presentandosi insieme a eventi e conferenze. Se Marattin vincesse il congresso dei renziani, la federazione potrebbe essere più vicina. Infine, sembra che pure una combattiva Giulia Pastorella sia pronta a contendere la leadership al congresso. E anche lei, come Costa, auspicherebbe un ricongiungimento tra Azione e Italia Viva.
(da agenzie)
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Giugno 21st, 2024 Riccardo Fucile
IL PREMIER RISHI SUNAK NON VERREBBE RIELETTO IN PARLAMENTO: E SAREBBE LA PRIMA VOLTA CHE SUCCEDE NELLA STORIA BRITANNICA… LA DISFATTA DEI TORY DOPO 14 ANNI DI GOVERNO È LA BOCCIATURA DI UN PARTITO CHE HA BRUCIATO LA PROPRIA IMMAGINE FRA GLI SCANDALI DI BORIS JOHNSON, IL DISASTRO FINANZIARIO DI LIZ TRUSS E LE GAFFE DI SUNAK
Sono sondaggi-choc quelli che campeggiavano ieri mattina sulle prime pagine dei giornali inglesi. Secondo una di queste rilevazioni, alle elezioni che si svolgeranno fra due settimane i laburisti conquisterebbero ben 516 seggi su un totale di 630 in palio (pari all’80% del parlamento), mentre i conservatori verrebbero ridotti a un moncherino di soli 53 seggi. Sarebbe la più grande sconfitta della Storia moderna per il partito del premier Rishi Sunak e la più grande maggioranza di governo da cento anni a questa parte.
Quel che è peggio, lo stesso primo ministro non verrebbe rieletto in Parlamento: e sarebbe la prima volta che succede nella Storia britannica.
Assieme a lui, verrebbero spazzati via da Westminster i tre quarti dell’attuale governo: un esito che, tra l’altro, restringerebbe di molto il campo dei candidati alla successione di Sunak, dal quale ci si attendono le dimissioni da leader (al momento la più quotata pare essere Kemi Badenoch, l’attuale ministra del Commercio di origine nigeriana).
Anche altri sondaggi sono concordi nell’assegnare ai laburisti una super-maggioranza, con previsioni che li collocano sempre oltre i 400 seggi: sono gli effetti perversi del sistema uninominale britannico, perché in termini di percentuali di voto i laburisti sono al 44 e i conservatori al 23.
Ma la tendenza è uniforme: man mano che ci si avvicina alla data del voto (il 4 luglio), la forbice fra i due partiti si sta allargando invece di restringersi e i conservatori sono ormai tallonati in termini di seggi dai liberal-democratici.
Forse però non è un caso che il sondaggio più catastrofista sia stato pubblicato con enorme risalto proprio dal Daily Telegraph , che è considerato l’organo ufficioso dei conservatori: i Tory ormai hanno abbandonato anche in pubblico la pretesa che potrebbero vincere le elezioni e puntano piuttosto a limitare i danni. Dunque la strategia adottata è quella di mettere in guardia l’elettorato dal consegnare un assegno in bianco ai laburisti.
La disfatta dei conservatori ha cause remote e cause prossime. C’è l’insoddisfazione degli elettori per 14 anni di governo che hanno visto un peggioramento degli standard di vita, ma anche la disillusione verso un partito che ha bruciato la propria immagine di competenza fra gli scandali di Boris Johnson e il disastro finanziario di Liz Truss. A tutto ciò si aggiungono le gaffe di Sunak
(da “Corriere della Sera” )
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Giugno 21st, 2024 Riccardo Fucile
LA TESTIMONIANZA DELLO PSICOTERAPEUTA ALESSANDRO DI BENEDETTO: “ANCHE QUI I LAVORATORI VENGONO SCARICATI AL PRONTO SOCCORSO E I DATORI DI LAVORO LI MINACCIANO, IMPEDENDO LORO DI DENUNCIARE”
Satnam Singh, lasciato morire dopo che un macchinario avvolgi plastica gli aveva amputato un braccio. Il lavoratore indiano è morto a Latina, dopo essere stato abbandonato insieme al suo arto, perché ormai inutile per raccogliere ortaggi e frutta per le nostre tavole. La moglie del 31enne aveva pregato il datore di lavoro, affinché li aiutasse: “Ho visto l’incidente, ho implorato il padrone di portarlo in ospedale ma lui doveva salvare la sua azienda agricola. Ha messo davanti a tutto la sua azienda agricola”. Una vicenda crudele, ma purtroppo non un caso isolato.
Lo sanno bene gli operatori di Emergency, che lavorano da anni in progetti di assistenza sanitaria e supporto psicologico in Sicilia e in Calabria, documentando storie di sfruttamento sul lavoro e precarietà abitativa. Storie di violenza, incuria e sopraffazione, che vengono riferite dagli stessi lavoratori migranti, presi in carico negli ambulatori e nelle cliniche mobili a Rosarno nella Piana di Gioia Tauro e nella “fascia trasformata” nel ragusano in Sicilia, una fascia di terra di 30 chilometri in cui le colture intensive in serra, da alcuni decenni, hanno sostituito le colture stagionali originarie.
Emergency è attiva in questi territori con Programma Italia – progetto con cui l’associazione dal 2006 lavora per garantire il diritto alle cure nel Paese – offrendo prestazioni socio-sanitarie gratuite ai cittadini stranieri e italiani che non possono accedere al Servizio Sanitario Nazionale.
Quello che è accaduto a Latina potrebbe avvenire anche in queste zone, dove non sempre esiste la figura del ‘caporale’, dell’intermediario, ma sono gli stessi datori di lavoro a reclutare i lavori stranieri nelle piazze. In caso di incidenti, ci hanno spiegato gli operatori di Emergency, anche nel Ragusano è accaduto che i lavoratori siano scaricati al Pronto Soccorso, e i datori di lavoro li minacciano, impedendo loro di denunciare.
Alessandro Di Benedetto è uno psicoterapeuta che lavora dal 2019 nel progetto Ragusa con Emergency, che è presente in zona con un ambulatorio mobile, che staziona a Santa Croce Camerina e Marina di Acate, e un ambulatorio fisso a Vittoria, dove c’è uno dei mercati ortofrutticoli più grandi d’Italia.
La notizia della morte atroce di Satnam Singh è arrivata anche lì: “In alcuni colloqui psicologici i migranti hanno parlato di questa vicenda. Ma nulla ormai li sconvolge. Loro si sentono schiavi, ci dicono che si sentono trattati come animali. A volte non si prendono cura della loro salute perché hanno paura di perdere il posto di lavoro. Se si ammalano vengono sostituiti subito. E quindi anche se hanno problemi respiratori o rimangono feriti a causa di incidenti mentre lavorano, non si fermano. Se un migrante cade dal tetto di una serra e sbatte la schiena non può denunciare, perché altrimenti rischia di perdere anche il luogo in cui alloggia”, ha raccontato a Fanpage.it Alessandro Di Benedetto.
Le condizioni dei braccianti nel Ragusano
In queste zone ci sono anche braccianti occupati con regolari contratti di lavoro, ma ci sono anche tante situazioni di illegalità, con migranti privi di documenti e permessi di soggiorno, che riescono a essere impiegati solo per pochi giorni, in prova, prima di sparire per paura dei controlli delle autorità. Per la maggior parte sono uomini, dai 20 ai 40 anni, ma ci sono anche donne. Migranti subsahariani, gambiani, marocchini, tunisini, che percepiscono una paga di 35-40 euro al giorno, sette giorni su sette, con turni di lavoro spesso notturni, da mezzanotte alle 9 del mattino, per evitare le alte temperature che di giorni si raggiungono in serra, anche oltre i 50 gradi. Si dorme per strada, in tuguri, negli androni dei palazzi, in mezzo alle serre, in casette destinate ai macchinari agricoli, senza finestre, ammassati in gruppi di 4 o 5 persone, che spesso fanno anche da ‘guardiani’ notturni alle serre. Negli alloggi non c’è acqua e non c’è luce.
“Queste condizioni di precarietà insieme all’assenza di una prospettiva futura, causano inevitabilmente sofferenza psicologica, patologie come ansia e depressione. Tra i pazienti con cui faccio colloqui ci sono braccianti che non tornano al loro Paese da 8-10 anni, e che quando sono partiti hanno lasciato figli di pochi mesi, mai più rivisti. Sono bloccati, non possono spostarsi o magari tornare ciclicamente a casa, perché non hanno il permesso di soggiorno. Ci sono anche lavoratori più anziani, di 50 anni, che non hanno mai fatto un ricongiungimento familiare, che continuano a sostenere economicamente le famiglie nei Paesi d’origine. Molti arrivano a gesti di autolesionismo, si provocano tagli. Gli irregolari non si rivolgono ai servizi sociali, perché hanno paura del foglio di via, hanno paura di essere espulsi. Per questo si nascondono continuamente, camminano a testa bassa. Rimangono lì in questo limbo, invisibili”, ha detto Di Benedetto a Fanpage.it.
“Con il nostro ambulatorio mobile riusciamo a raggiungere anche le zone più difficili. I migranti non hanno mezzi di trasporto, quelli pubblici sono quasi assenti, e queste persone sono spesso costrette a pagare i tassisti abusivi, che per un tragitto di 8 o 10 Km si fanno pagare anche 20 euro”.
Nel 2023 in Calabria sono state più di 2.100 le prestazioni socio-sanitarie effettuate da Emergency in Calabria e 643 le persone supportate. Nella Piana di Gioia Tauro l’Ong garantisce assistenza sanitaria gratuita, orientamento socio-sanitario e supporto psicologico ai lavoratori braccianti, ai cittadini italiani e stranieri in difficoltà che non riescono ad avere accesso alle cure. L’ambulatorio mobile si trova in piazza Valarioti a Rosarno e di fronte alla tendopoli di San Ferdinando. È inoltre presente un ambulatorio fisso a Polistena (Reggio Calabria). In Sicilia nel 2023 sono state oltre 3.000 le prestazioni socio-sanitarie effettuate e 982 le persone supportate da Emergency.
(da Fanpage)
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Giugno 21st, 2024 Riccardo Fucile
ANCHE IN UNGHERIA LA TELEVISIONE PUBBLICA È DIVENTATA UN ORGANO DI PROPAGANDA PER IL PREMIER, VIKTOR ORBAN, GRANDE AMICO DI GIORGIA MELONI (CHE PRENDE APPUNTI…)
La Radio e Televisione della Slovacchia (RTVS) sta per chiudere definitivamente e al suo posto arriverà una nuova istituzione pubblica meno critica e più conforme allïattuale politica slovacca, la Televisione e Radio Slovacca (STVR).
È quello che ha deciso il Parlamento del Paese guidato da Robert Fico. Con l’abolizione della RTVS, il direttore generale è costretto a lasciare il suo incarico. A favore dell’abolizione hanno votato ieri sera 78 deputati. L’opposizione, che in segno di protesta non ha partecipato al voto, ha affermato che il governo stia guidando il paese seguendo “un manuale degli autocrati”.
(da agenzie)
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Giugno 21st, 2024 Riccardo Fucile
“RIVENDICO DI AVER MILITATO NEL MOVIMENTO DI LOTTA PER LA CASA, MA NON DEVO UN BEL NULLA A NESSUNO”
Ilaria Salis risponde per la prima volta alle accuse sull’occupazione di una casa popolare a Milano. L’eurodeputata di Avs rivendica «con orgoglio» in un post sui social di essere stata «militante del movimento di lotta per la casa» e ribadisce di voler continuare a sostenere quella causa ora che è stata eletta al Parlamento europeo. Salis risponde a chi ha pubblicato la notizia del suo contenzioso con l’Aler, la società che gestisce le case popolari a Milano, tra cui Il Giornale: «Se qualcuno pensava di fare chissà quale scoop scavando nel mio passato, è solo perché è sideralmente lontano dalla realtà sociale di tale movimento, che si compone di decine di migliaia di abitanti delle case popolari e attivisti. I quali – continua Salis – per aver affermato il semplice principio di avere un tetto sulla testa, sono incappati in qualche denuncia». Secondo l’attivista, l’informazione dovrebbe dedicarsi ai temi della casa «piuttosto che gettare fango sul mio conto».
A proposito poi del credito che l’Aler vanterebbe nei suoi confronti, Salis dice di voler fare chiarezza sulla sua situazione: «Come è stato ampiamente sbandierato sui media di destra, Aler reclama un credito di 90.000 euro nei miei confronti come “indennità” per la presunta occupazione di una casa in via Giosuè Borsi a Milano, basandosi esclusivamente sul fatto che nel 2008 sono stata trovata al suo interno. Sebbene – prosegue – nei successivi sedici anni (!) non siano mai stati svolti ulteriori controlli per verificare la mia permanenza, né sia mai stato avviato alcun procedimento civile o penale a mio carico rispetto a quella casa, Aler contabilizza tale credito e non si fa scrupolo a renderlo pubblico tramite la stampa il giorno prima delle elezioni».
Salis quindi insiste sul fatto che «un gran numero di individui e famiglie, spesso prive dei mezzi necessari per reagire adeguatamente, sono tormentate da richieste infondate di questo genere. Il totale dei crediti contabilizzati da Aler ammonta infatti ad oltre 176 milioni di euro! La pratica di richiedere esose “indennità di occupazione” agli inquilini, basata su presupposti a dir poco incerti, è una strategia utilizzata sistematicamente per spaventare gli occupanti e tentare di fare cassa».
(da agenzie)
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Giugno 21st, 2024 Riccardo Fucile
LA MISURA È TEMPORANEA E SERVE A “PROTEGGERE E INCENTIVARE IL CONSUMO” DELL’OLIO, COME “PRODOTTO SALUTARE E PRODUZIONE RILEVANTE PER REGIONI COME L’ANDALUSIA”… E L’ITALIA DEI PATRIOTI AMICI DI COLDIRETTI CHE FA? IMPORTA TRE BOTTIGLIE SU QUATTRO DALL’ESTERO
Il Consiglio dei ministri approverà la prossima settimana l’eliminazione dell’Iva dall’olio d’oliva e di semi, che entrerà in vigore dal 1° luglio, secondo fonti governative anticipate dalla radio Cadena Ser e confermate da El Pais.
La misura, promossa dal ministero delle Finanze, si inquadra nell’accordo chiuso dal governo con il partito catalano Junts in cambio dell’appoggio ai decreti anticrisi.
L’Iva, secondo le fonti, sarà ribassata a 0 in maniera temporanea, ma è previsto che l’olio di oliva e di semi entri a far parte in maniera strutturale dei beni di consumo di prima necessità, come il pane, le uova o la frutta, con Iva super ridotta al 4% quando sarà revocata l’attuale riduzione a 0. Il premier Pedro Sanchez aveva già annunciato una proroga della diminuzione dell’Iva sui generi di prima necessità vigente fino al 30 giugno.
Secondo le fonti governative, la misura punta a proteggere e incentivare il consumo dell’olio d’oliva come prodotto salutare e come produzione molto rilevante per regioni come l’Andalusia. E il cui prezzo si è triplicato negli ultimi tre anni soprattutto a causa della siccità, registrando un aumento del 13% soltanto dall’inizio dell’anno.
IN ITALIA TRE BOTTIGLIE DI OLIO D’OLIVA SU QUATTRO SONO STRANIERE
Tre bottiglie su 4 di olio d’oliva consumate in Italia sono straniere. Le importazioni hanno segnato il record del secolo, per un valore di oltre 2,2 miliardi di euro nel 2022 con un incremento di quasi il 20% nei primi sei mesi del 2023. E con l’olio che scarseggia, il prezzo è schizzato in alto del 42%.
(da agenzie)
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Giugno 21st, 2024 Riccardo Fucile
NELL’APPELLO PRESENTATO AL RIESAME PER OTTENERE LA REVOCA DEI DOMICILIARI, IL GOVERNATORE DELLA LIGURIA CAMBIA STRATEGIA E FA SAPERE CHE “ESCLUDE DI CHIEDERE NUOVAMENTE A PRIVATI DEI FINANZIAMENTI”
Si gioca sulle sfumature e sui dettagli lessicali. Ma la nuova presa di posizione di Giovanni Toti di fronte alla magistratura che lo ha spedito agli arresti segna una svolta nella tangentopoli ligure. Perché il pensiero del presidente, finora improntato a una contrapposizione totale con chi lo accusa di corruzione e voto di scambio, adesso potrebbe riassumersi così: «Prometto di non farlo più».
Il ragionamento del governatore ai domiciliari nella sua villa di Ameglia dallo scorso 7 maggio, naturalmente, è molto più complesso e articolato. Lo è sia nell’istanza per tornare libero ormai respinta dalla giudice per le indagini preliminari Paola Faggioni, sia nell’appello appena presentato al tribunale del Riesame
Proprio nella prima richiesta di revoca dei domiciliari, scritta di suo pugno insieme all’avvocato Stefano Savi, Toti sottolinea un ipotetico futuro politico ancora a capo della Regione: «Anche laddove fossero individuabili o individuate eventuali occasioni per la richiesta di finanziamenti, ovvero situazioni di stallo o di conflitto da risolvere nell’ottica dell’interesse pubblico, è da escludere che Giovanni Toti possa nuovamente, con immutato approccio, interessarsi di tale vicende o, semplicemente, chiedere a privati dei finanziamenti».
È il cuore dell’inchiesta: i bonifici dell’imprenditore Aldo Spinelli subito dopo gli incontri sullo yacht per oltre 74mila euro e quei “promemoria” del presidente a scio’ Aldo in occasione dei loro discorsi sugli affari («ricordati che sto aspettando una mano») per l’accusa sono prova della corruzione.
Toti invece in cuor suo continua a considerare tutto legittimo, alla luce del sole. E infatti la premessa è sempre la stessa: il governatore «al momento dei fatti» era «fermamente convinto d’aver agito per il bene dell’interesse pubblico» e di essersi mosso «nel rispetto formale delle regole».
Però adesso «Giovanni Toti è perfettamente consapevole delle accuse a lui mosse e delle concrete condotte contestate: la sua volontà di non violare alcun divieto e di non tenere comportamenti anche solo astrattamente rilevanti dal punto di vista penale, lo farà certamente astenere dal proseguire con modalità che, la diversa lettura data nell’ambito di questo procedimento considera illecite o comunque non dovute».
Il primo, timido passo di Toti — «non è assolutamente una ammissione di colpevolezza», ribadisce Savi — arriva negli stessi giorni in cui la Procura ha espresso parere favorevole a una serie di incontri ai domiciliari con tre gruppi di politici, richiesti dal governatore alla giudice che oggi darà la sua risposta.
I primi due blocchi sono formati da personalità con incarichi locali: i membri della Lista Toti (il fedelissimo Giacomo Giampedrone, il presidente ad interim Alessandro Piana, l’assessore Marco Scajola) e i tre leader regionali dei partiti della sua coalizione (il viceministro alle Infrastrutture Edoardo Rixi per la Lega, il deputato Matteo Rosso per Fratelli d’Italia, Carlo Bagnasco per Forza Italia). [..
Più complicata la questione del terzo gruppo indicato dal presidente della Regione. Ridotto a Maurizio Lupi, leader di Noi Moderati, e Giuseppe Bicchielli, deputato di Italia al Centro. Con loro Savi ha indicato la possibilità di tenere l’incontro da remoto, in videoconferenza, proprio per ovviare al problema della distanza.
(da La Repubblica)
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Giugno 21st, 2024 Riccardo Fucile
SEGRETARI, PORTAVOCE, CONSIGLIERI: AUMENTANO I COLLABORATORI CHE “VIVONO DI POLITICA”
L’ultimo grido di dolore si è levato da Bari. Dove il procuratore capo Roberto Rossi ha chiesto al Consiglio superiore della Magistratura di intervenire per alleviare una carenza di organico che sfiora il 25 per cento. Avvilente. Lo stato di salute della giustizia italiana si misura anche sui 1.652 magistrati che mancano negli uffici giudiziari di tutta Italia, e purtroppo mancano da un bel pezzo. Dovrebbero essere 10.633, invece non arrivano a novemila.
Il bello è che ce ne sono più di 200 fuori ruolo, cioè impegnati in altre faccende. Secondo i numeri più recenti del ministero della Giustizia (aggiornati al febbraio 2023, sigh…), sono esattamente 220. Una ventina fuori ruolo per mandati elettivi, come per esempio il sottosegretario a Palazzo Chigi, Alfredo Mantovano, e il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. Altri 35 sono in servizio al Csm e alla Corte costituzionale, ma 162 sono destinati ad altre mansioni amministrative. Alcuni anche da anni. Michele Vinciguerra, per esempio, è entrato in forza al dipartimento Affari minorili del ministero il 15 maggio 2017. Uno dei tanti, perché la maggior parte dei magistrati fuori ruolo è nelle stanze del ministero della Giustizia oggi affidato a Carlo Nordio. Stando ai dati di cui sopra, sono 104 (centoquattro). Folla che presidia in massa anche i cosiddetti uffici di diretta collaborazione, termine burocratico con cui si definisce l’apparato dei pretoriani intorno al ministro e ai sottosegretari. Nell’ufficio legislativo di Nordio i magistrati fuori ruolo sarebbero addirittura 13. Più una decina nel Gabinetto guidato da Giusi Bartolozzi, ex parlamentare di Forza Italia, autrice nella scorsa legislatura di una proposta di legge per istituire un’alta corte di giustizia competente per i procedimenti disciplinari a carico dei magistrati.
Cifre che contribuiscono a spiegare la crescita apparentemente inarrestabile delle spese destinate allo staff ministeriale. Nel bilancio della Giustizia sono stanziati quest’anno per gli uffici di diretta collaborazione di Nordio 51,9 milioni di euro, dei quali 41 e mezzo per stipendiare il personale: Gabinetto, ufficio legislativo, segreterie personali e tecniche, consiglieri, portavoce, consulenti… L’aumento rispetto alle previsioni del 2023 è di ben 11 milioni e mezzo. Per avere un’idea delle proporzioni di questo budget, si consideri che gli uffici di diretta collaborazione del ministero più grande di tutti, quello dell’Economia, presidiato dal numero due leghista Giancarlo Giorgetti, costano qualcosa in meno di 30 milioni l’anno.
Va detto che spesso raccapezzarsi nel dedalo dei numeri non è semplicissimo per i meno esperti. Senza dire che talvolta il confronto omogeneo con le spese delle gestioni precedenti si rivela impossibile, alla faccia della tanto sbandierata trasparenza. In qualche caso, poi, i bilanci di previsione lasciano addirittura il tempo che trovano, tanto le cifre sono ballerine. Com’è possibile che le spese dell’apparato dell’attuale ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, s’impennino dai 52,1 milioni di quest’anno ai 73,5 del 2025 per poi precipitare a meno di 43 nel 2026? E che quelle del ministero delle Imprese e del Made in Italy di Adolfo Urso crollino dall’astronomica somma di 132,5 milioni previsti per il 2024 ad appena 25,3 milioni l’anno prossimo? Ma il fatto è che le spese per gli staff ministeriali, a giudicare almeno dai bilanci ufficiali più credibili, stanno andando in orbita un po’ dappertutto. E, a onor del vero, la situazione non era molto diversa nemmeno prima del governo di Giorgia Meloni.
Prendiamo il ministero dell’Interno. Il bilancio 2019 predisposto dal ministro Salvini, di cui era capo di Gabinetto Matteo Piantedosi, stanziava 27,8 milioni. Saliti a 30,7, poi a 34,1 e 36,6 con le gestioni di Luciana Lamorgese nel secondo governo di Giuseppe Conte e nell’esecutivo di Mario Draghi. Per scendere lievemente a 36,1 nel 2023, impennandosi però quest’anno alla spettacolare cifra di 79 milioni e mezzo. Dice il bilancio che gli uffici di diretta collaborazione del ministro-prefetto Piantedosi si pappano lo 0,26 per cento delle risorse del Viminale. Può sembrare un’inezia, ma è ben più del doppio rispetto allo 0,11 per cento del 2019.
Pur non volendo considerare il picco del 2024, la crescita risulta progressiva e inarrestabile. Come al ministero degli Esteri del leader forzista Antonio Tajani. Lì si prevede di spendere per gli uffici di diretta collaborazione nel 2024 circa 25 milioni e mezzo, contro i 22 del 2023, i 16 del 2022, i 18 del 2021 e i 13 del 2020.
Per non parlare del ministero di Giuseppe Valditara, ex aennino ora leghista. Lo stanziamento per l’apparato dell’Istruzione e del Merito è stato fissato per il 2023 (ultimo dato disponibile nel sito ufficiale) a 22,8 milioni. Quasi il doppio rispetto alla previsione del 2022, pari a 12 milioni e mezzo. Mentre nel 2021 la somma ipotizzata era ancora inferiore: 8,9 milioni, con un calo di tutto rispetto in confronto al 2020, quando però nel governo Conte-due il ministero dell’Istruzione era stato unificato con quello dell’Università e della Ricerca. Contrariamente a ora, che i ministeri sono due e ben distinti. Ragion per cui, ai 22,8 dell’Istruzione, nel 2023 andrebbero sommati i circa 9 milioni stanziati per l’Università e la Ricerca di Anna Maria Bernini. Per un totale di circa 32 milioni: una ventina in più rispetto al budget del 2020 per entrambe le funzioni. Mica uno scherzo.
Più collaboratori, più spese, si potrebbe concludere. Perché è vero che gli staff ministeriali sono sempre più affollati. La vecchia cara abitudine d’ingaggiare i trombati alle elezioni, per inciso, non è venuta meno neppure adesso. Anzi: il taglio dei parlamentari ha rappresentato un formidabile incentivo. Un paio di parlamentari non rielette sono finite nello staff del ministro dell’Istruzione e del Merito, con una retribuzione di 45 mila euro l’anno pro capite. Briciole, in confronto al volume del budget ministeriale. Ma è la somma che fa il totale
Un ex parlamentare ha trovato collocazione anche presso gli uffici del generoso ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Luciano Schifone, questo il suo nome, è il padre della deputata di Fratelli d’Italia, Marta Schifone, ed è fra gli elementi di spicco in una corte piuttosto nutrita, assieme alla direttrice d’orchestra Beatrice Venezi e al paroliere storico di Lucio Battisti, Giulio Rapetti. In arte, Mogol. Che non si risparmi sui collaboratori, al Collegio Romano, lo sta a dimostrare il numero degli addetti all’ufficio stampa: se ne contano 13.
Le dimensioni degli apparati, quelle sono di solito pressoché sconosciute. Raramente, sempre alla faccia della trasparenza, se ne possono conoscere ufficialmente i contorni precisi. A meno che non intervenga qualche altro soggetto a rivelarli. Da un documento della Camera dei deputati sull’ultima legge di bilancio, che ha concesso al responsabile dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, un paio di milioni in più per foraggiare gli staff ministeriali, si ricava che i suoi uffici di diretta collaborazione contano 83 persone.
Una legione in cui ha trovato posto anche il portavoce Paolo Signorelli, già condannato (e poi prescritto) per il pestaggio a un tifoso della squadra greca Olympiakos, nonché – secondo le rivelazioni di Repubblica – legato all’ultrà laziale Fabrizio Piscitelli detto Diabolik, assassinato qualche anno fa a Roma, con il quale scambiava via chat considerazioni dal tenore antisemita esultando per le imprese di terroristi neri e malavitosi. Incidentalmente nipote dell’omonimo ideologo della destra eversiva degli anni Settanta condannato per banda armata e scomparso nel 2010, il giovane Signorelli ha annunciato di avere deciso di dimettersi. Senza che chi di dovere abbia sentito il bisogno di rendere note le modalità per cui abbiano ritenuto idoneo un profilo come il suo per l’incarico di portavoce di un ministro della Repubblica.
Sergio Rizzo
(da lespresso.it)
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Giugno 21st, 2024 Riccardo Fucile
ASSE GIALLOROSA CON EMILIANO E GIANI
Un ricorso alla Cor da parte delle Regioni per fermare l’autonomia differenziata. È l’altra arma alla quale si sta lavorando contro il ddl Calderoli appena approvato dalla Camera, oltre al referendum. Il capofila dell’operazione sarà il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca. D’altra parte, è stato lui a convocare per primo una piazza contro il progetto della maggioranza. Ma stavolta è ben attento a non esagerare nell’intestarsi l’operazione: preferisce procedere in armonia con la segretaria, Elly Schlein, magari in vista della sua ricandidatura alle Regionali e per una maggior convergenza nell’operazione. L’idea è quella di un ricorso a più mani. Si aspetta la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ma gli uffici della regione Campania sono già al lavoro per impugnare la riforma. Michele Emiliano, presidente della Puglia, politicamente è d’accordo. Da giurista sta studiando la fattibilità tecnica, ma ci tiene a dire al Fatto: “Ove fosse possibile, noi ci siamo”. Meno scontato il sì delle regioni non meridionali a guida centrosinistra. Ma sarà della partita Eugenio Giani (Toscana), che ieri al Corriere della Sera, ha detto: “Zero dialogo e testo sbagliato”. Più delicata la posizione di Stefano Bonaccini. Nel 2018 l’Emilia-Romagna, con Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi, approvò una pre-intesa per iniziare il percorso dell’autonomia differenziata. Poi, sotto il governo Conte (quando la sua vicepresidente era la stessa Schlein) aveva chiesto l’autonomia per 15 materie, tra cui addirittura la scuola. Al momento, ci sono una serie di pre-intese firmate, ma non è chiaro se la regione procederà su questo binario. Bonaccini, appena eletto europarlamentare, si è espresso più volte contro il ddl Calderoli. È “una colossale presa in giro della proposta che noi avevamo avanzato in Emilia-Romagna, e che era molto diversa da Veneto e Lombardia – ha detto ieri – la proposta che noi avanzammo con una pre-intesa nel lontano 2018 era stata condivisa e definita insieme a tutte le parti sociali della regione e non ebbe un solo voto contrario in consiglio regionale da parte di nessun partito. Puntava a gestire poche delle 23 materie previste, mentre questo governo vuole farle prevedere tutte. Facciamo ridere il mondo”. Non stupisce che molti, Davide Bergamini della Lega in primis, lo taccino di incoerenza. Entro un paio di settimane si dimetterà per trasferirsi a Strasburgo: cosa che lo esimerà dal firmare il ricorso. Anche se a oggi sarebbe favorevole. E poi, c’è la questione Roberto Occhiuto, presidente della Calabria, molto critico nei confronti della riforma. De Luca vorrebbe coinvolgere anche lui, che però dice al Fatto che non firmerà. Da vedere se sarà irremovibile.
Nel frattempo è partita anche la macchina del referendum. Anche qui, servono 5 regioni promotrici. E poi 500 mila firme. Il referendum abrogativo è, però, di per sé un’operazione rischiosa, visto che raggiungere il quorum è molto difficile (serve la metà degli aventi diritto più uno). A coordinare le operazioni di una battaglia che la segretaria dem intende condurre in prima persona dovrebbero essere Marco Sarracino (responsabile Mezzogiorno) e Alessandro Alfieri (Riforme). Il primo ha iniziato da più di un anno una mobilitazione continua contro il progetto del centrodestra. Il secondo non solo ha la delega in segreteria ma, essendo del Nord e della minoranza, potrebbe essere il tassello che tiene unito tutto il partito sul tema. Perché poi è evidente che ci sono sensibilità diverse tra settentrionali e meridionali.
Per la raccolta delle firme si è mobilitata tutta l’opposizione. È stato Matteo Renzi a chiarire la tempistica: “Con 500 mila firme entro il 30 settembre, nel 2025 si va a votare”.
E un altro atto arriva dai Cinque Stelle. Ieri i capigruppo di Camera e Senato, Francesco Silvestri e Stefano Patuanelli, hanno mandato un appello a Sergio Mattarella per chiedere di rimandare il testo alle Camere in nome dell’articolo 74 della Costituzione che tutela la coerenza del sistema costituzionale e democratico potenzialmente compromessa dal disegno di legge in questione: “La preghiamo di voler valutare l’opportunità di esercitare la Sua prerogativa costituzionale, proprio per salvaguardare il complessivo assetto democratico, nell’ambito della coerenza e della conformità normativa del disegno di legge sull’Autonomia con i principi fondamentali della nostra Carta costituzionale”, si legge nel testo.
(da agenzie)
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