Ottobre 25th, 2024 Riccardo Fucile
QUELL’ARTICOLO PUBBLICATO SUL TEMPO, GIORNALE DI DESTRA, DI PROPRIETÀ DELLA FAMIGLIA ANGELUCCI
“Il mio caso è identico a quello della Boccia. Mi era stato detto di occuparmi della mostra sul futurismo ma dopo un anno e mezzo mi hanno comunicato che dovevo fare un passo indietro perché erano arrivate voci irriguardose al ministero nei miei riguardi e che non avevo avuto alcun incarico formale”.
Lo dice a Report il critico d’arte Alberto Dambruoso in una clip che anticipa un servizio della trasmissione condotta Sigfrido Ranucci che andrà in onda domenica su Rai3. “La mia situazione non è molto dissimile da quella che poi è successa alla signorina Boccia”, premette il critico che alla domanda ironica (“Anche lei aveva una relazione con Sangiuliano?”) del giornalista Giorgio Mottola precisa: “Beh, no. Io no, ecco. A scanso di equivoci nessun tipo di relazione con il ministro. Però certamente ho ricevuto anche io un incarico che di fatto non è stato poi, come dire, formalizzato. Nel senso che io non ho avuto il contratto”.
Alberto Dambruoso – ricorda poi la voce fuori campo di Mottola – “insegna storia dell’arte all’Accademia delle belle arti di Frosinone. Sangiuliano gli affida la co-curatela della mostra sul futurismo, anche se fino a quel momento non ha mai avuto rapporti con lui. Tutto nasce da un articolo pubblicato sul Tempo, giornale di destra, di proprietà della famiglia Angelucci.
La scintilla è questa recensione che il giornalista e critico d’arte Gabriele Simongini scrive sull’ultimo libro di Dambruoso che ha come tema il futurista Umberto Boccioni”. Di qui la domanda del giornalista: “Lei chiede una recensione sul Tempo anche per questo, perché sa che è giornale di area? “Ma certamente che ci sia anche una questione legata a un giornale di orientamento di destra… Questo sicuramente avrebbe potuto probabilmente facilitare un contatto tra Simongini e il ministro, cosa che effettivamente è avvenuta” risponde Dambruoso. Poi Mottola riprende la sua ricostruzione: costi e scelte artistiche non vanno giù a Sangiuliano.
Il ministro nomina quindi un comitato organizzatore: ne fanno parte il direttore dei musei Massimo Osanna, la direttrice della galleria nazionale Cristina Mazzantini e il presidente del Maxxi Alessandro Giuli. Il comitato organizzatore di fatto commissaria curatore e co-curatore. “Viene praticato un taglio drastico di oltre 300 opere, quindi si passa – risponde Dambruoso – da 650 opere a 350 opere” e la decisione sulle opere da tagliare “viene presa sostanzialmente appunto dal comitato organizzatore”. Poi Mottola commenta: “Doveva essere il più grande evento culturale del governo Meloni, si è rivelata finora un pasticciaccio infarcito di gaffe, conflitti di interesse e piccoli scandali”.
(da agenzie)
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Ottobre 25th, 2024 Riccardo Fucile
RINTRONATA DALLA FULMINEA PRESA DEL POTERE, PRIVA DI CLASSE DIRIGENTE, ZAVORRATA DALLO ZOCCOLO FASCIO E DIFFIDENTE DI TUTTI DEL PARTITO (MOTTO: “MEGLIO PERDERE CHE PERDERSI”), LA STATISTA DI COLLE OPPIO HA RIGETTATO LA REAL POLITIK DEMOCRISTIANA PREFERENDO BLINDARSI NELL’USATO SICURO DELLA FAMIGLIA E DELLA RETE DI FEDELISSIMI
Bisogna prendere un bel respiro per entrare in questo ennesimo racconto familiare dentro il
partito monolite di Giorgia Meloni. Bisogna intrecciare i nomi e tenerli a mente per ricostruire una vicenda che ha assunto i contorni di una faida.
La famiglia è la matrice della gestione del potere della premier, della scelta della sua classe dirigente e della rete di fedelissimi. Il ministero della Cultura è un osservatorio perfetto di questa mescolanza di sangue e cosa pubblica, di appartenenza e finanziamenti, di cognomi che si ripetono e consulenze che si sommano.
Partiamo da uno di questi cognomi: Merlino. Emanuele Merlino è il figlio di Mario, militante Avanguardia Nazionale, coinvolto e indagato – poi assolto – nell’inchiesta su Piazza Fontana. Emanuele – che nella sua biografia risulta essere attore, sceneggiatore e scrittore – è stato il coordinatore del dipartimento Cultura di Fratelli d’Italia nel Lazio, poi promosso a capo della segreteria tecnica di Gennaro Sangiuliano. È l’uomo di collegamento tra il Mic e Palazzo Chigi.
Quando Giovanbattista Fazzolari, il risolvi-grane che Meloni ha voluto in una stanza accanto alla sua, deve chiamare per capire cosa sta succedendo al ministero è il numero di Merlino che digita.
Ad Alessandro Giuli è bastato varcare la porta del suo nuovo ufficio, appena preso il posto di Sangiuliano, per capirlo. Per capire che non avrebbe avuto vita facile, che sarebbe stato controllato, indebolito, commissariato. È questo il senso di quel «lasciatemi lavorare» pronunciato l’altro ieri di fronte al sottosegretario Alfredo Mantovano.
A Palazzo Chigi, Giuli non incontra né Fazzolari, né Meloni. Ma parla con il referente dei Pro-Vita, i crociati anti-gay che hanno infiammato il partito contro Giuli dopo la scelta di Francesco Spano come capo di gabinetto.
Merlino riferisce ogni cosa a Fazzolari, come faceva durante il feuilleton estivo tra Sangiuliano e la sua amante, Maria Rosaria Boccia. Ma fa anche altro. Gestisce da ministro-ombra le stanze del MiC, cerca di imporre nomi e si fa artefice di un repulisti che Giuli, in gran parte, subisce
Sono due fonti che raccontano alla Stampa quanto segue. Una è del ministero, un’altra è del partito. Giuli non sceglie Spano a caso. Ha lavorato con lui al Maxxi, si è trovato bene e, nonostante le radici politiche opposte, si fida.
Ma sa perfettamente che cosa provocherà la sua nomina, e come torcerà le budella di Fazzolari e di gran parte di FdI che, a partire da Meloni, lo aveva combattuto quando sotto il governo Renzi fu costretto a dimettersi da presidente dell’Ufficio nazionale contro le discriminazioni. Giuli porta con sé due persone dal Maxxi.
Uno è Spano, l’altra è Chiara Sbocchia, dal primo ottobre capo della segreteria al posto di Narda Frisoni, che rimarrà fino a dicembre come consigliere per le pubbliche relazioni.
Così Giuli aveva costruito il suo fortino, mentre la paranoia da spie che attanaglia Palazzo Chigi dopo il pasticcio di Sangiuliano travolgeva funzionari e dirigenti. Vengono fatti fuori, trasferiti o ridimensionati Antonio Di Maio (ex segretario particolare), Gianluca Lopes (del cerimoniale), Renato Narciso, Dario Sigfrido Renzullo, Maria Veronica Izzo, Carla Costante.
La purga ministeriale è affidata a Merlino e a Stefano Lanna, un dirigente del gabinetto che Sangiuliano stimava molto, al punto da volerlo promuovere direttore generale degli Archivi italiani, un tentativo che frana di fronte al no della Corte dei Conti. Giuli vede che Merlino e Lanna si muovono in asse, con un’autonomia lasciata in eredità dal predecessore.
I sospetti diventano quotidiani. Le ragioni dei dissidi vanno ricercati nelle nuove nomine. A dicembre scade il mandato di Andrea Petrella, portavoce di Sangiuliano. Per sostituirlo, Giuli si orienta su Fabio Tatafiore, direttore della comunicazione di Utopia, società con cui ha lavorato al Maxxi.
Merlino, invece, insiste su un’altra formula: vorrebbe far salire di grado all’ufficio stampa Salvatore Falco, giornalista già in forza allo staff, e affidare la comunicazione a Michele Bertocchi, il social media manager autore dello scivolone su Napoli «fondata due secoli e mezzo fa» pubblicato sul profilo di Sangiuliano. Come testimoniano le chat che abbiamo potuto vedere, Bertocchi ha continuato a lavorare sui social, nonostante il ministro ne avesse annunciato le dimissioni.
Sta di fatto che a Giuli non va giù di non avere il controllo sul proprio ministero. Chi sopravvive al reset è automaticamente considerato manovrato da Palazzo Chigi. E così Giuli cerca di limitare Merlino e Lanna, per inviare un messaggio a Fazzolari.
Lanna è il fratello di Luciano, giornalista in varie testate di destra, ex Secolo d’Italia, nominato da Sangiuliano direttore del Centro per il libro il 21 dicembre del 2023. Ma la rete familiare del clan Meloni è molto più estesa.
Al MiC c’è anche Claudia Ianniello, anche lei intoccabile per volontà di Meloni: è la sorella di Giovanna, portavoce storica della presidente del Consiglio, ed è pure la moglie di Paolo Quadrozzi, altro storico collaboratore dell’ufficio stampa, finito alle dipendenze di Mantovano a Palazzo Chigi.
Tutti si conoscono da tempo, tutti in qualche modo incrociano le loro biografie di militanti della destra romana, cresciuti assieme fino alla conquista del governo. La parentopoli è ampia e trasversale, perché lo stesso Giuli ha una sorella, Antonella, che con la famiglia Meloni lavora da tempo.
Prima come portavoce di Francesco Lollobrigida, ormai ex cognato della premier, poi come assistente di Arianna, sorella di Meloni ed ex moglie di Lollobrigida, mansione di partito che Giuli (sorella) svolge mentre è inquadrata come dipendente dell’ufficio stampa istituzionale della Camera dei Deputati.
Due giorni fa è stata beccata dai cronisti in Transatlantico a urlare contro Federico Mollicone, deputato di FdI, presidente della commissione Cultura, un altro che non ama Giuli (fratello). La faida è una degenerazione del familismo. E qui nessuno ne sembra immune.
(da La Repubblica)
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Ottobre 25th, 2024 Riccardo Fucile
PRIMA PENSATA DA ALESSANDRO GIULI QUANDO ERA PRESIDENTE DEL MAXXI, E POI SFILATAGLI DA SANGIULIANO … COMMISSARIATI I CURATORI, NEL COMITATO SCIENTIFICO VENGONO INSERITO NIENTEMENO CHE IL CAMERATA “OSHO” (CHE C’AZZECCA CON IL FUTURISMO?). E CI SAREBBERO STATE PRESSIONI PER ESPORRE LE OPERE DI FABRIZIO RUSSO, GRANDE AMICO DEL PRESIDENTE DI FDI DELLA COMMISSIONE CULTURA, FEDERICO MOLLICONE
È una storia che dice molto sulla gestione della cultura ai tempi della destra. Parla dell’amichettismo meloniano e del solito maldestro tentativo di imporre un’egemonia che affonda le radici nel nostalgismo per il Ventennio.
A raccontarla è Report, che svela come la politica abbia messo le mani persino sull’organizzazione della mostra sul Futurismo, in programma a dicembre a Roma, alla Galleria d’arte moderna. Commissariata per ragioni ideologiche e, anche, per favorire un gallerista di provata fede meloniana.
La vicenda è complessa, ma la trasmissione d’inchiesta in onda domenica su Rai3 ne ripercorre passo passo ogni tappa. Partendo dall’inizio. Quando cioè Gennaro Sangiuliano, appena nominato ministro, annuncia di voler organizzare una grande esposizione sul movimento artistico fondato da Marinetti. In quel periodo il prestigioso Kroller museum in Olanda stava per inaugurarne una fra le più importanti e innovative degli ultimi vent’anni.
Curata tra l’altro da un italiano, Fabio Benzi, fra i massimi esperti di Futurismo. Alessandro Giuli, allora presidente del Maxxi, propone al professore di portarla nel “suo” museo.
Quello si mette al lavoro, finché però Giuli non va a parlare con Sangiuliano, che «mette un veto totale», rivela Benzi. «Va fatta da noi», gli dice. Da quelli «della sua parte politica, immagino», insiste lo storico dell’arte.
Il progetto resta, ma cambia. Come curatori vengono incaricati Alberto Dambruoso, autore di un libro su Boccioni, e il giornalista del Il Tempo Gabriele Simongini. Il ministro però si fida fino a un certo punto. E di fatto li commissaria. Inserisce nel comitato scientifico nuovi membri chiaramente orientati a destra come il vignettista Osho e crea un comitato organizzatore — di cui fa parte pure Giuli — che prende tutte le decisioni
Nel frattempo, mentre vengono tagliate circa 300 opere sulle 650 previste, cominciano le pressioni per esporre i quadri di un gallerista romano, Fabrizio Russo, amico di FdI (Report lo mostra mentre fa il saluto romano) e in particolare del presidente della commissione Cultura Federico Mollicone.
Anche se quelle tele, che una volta esposte aumenteranno di valore, non sarebbero adatte perché risalenti agli anni ‘50 anziché ai ‘20 del ‘900. Ma Simongini in chat avverte tutti: «Chi non si adegua rischia, perché loro sono lo Stato ». Il licenziamento, è il sottotesto
Come poi accadrà. Il curatore Dambruoso viene convocato al Collegio romano: lì il capo-segreteria di Sangiuliano, Emanuele Merlino, dirigente di FdI e figlio di Mario Merlino, esponente dell’organizzazione neofascista Avanguardia nazionale, gli comunica lo stop alla collaborazione.
«La mia situazione non è molto dissimile da quella di Maria Rosaria Boccia», commenta lui con Report: «Anch’io ho ricevuto un incarico che non è stato poi formalizzato ». Più di un anno di lavoro, durante il quale per conto del ministero ha avuto rapporti con musei e collezionisti di mezzo mondo, buttato al vento. E neppure retribuito. Per ragioni di ortodossia, «come neanche Mussolini ha mai fatto». Ma soprattutto per favorire gli amici.
(da agenzie)
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Ottobre 25th, 2024 Riccardo Fucile
LO STATO DEI CPR IN ITALIA TRA COSTI ALTI E MALA GESTIONE
Un nuovo report pubblicato da Action Aid e realizzato in collaborazione con l’università di Bari
Aldo Moro fa il punto sul sistema detentivo per stranieri scelto dal governo italiano, riportando che il tasso di efficacia della politica dei centri per i rimpatri per il momento è irrisoria.
Basti pensare che nel 2023 solo il dieci per cento delle persone colpite da un provvedimento per espulsione provenivano da un cpr, su 28.347 persone che potevano rimpatriare solo 2.987 provenivano dai cpr italiani.
Secondo Fabrizio Coresi, esperto di migrazioni per ActionAid: «Una politica che ottiene il 10 per cento dei risultati attesi è inammissibile, a meno che non si riconosca che l’obiettivo non è quello esplicito del rimpatrio, ma è quello di assimilare le persone migranti ai criminali, erodendo le basi del diritto d’asilo e del sistema di accoglienza».
Chi abita i cpr
La popolazione dei cpr è quasi esclusivamente maschile, esistono solo due strutture destinate alle donne una a Torino e l’altra a Roma. Tale dato si riflette nel fatto che le donne sono una componente minoritaria della popolazione trattenuta in Italia. Nel periodo 2014-2023 i tunisini hanno rappresentato il 43,7 per cento delle oltre 50 mila persone in ingresso in un centro di detenzione. A loro seguono cittadini di nazionalità nigeriana e marocchina e poi albanesi. Nessun’altra nazionalità raggiunge la soglia del 5 per cento.
Chi li gestisce
A occuparsi della gestione dei centri per rimpatri sono principalmente associazioni non profit, al momento infatti solo il cpr di Roma e quello di Brindisi sono affidati a due società for profit. Come spiega l’esperto di migrazioni di ActionAid Italia Fabrizio Coresi «ci sono gestori di cpr esclusi dalle gare delle prefetture, il più delle volte a causa di illeciti e reati contro la Pubblica Amministrazione, ma che partecipano a nuove gare e continuano a gestire cpr in altre regioni» e alla fine i gestori sono sempre gli stessi.
E le condizioni di chi viene trattenuto in un cpr sono pessime: cibo scadente o scaduto, si dorme su materassi stesi direttamente sul pavimento, mancanza di servizi sanitari e di igiene. Condizioni che hanno anche un impatto psicologico sui migranti. Il 5 febbraio del 2024 un giovane 19enne, Ousmane Sylla, si è suicidato nel cpr di Ponte Galeria. In cinque anni si contano almeno 15 morti all’interno delle strutture, l’ultima è quella avvenuta a Palazzo San Gervasio a Potenza dello scorso 6 agosto.
Costi esorbitanti
Per Giuseppe Campesi esperto di detenzione amministrativa e rimpatri dell’università di Bari «dal 2017 si rimpatria di meno, a costi più alti e in maniera sempre più coercitiva. Inoltre il ricorso ai cpr ha già dimostrato di essere fallimentare, tuttavia, si continuano a presentare i centri di detenzione come una soluzione per aumentare il numero dei rimpatri. I dati raccolti, invece, dicono l’esatto contrario».
Il cpr di Torino, chiuso dal marzo 2023, ha un costo esorbitante pari a oltre tre milioni di euro per l’affitto della struttura, ristrutturazioni straordinarie e saldo per l’ultimo ente che lo gestiva. Mentre quello romano a Ponte Galeria tra il 20222 e il 2023 è costato circa 6 milioni. A Milano una gestione commissariata a seguito di indagini della procura in cui erano emersi frodi in pubbliche forniture, turbativa d’asta e condizioni infernali per i trattenuti. A Gorizia la prefettura sostiene di non essere in possesso di dati contabili. Il cpr di Brindisi, con una capienza effettiva di 14 posti, vede il costo medio di un posto superare i 71mila e 500 euro all’anno.
Ciò nonostante il governo italiano l’anno scorso ha predisposto la nascita di quattro nuovi cpr in Sicilia per potenziare i territori di frontiera. Ne sono stati allestiti prima uno a Ragusa e poi uno a Porto Empedocle. Altri due sono stati aperti alla fine del 2023 ad Augusta e Trapani: per una cifra complessiva pari a 16 milioni di euro.
Nonostante tutte queste criticità e inefficienza il governo italiano ha finanziato la costruzione di centri per migranti in Albania. Il risultato è di decine di milioni di euro spesi con i primi 12 migranti arrivati nel cpr di Gjader che sono tornati in Italia dopo la decisione dei giudici del tribunale di Roma che non hanno convalidato il trattenimento in Albania.
(da Domani)
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Ottobre 25th, 2024 Riccardo Fucile
ROBERTO SAVIANO: “L’ETÀ MEDIA DEGLI APPARTENENTI ALLE ORGANIZZAZIONI CRIMINALI È BASSISSIMA, DELEGANO AI GIOVANI IL CONTROLLO DELLE STRADE, DANNO LORO COMPITI OPERATIVI. PERCHÉ? SONO PIÙ AFFAMATI E HANNO LA NECESSITÀ DI SCALARE VELOCEMENTE LE GERARCHIE DEL POTERE”
«A Napoli sta succedendo quello che è sempre accaduto. L’età media degli appartenenti alle organizzazioni criminali è bassa, è bassissima», dice Roberto Saviano.
Un quindicenne ucciso a colpi di pistola nel centralissimo corso Re Umberto, altri due minorenni feriti in una folle notte di fuoco e morte. Eppure lo scrittore, «purtroppo», non è stupito. «Va avanti così da molti anni, lo avevo raccontato nella Paranza dei bambini» spiega.
Saviano, perché si muore, e si uccide, a 15 anni?
«Per diverse ragioni. Le organizzazioni criminali storiche delegano ai giovani il controllo delle strade. Non sono dipendenti, “moschilli,” come negli Anni Ottanta e Novanta, quando le mafie strutturavano i minori nei propri clan. Qui si tratta di persone con delle responsabilità operative. Le ultime inchieste che riguardano, per esempio, l’omicidio di Gennaro Ramondino, ucciso dal suo amico sedicenne, mostrano che la selezione di killer è sempre fatta sui più giovani».
Per quale motivo?
«Sia per gli sconti di pena, sia perché sono più affamati e hanno la necessità di scalare velocemente le gerarchie del potere. Visto che si muore presto e si va in galera molto presto, bisogna iniziare subito a guadagnare. Intorno ai 14 e 15 anni inizi la scalata ai vertici, che puoi raggiungere intorno ai 20 anni. A 25 sei già vecchio».
Cosa è cambiato dai tempi di Gelsomina Verde che ha raccontato in Gomorra?
«La camorra di oggi è cambiata, a partire dalla gestione. La stessa Napoli ha avuto un cambio di passo mediatico proprio grazie al suo racconto, ma essere stata invasa da tavolini con spritz e friggitorie non significa aver creato ricchezza, salvo che per qualche albergatore e qualche pizzettaro. La camorra ha investito tutte le sue risorse nel turismo: ha abbassato il proprio impatto militare, perché i b&b e i negozi sono strumenti dei loro guadagni, ma le organizzazioni continuano a essere potenti».
Ha abbassato l’impatto militare, ma i killer sono ragazzini…
«Dobbiamo ricordare che le mafie sono l’unica organizzazione d’Italia a credere nei giovani, che investono sui giovani. Lo dico con tono paradossale, ma per niente sarcastico. Tra l’altro, non è proprio vero che le mafie stanno sparando meno; anche se c’è questa percezione sui media e sui social, tutta l’attenzione è sul “True Crime”, puro intrattenimento, più facile da raccontare. La criminalità indaga il potere, la politica, la società, questioni più complesse. Ma di camorra c’è un morto a settimana, anzi, sul piano statistico, un morto e mezzo».
(da La Stampa)
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Ottobre 25th, 2024 Riccardo Fucile
LO SPETTRO DELL’UCRAINA E QUELLO DELLA BIELORUSSIA
Georgia al voto dopo mesi di disordini civili, una campagna elettorale segnata da violente
intimidazioni ai danni delle opposizioni, accuse di ingerenze incrociate mosse a Mosca, Washington e Bruxelles, con la consapevolezza che la chiusura dei seggi e la proclamazione dei risultati, chiunque ne esca vittorioso, innescheranno una crisi dall’esito imprevedibile.
Un’elezione che sa di resa dei conti: nessuno pare pronto ad accettare una sconfitta. Le implicazioni geopolitiche sono di notevole rilievo e avranno ripercussioni fondamentali sull’intera, strategica regione del Caucaso meridionale.
In ballo c’è la fragile democrazia di uno Stato saldamente nell’orbita occidentale da più di vent’anni e, con ottime probabilità, il suo posizionamento internazionale.
Tutti gli schieramenti dicono di voler portare la Georgia in Europa. Non potrebbe essere altrimenti, in un Paese dove la volontà di adesione è espressa da percentuali bulgare.
Ma il diavolo sta nei dettagli: il partito al governo afferma di volerlo fare “con dignità” e “da stato sovrano”. Retorica andata di pari passo con l’adozione di leggi illiberali che hanno portato al congelamento del percorso comunitario del Paese e allo scontro frontale con gli Stati Uniti. E il flirt a distanza tra le autorità di Tbilisi e il Cremlino – nell’assenza di rapporti diplomatici a seguito del conflitto del 2008 e il riconoscimento, da parte della Russia, dell’indipendenza di due regioni separatiste georgiane – va verosimilmente letto come il gioco con il fuoco di un oligarca che a causa di scelte tattiche sbagliate e di un contesto globale in subbuglio teme di perdere il potere.
L’oligarca Bidzina Ivanishvili
Gli interessi di Bidzina Ivanishvili, il miliardario fondatore di Sogno georgiano, alla guida del Paese dal 2012, “non coincidono più con quelli nazionali”, afferma Kornely Kakachia del Georgian Institute of Policy, analista di indubbia imparzialità che riferisce di uno Stato preso in ostaggio.
Ivanishvili arriva al governo con un’ampia coalizione di forze democratiche e filoccidentali con cui mette fine al regno di Mikheil Saakashvili, il controverso eroe della rivoluzione delle rose, atlantista di ferro e riformatore neoliberista che sconta alle urne la marcata postura dispotica e l’incauta disinvoltura in campo militare.
Dopo un anno da primo ministro lascia l’incarico, preferendo controllare il suo partito dalle retrovie. Nel tempo, Sogno georgiano perde tutti i pezzi fino all’attuale conformazione monocolore, sposando progressivamente le posizioni tipiche del conservatorismo nazionale, impregnate di teorie della cospirazione.
Un’evoluzione che riflette l’allargamento della forbice tra due diversi interessi: quello di un Paese impegnato in un percorso di democratizzazione nel contesto di una futura adesione all’Ue, che necessita passi via via più decisi, e quello di un oligarca che vede le riforme chieste da Bruxelles come una minaccia alla sua presa sullo Stato. Sono molteplici i segnali che indicano come Ivanishvili non vorrebbe una rottura con l’Occidente, cercando piuttosto una relazione transazionale.
Ma la Georgia non è l’Azerbaijan, non ha molto da offrire al di là della sua democrazia e del suo posizionamento geopolitico. Il rischio di finire isolati in un abbraccio mortale con Mosca è alto. E non c’è evidenza del fatto che una vittoria di Trump alle elezioni Usa possa cambiare sostanzialmente la partita, certo non nel modo in cui spera Sogno georgiano. Lo scorso dicembre Ivanishvili è tornato alla vita pubblica da presidente onorario del partito. Oggi corre come capolista.
Fin dal crollo dell’Unione sovietica, di cui era parte, Tbilisi è imprigionata in un susseguirsi di cicli punteggiati di governi nati sulla spinta di grande legittimazione popolare, salvo poi maturare pulsioni autoritarie sempre più nette ed essere infine cacciati via. La sensazione di trovarsi vicini alla chiusura di un ciclo è forte.
L’opposizione divisa
L’opposizione compete strutturata in quattro poli. Divisa da personalismi e vecchi rancori, è unita dalla comune convinzione di starsi giocando l’ultima possibilità di arrestare il processo di consolidamento autoritario del partito di Ivanishvili, che in caso di ottenimento di una super maggioranza promette di metterli tutti fuori legge. Né più né meno. Sondaggi partigiani, che profilano scenari antitetici a seconda di chi li ha commissionati, e l’alta quota di indecisi, rendono arduo prevedere i risultati. Ma la lettura degli esperti più equilibrati restituisce il quadro di un’elezione sul filo del rasoio.
Gli scenari
Sogno georgiano ha perso popolarità rispetto alla scorsa tornata ed è giudicato irreale che faccia persino meglio e conquisti tre quarti dei posti in Parlamento, così da poter intervenire sulla Costituzione. A maggior ragione in un sistema divenuto proporzionale. La sua vittoria è più che possibile ma la percezione della regolarità del voto si giocherà sulle percentuali: un risultato del partito al governo superiore al 45% sarebbe reputato dalle opposizioni come manipolato. Se Sogno georgiano prendesse addirittura più del 50%, e con la redistribuzione dei seggi dei partiti rimasti sotto allo sbarramento del 5% ottenesse una maggioranza costituzionale, è facile prevedere contestazioni di piazza di dimensioni colossali. Il rischio di frodi è solo parzialmente mitigato dall’introduzione del voto elettronico in gran parte delle postazioni elettorali: il ruolo degli osservatori sarà fondamentale.
Lo spettro dell’Ucraina
Intanto, Tbilisi è avvolta in un’atmosfera di quiete prima della tempesta. Lungo le strade svettano i cartelloni elettorali di Sogno georgiano: da un lato, città ucraine in rovina straziate dalle bombe russe. Chiese, ponti, aule scolastiche ridotte a macerie in un lugubre bianco e nero. Dall’altro, immagini del loro equivalente locale: paesaggi e costruzioni intonse dalle tinte brillanti. “No alla guerra! Scegli la pace”, vi si legge. Un conflitto con Mosca, è l’efficace narrativa che guida la campagna del governo, sarebbe la conseguenza di una vittoria dell’opposizione, marionetta di un misterioso “partito globale della guerra”, con base in Occidente e decisiva influenza su Washington e Bruxelles, che vuole prolungare indefinitamente il conflitto in Ucraina e aprire un secondo fronte in Georgia.
Per le opposizioni, il cui tema portante è solo relativamente meno apocalittico benché assai più ancorato alla realtà, la scelta è tra un futuro democratico ed europeo o in uno Stato autoritario posto sotto il dominio del Cremlino. Il “partito della guerra”, ribattono, è a Mosca e il rischio di un suo intervento, non certo a causa di mosse ostili di Tbilisi ma in caso di sconfitta di Sogno georgiano, o di sommovimenti dal potenziale rivoluzionario in caso di brogli, è reale. Non tanto nella veste di un’invasione su larga scala, considerata dagli analisti implausibile, quanto di provocazioni al “confine” con l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud: le regioni separatiste georgiane sostenute dalla Russia, che vi staziona in forze con basi, truppe e mezzi bellici. Lo spostamento di una manciata di carri armati potrebbe essere sufficiente a mandare nel panico la popolazione, svuotando le strade dai manifestanti. La Georgia non è in grado difendersi, né fa parte di alcuna alleanza militare.
Il rischio Bielorussia
Ma c’è chi non scarta l’ipotesi che, al contrario, potrebbe arroventare ancora di più gli animi. Un intervento russo in favore di Sogno georgiano sarebbe interpretato dalla cittadinanza come un segnale inequivocabile di vicinanza a Mosca, afferma Tina Khidasheli, ministra della Difesa tra il 2015 e il 2016 in quota Repubblicani, in coalizione con il partito di Ivanishvili. A quel punto, dice chiamando il miliardario per nome, «Bidzina potrebbe fare la fine di Ceausescu», il dittatore rumeno giustiziato dopo la rivoluzione del 1989. Un’iperbole, sì, ma «quello di cui sono sicura», conclude, «è che questo Paese non diventerà mai la Bielorussia».
(da Open)
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Ottobre 25th, 2024 Riccardo Fucile
TRA AFFARI, INTERESSI E CONDIZIONAMENTO DELLE ELEZIONI USA… MA CHE BEGLI AMICI HA IL GOVERNO ITALIANO
Elon Musk sarebbe regolarmente in contatto con Vladimir Putin dalla fine del 2022. La rivelazione arriva dal Wall Street Journal, che cita attuali ed ex funzionari statunitensi, europei e russi.
L’imprenditore, personaggio chiave della campagna elettorale di Donald Trump, e il presidente della Russia parlerebbero di «questioni personali, affari e tensioni geopolitiche». Come riferito dalle fonti, Putin avrebbe persino chiesto al miliardario di evitare di attivare il suo servizio internet satellitare Starlink a Taiwan per fare un favore al leader cinese Xi Jinping.
Il primo sostenitore di Trump
Musk negli ultimi mesi è diventato il primo sostenitore di The Donald, arrivando persino a promettere un milione di dollari una volta al giorno “a caso”, tramite una lotteria, ad un elettore registrato della Pennsylvania che abbia firmato una petizione promossa dal suo super Pac e finalizzata a sostenere il tycoon.
Nelle scorse settimane è, inoltre, apparso più volte in pubblico assieme a Trump, lo ha intervistato su X ed è salito con lui sul palco di Butler, in Pennsylvania, dove l’ex presidente era sfuggito all’attentato alla sua vita dello scorso 14 luglio. Musk ha anche donato oltre 75 milioni di dollari alla sua campagna elettorale e ha più volte espresso opinioni dure su Kamala Harris, tracciando scenari catastrofici in caso di sua vittoria, appoggiando teorie del complotto e diffondendo informazioni false.
Da Mosca dati a Houthi per colpire navi nel Mar Rosso
Non solo i costanti rapporti con Musk. Sempre secondo il Wsj, Putin avrebbe anche fornito dati dei target ai ribelli Houthi dello Yemen per i loro attacchi alle navi occidentali nel Mar Rosso con missili e droni, aiutando il gruppo sostenuto dall’Iran ad assaltare un’arteria importante per il commercio globale e destabilizzando ulteriormente la regione. Il gruppo armato dello Yemen ha iniziato a utilizzare i dati satellitari russi trasmessi tramite membri del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche dell’Iran, ha affermato una delle tre fonti del giornale Usa.
(da agenzie)
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Ottobre 25th, 2024 Riccardo Fucile
“IL PUNTO È POLITICO. HO INVESTITO NELLA COSTRUZIONE DELLA GENERAZIONE SUCCESSIVA E QUESTA È PRONTA”… “POLITICAMENTE È NECESSARIO CAMBIARE, PER QUESTO MI TIRO FUORI. PREFERISCO ARCHIVIARMI DA SOLO, PIUTTOSTO CHE FARMI ARCHIVIARE DAGLI ALTRI. DEVE FINIRE BENE”
Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia, ha chiarito la sua posizione in merito a un
possibile terzo mandato. “La questione non è tecnica, io sono candidabile. La nostra legge elettorale non è mai stata adeguata al limite dei mandati, e se lo facessimo, il conteggio ripartirebbe da zero. Il punto è politico. Ho investito nella costruzione della generazione successiva e questa è pronta”, ha affermato il governatore.
Il presidente ha poi sottolineato come imporre nuovamente il suo nome sarebbe “politicamente sbagliato” e ha dichiarato di voler fare un passo indietro: “Politicamente è necessario cambiare, per questo mi tiro fuori. Preferisco archiviarmi da solo, piuttosto che farmi archiviare dagli altri. Deve finire bene”
Riguardo ai suoi progetti futuri, il governatore ha aggiunto: “Ritengo giusto occuparmi di altro, con altri ruoli politici. Per esempio, vorrei capire se con il fronte progressista ci siano le condizioni nel 2027 per dare al Paese un governo diverso. Questo è un discorso che mi interessa”.
Infine, parlando del sindaco di Bari, Antonio Decaro, ha detto: “Penso che sarebbe il candidato naturale, ma non ho capito cosa voglia fare. Il successo elettorale e il prestigioso ruolo che gli è stato riconosciuto credo lo abbiano messo in difficoltà. Dovrà riflettere con sé stesso, la sua famiglia e, se vorrà, anche con me”.
(da agenzie)
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Ottobre 25th, 2024 Riccardo Fucile
OVAZIONE PER ELLY SCHLEIN: “E’ LA VOLTA BUONA”…CONTE: “CANCELLARE IL SISTEMA TOTI, MARCIO E MALSANO”… BONELLI, CALENDA, BONETTI E FRATOIANNI ATTACCANO SUI TAGLI ALLA SANITA’… ORLANDO: “RIPRENDIAMOCI LA PATRIA CONTRO I PARTITI DEGLI AFFARISTI”
“Vi voglio bene”. E’ un Andrea Orlando che non ci si aspetta quello che chiude la campagna elettorale per le regionali in Liguria. “Vi voglio bene – dice davanti a una platea di oltre 1200 persone all’interno del teatro Politeama, altre 200 sono rimaste fuori sotto la pioggia– e sarà un privilegio rappresentarvi alla guida della Regione Liguria”. Parla per quasi un’ora, alternando battute e stilettate feroci agli avversari a toni più emozionati. Spesso guarda qualcuno in prima fila. Quel qualcuno è suo padre. Un pensionato ligure come ce ne sono tanti.
Dopo 250 iniziative da un capo all’altro della Regione, tra piazze, tavoli, confronti, interventi, l’ex ministro del Pd ha lanciato l’ultimo appello al voto insieme a quello che ha definito “un campo che così largo non è mai stato fatto”. Sul palco, con Andrea Orlando, non ci sono i leader dei partiti. Enzo Maraio dei Socialisti, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni di Alleanza Verdi Sinistra, Elena Bonetti di Azione (con Carlo Calenda in collegamento video), e poi Giuseppe Conte ed Elly Schlein sono intervenuti ma poi si sono seduti in platea. Sul palco, con Andrea Orlando, ci sono le volontarie e i volontari, giovani e meno giovani, che hanno contribuito a portare avanti la campagna elettorale. Sul palco anche alcune operatrici che traducono gli interventi nel linguaggio dei segni.
Gli Arcade Fire con Ready to Start e Volta la Carta di Fabrizio De André, la colonna dell’evento, spostato da piazza Matteotti al chiuso del teatro che, fatalmente, è a due passi dal point di Marco Bucci. Un teatro che si riempie in fretta e infatti, durante il comizio Orlando uscirà fuori per salutare chi non è riuscito a entrare e sedersi. “Meglio così – dice a chi lo attende sotto la pioggia – perché vuol dire che siete tanti, vuol dire che ce la possiamo fare”.
Una maratona di oltre due ore iniziata da Benedetta Motta, “sono una giovane medica – racconta – che viene da un piccolo paesino della Liguria”, la quale, oltre a sottolineare il tema principale di questa tornata elettorale, la sanità, si occupa di chiamare sul palcoscenico i big della politica.
Tra i discorsi più potenti, l’applausometro premia Angelo Bonelli, dei Verdi, e Giuseppe Conte, in un momento non semplice per il M5s, ma anche Elly Schlein, la segretaria del Pd, che viene citata anche da Elena Bonetti, di Azione, che le esprime solidarietà per gli attacchi ricevuti dal centrodestra e dallo stesso Bucci in questa campagna elettorale.
Giuseppe Conte ha citato l’importanza di “cancellare il sistema Toti, un sistema marcio e malsano”, ha risposto a Antonio Tajani che dal palco del centrodestra, ai magazzini del cotone, ha detto che se ci fosse stata la gronda il ponte Morandi non sarebbe caduto: “Si devono vergognare – ha inveito Conte – il ponte è caduto perché Aspi non ha fatto manutenzione, e oggi si vantano del modello Genova quando siamo stati noi a finanziare il nuovo viadotto”
Da Angelo Bonelli l’invito a realizzare “l’infrastruttura più importante, la difesa del territorio dal rischio idrogeologico” e il no a opere inutli e dannose come “il rigassificatore e i depositi chimici a sampierdarena”, ma anche la volontà di “Fare della Liguria una regione di pace in tempi di riarmo”. Anche Fratoianni parla (anche) di pace e ricorda quando con Andrea Orlando si trovò a visitare il valico di Rafah per osservare da vicino la tragica situazione del conflitto in Medio Oriente.
“Le cose belle sono quelle che facciamo insieme, e a vedervi penso che questa è la volta buona, questa volta la Liguria cambia”, ha detto Elly Schlein salendo sul palco, tra gli applausi. Anche lei ha replicato a una dichiarazione fatta dal palco del centrodestra: “Meloni ha detto che non sappiamo fare i conti, ma sono loro a dare i numeri sulla sanità pubblica, con Meloni la spesa pubblica in sanità rispetto al pil non ha fatto che scendere”.
La chiusura è tutta per Andrea Orlando, che si avvicina al microfono, senza giacca. Ringrazia le donne e gli operai che ha incontrato in queste settimane di lavoro sul territorio, punzecchia la giunta comunale su palasport e stadio: “Ormai sono diventati campioni di boomerang, non ho detto che non voglio che sia rifatto lo stadio Ferraris, ho detto che non voglio speculazioni come sono state fatte sul Waterfront e se vogliono farlo costruire agli stessi che hanno fatto il Palasport che stiano attenti alle misure delle porte” (il riferimento è al caso dei “30 centimetri” mancanti all’impianto della Foce per essere regolamentare rispetto alle gare internazionali di volley).
Orlando parla di sanità pubblica, perché sia accessibile a tutti “anche ai bambini con disabilità che oggi non possono curarsi”. Lancia un appello a imprenditori e lavoratori: “Costruiamo un progetto per fare di nuovo della Liguria una realtà industriale”. Promette una “legge contro il consumo del suolo” come prima azione una volta al governo. E infine invita i liguri al voto, a cambiare. “Contro chi vuole una Liguria e un’Italia gerarchica, bloccata, maschilista”. E ancora: “Le oligarchie non sono mai autoctone, sono manovrate da poteri sovranazionali, ecco io sono contento di non essere un uomo delle multinazionali come si vanta di essere Bucci”. “Cambiamo – conclude – facciamolo per noi e per i nostri figli, riprendiamoci la patria, un termine che ci hanno rubato, forza, ce la possiamo fare”.
(da Genova24)
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