Ottobre 19th, 2024 Riccardo Fucile
LA COLLABORAZIONE SENZA INDIRE UNA GARA PUBBLICA CON BLACKROCK
«No alla grande finanza internazionale!», gridava Giorgia Meloni nel famoso discorso di Marbella, sul palco del partito franchista Vox. Era il 14 giugno 2022 e la leader di Fratelli d’Italia poteva ancora permettersi i toni aggressivi della «underdog» d’opposizione. Quel giorno quasi nessuno avrebbe potuto credere che poco più di due anni dopo la leader di Fratelli d’Italia, da presidente del Consiglio in carica, avrebbe avviato una collaborazione – per di più senza indire nessuna gara pubblica – con Blackrock, il più potente fondo d’investimento di Wall Street e dell’intero pianeta. E invece…
Completando una giravolta a 180 gradi su se stessa, lo scorso 30 settembre la premier ha ricevuto a Palazzo Chigi Larry Fink, 71 anni, manager guru della finanza globalista, presidente e amministratore delegato di Blackrock, un colosso che gestisce asset per 10mila miliardi di dollari, quasi cinque volte il Pil dell’Italia.
La nota diramata dal Governo spiega che nell’incontro è stata concordata «la costituzione di un ristretto gruppo di lavoro, coordinato da Palazzo Chigi, dedicato all’attuazione dei progetti da sviluppare in collaborazione». Quali progetti? Il comunicato ufficiale non lo specifica, ma parla genericamente di almeno due ambiti di confronto. Da un lato Meloni – affiancata dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – ha illustrato a Fink «le opportunità di investimento nel campo delle infrastrutture nazionali di trasporto e in altri settori di natura strategica» (tradotto in altri termini, significa che il Governo chiede il soccorso di Blackrock per attuare il suo piano di privatizzazioni volto a racimolare in breve tempo qualche miliardo di euro). Dall’altro, la presidente del Consiglio e il manager hanno «discusso dei possibili investimenti del fondo Usa in Italia nell’ambito dello sviluppo di data center e delle correlate infrastrutture energetiche di supporto».§
I data center – grandi edifici che ospitano computer, server e apparecchiature per la conservazione di dati in cloud – sono un’infrastruttura chiave per la transizione digitale. Nel mondo ce n’erano meno di 5mila nel 2022 e oggi sono già quasi 8mila.
Questa è una partita a cui Meloni si è molto dedicata negli ultimi mesi, scanditi da diversi colloqui faccia a faccia con i rappresentanti dei più importanti operatori del settore, da Google a Microsoft passando per OpenAi.
Si tratta, come è evidente, di player che hanno tutti in comune il passaporto a stelle e strisce. Così come è statunitense il fondo Kkr che quest’anno – per restare nel campo della connettività – ha comprato per 22 miliardi di euro la rete di Tim affiancato dal Ministero dell’Economia in qualità di azionista minore. E come dimenticare Elon Musk? Lo stravagante imprenditore pro-Trump avrebbe recentemente proposto all’amica Giorgia di collegare l’Italia ai satelliti della sua Starlink offrendo agli italiani – scrive La Repubblica – abbonamenti internet da 10 euro al mese.
Sul terreno del digitale, insomma, la “regina dei patrioti” sta tessendo una fitta rete di relazioni che parla la lingua del dollaro. Alla faccia della sovranità sui dati.
Rotta su Milano
Del resto, l’Italia rappresenta una prateria tutta da conquistare per chi costruisce data center. Oggi il grosso delle strutture a livello europeo si concentra intorno alle cinque città dell’acronimo “Flapd – Francoforte, Londra, Amsterdam, Parigi e Dublino – dove però il mercato è ormai quasi saturo. Il nostro Paese è ancora indietro, ma Milano guida il fronte degli emergenti (insieme a Madrid e Varsavia). Secondo l’Osservatorio Data Center del Politecnico, per il triennio 2023-2025 sono stati annunciati in Italia nuovi investimenti per circa 15 miliardi di euro e la potenza installata dovrebbe salire dai 430 megwatt del 2023 (+22% rispetto al 2022) fino a una forbice compresa tra i 590 e gli 825 megawatt.
«Se vuoi puntare sul digitale, e il mondo sta andando in quella direzione, devi avere un’infrastruttura che ti supporti», spiega a TPI Luca Dozio, direttore dell’Osservatorio. «Il data center consente di disporre dell’infrastruttura necessaria per svolgere qualsiasi servizio digitale, dall’intelligenza artificiale alla realtà aumentata, fino allo sviluppo di infrastrutture quantistiche. I data center sono il primo mattoncino per costruire un mercato digitale».
Poche settimane fa Microsoft ha annunciato un investimento da 4,3 miliardi di euro nel nostro Paese, puntando a stabilire nel Nord Italia una delle sue più grandi «Regioni Data Center» europee, nonché «un hub di dati chiave per il Mediterraneo e il Nord Africa». L’investimento include, inoltre, corsi di formazione sull’intelligenza artificiale che entro la fine del 2025 dovrebbero coinvolgere un milione di italiani.
Anche per il presidente di Microsoft, l’avvocato 65enne Brad Smith, si sono spalancate le porte di Palazzo Chigi. Durante il loro incontro, lo scorso 2 ottobre, la premier Meloni ha «espresso soddisfazione per l’importante investimento» della multinazionale di Redmond.
A giugno, in occasione del vertice del G7 a Borgo Egnazia, la presidente del Consiglio aveva stretto la mano anche all’amministratore delegato di Microsoft, Satya Nadella, ospite di un evento collaterale sulle partnership per le infrastrutture globali insieme al presidente degli Stati Uniti Joe Biden, ad alcuni fra i principali manager delle partecipate di Stato italiane e – rieccolo – al numero uno di Blackrock Larry Fink.
La questione energetica
All’inizio di quest’anno Blackrock ha acquistato per 12,5 miliardi di dollari Global Infrastructure Partners (Gip), fondo con sede a New York specializzato negli investimenti in infrastrutture che ha in portafoglio, tra i vari asset, il 50% di della società ferroviaria italiana Italo-Nuovo Trasporto Viaggiatori.
Lo scorso settembre Gip ha partecipato alla nascita di un’alleanza tra giganti nel settore dell’intelligenza artificiale. Il nuovo acronimo da tenere d’occhio è Gaiip, ovvero Global AI Infrastructure Investment Partnership: ne fanno parte, oltre a Gip, la stessa Blakrock, Microsoft e Mgx, società di investimenti nell’intelligenza artificiale legata al fondo sovrano di Abu Dhabi. Il capitale di partenza ammonta a 30 miliardi di dollari ma si punta a mobilitarne presto altri 100 per «investire nei data center e supportare le infrastrutture energetiche». Anzi, di più: la missione ultima «è risolvere il problema energetico alla base dell’intelligenza artificiale».
I data center, infatti, sono strutture estremamente energivore. Nel 2030 potrebbero arrivare ad assorbire il 9% della domanda di elettricità negli Stati Uniti e già oggi ne assorbono il 18% in Irlanda. Un problema in particolare per chi vuole investire in Italia, dove le bollette sono tra le più care d’Europa.
Nel tentativo di contenere i costi, diversi operatori del settore informatico in tutto il mondo stanno stringendo accordi di fornitura a lungo termine con compagnie energetiche: Microsoft, ad esempio, ha recentemente firmato un’intesa ventennale con Constellation Energy per riattivare la centrale nucleare dismessa di Three Mile Island, in Pennsylvania. E in un numero crescente di casi il calore prodotto dai data center viene riutilizzato come fonte di teleriscaldamento a beneficio di case e imprese.
Secondo indiscrezioni di stampa, in Italia Blackrock è interessato ad acquistare da Enel le vecchie centrali a carbone ormai in dismissione a Civitavecchia e Brindisi per insediarvi dei propri data center: oltre alla disponibilità di spazi enormi, questi impianti avrebbero il vantaggio di essere già connessi alla rete elettrica nazionale.
Prima di essere ricevuto dalla premier Meloni, il plenipotenziario del fondo Larry Fink avrebbe incontrato a Roma l’amministratore delegato di Enel, Flavio Cattaneo. Da quasi dieci anni Blackrock è il secondo azionista dell’azienda controllata dal Ministero dell’Economia, una partecipazione che si somma, fra le altre, a quelle in Eni, Leonardo, Unicredit, Intesa Sanpaolo e Rai Way.
L’I.A. della California
Il Governo italiano, intanto, è in contatto anche con altri big del mondo digitale. Nel corso della sua ultima visita a New York, Meloni ha avuto una serie di incontri riservati con Sam Altman, Sundar Pichai e Greg Brown, amministratori delegati rispettivamente di OpenAi, Google e Motorola. Con ciascuno dei tre – recita la nota di Palazzo Chigi – ha discusso di possibili investimenti nel nostro Paese e di «come incrementare la competitività italiana nei settori a più alta tecnologia». Secondo l’Ansa, che fa riferimento a fonti italiane, «i tre gruppi sono interessati ad investire nei data center e nelle startup italiane, alle collaborazioni con le eccellenze delle nostre università e a fornire know how sull’intelligenza artificiale alle imprese italiane».
Il più attivo al momento sembra essere OpenAi, società numero uno a livello mondiale nel campo della ricerca sull’intelligenza artificiale. Lo scorso 2 ottobre il player californiano – partecipato da Microsoft – ha siglato un memorandum d’intesa con Cdp Venture Capital, il fondo d’investimento a capitale interamente pubblico controllato da Cassa Depositi e Prestiti. L’accordo è «finalizzato a rafforzare il posizionamento dell’Italia nello sviluppo e nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale» attraverso supporto a startup, iniziative educative e collaborazioni commerciali.
Bandiera bianca
La campagna delle multinazionali yankee per piazzare i loro data center sul territorio italiano – con la benedizione del Governo – pone però un duplice ordine di problemi.
Il primo riguarda la protezione delle informazioni sensibili custodite in queste infrastrutture. Nel luglio 2023 è entrato vigore il Data Privacy Framework, un accordo tra la Commissione europea e il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti che punta a superare le tensioni tra Ue e Usa sul trasferimento di dati personali da una sponda all’altra dell’Atlantico. La disputa si è acuita in particolare in seguito al Cloud Act, una legge emanata da Washington nel 2018 in base alla quale le autorità federali statunitensi possono costringere le aziende tecnologiche a stelle e strisce a fornire qualsiasi dato su cui abbiano il controllo, ovunque nel mondo sia fisicamente ubicato il data center che lo custodisce.
La nuova intesa bilaterale raggiunta l’anno scorso con Bruxelles tenta di mitigare l’attrito fissando un livello comune di protezione dei dati e limitando le possibilità di accesso alle informazioni dei cittadini europei da parte del Governo americano. Ma sono in pochi a credere che funzionerà. «Non cambierà praticamente niente», ha sostenuto in un’intervista di qualche mese fa al Corriere della Sera Max Schrems, l’attivista austriaco che in passato ha già vinto due battaglie legali contro i tentativi di accordo sulla privacy tra Ue e Usa.
C’è poi l’altra grande questione che rimane aperta: quella che riguarda l’oligopolio tutto americano che vige nel mercato del tech. Come sottolinea parlando con TPI Giuseppe Attardi, già professore di Informatica all’Università di Pisa e coordinatore del dipartimento Cloud del Consorzio universitario Garr, in un’economia come quella attuale in cui tutto gira su servizi digitali, chi gestisce le infrastrutture cloud gode di un enorme vantaggio competitivo.
Attardi cita l’esempio di Amazon Web Services, la sussidiaria di Jeff Bezos che fornisce servizi di cloud computing: «Sfruttando i data center di sua proprietà – fa notare il professore – Amazon può far funzionare i propri servizi di e-commerce e video streaming senza pagare i costi dell’infrastruttura. Non solo: le altre aziende che devono utilizzare servizi informatici ma che non dispongono di data center saranno costrette ad affittare l’infrastruttura pagando un canone proprio ad Amazon o a un’altra Big Tech».
Anche Mario Draghi, nel suo recente rapporto sulla competitività dell’Ue, ha evidenziato l’enorme divario tecnologico tra Usa e Ue: «Tre hyperscaler statunitensi rappresentano da soli oltre il 65% del mercato cloud globale ed europeo», scrive l’ex premier italiano. Draghi esorta quindi l’Europa «a sviluppare il proprio settore tecnologico interno».
Per creare una filiera digitale, spiega il professor Attardi, bisogna fare una cosa semplice, «investire»: «Se per il software ci si può affidare a soluzioni open source che hanno dietro decine di migliaia di sviluppatori al mondo, per l’hardware, ossia i data center, bisogna stanziare ingenti somme. Si tratta di investimenti di medio-lungo termine di cui possono farsi carico i singoli Paesi oppure consorzi tra Paesi diversi, ma il ritorno sull’investimento è sicuro perché non c’è il pericolo che la gente non abbia bisogno di queste infrastrutture».
Nel 2019, su iniziativa di Germania e Francia, qualcosa si era mosso con l’istituzione di Gaia X, che nei piani originari avrebbe dovuto replicare nel campo del cloud l’esperienza – rivelatasi vincente – di Airbus nell’industria aeronautica: dar vita, cioè, a un colosso tutto Made in Europe. A distanza di cinque anni, però, il progetto sembra naufragato: Gaia X ha abbassato le pretese e si è ridotta a essere solo un’associazione che definisce degli standard di interoperabilità per servizi altrui. Non solo: tra i suoi membri ora ci sono persino le stesse Big Tech rispetto alle quali si sarebbe dovuto tentare di creare una concorrenza.
Così, anche nel settore digitale, la vecchia malandata Europa non solo rinuncia a competere con gli States ma stende pure i tappeti rossi ai titani Usa che vogliono investire qui. Vale anche per il Governo italiano: sovranisti sì, ma vuoi mettere quanto ne sanno gli americani?
(da TPI)
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Ottobre 19th, 2024 Riccardo Fucile
“QUEI SOLDI DOVEVANO ANDARE A CARABINIERI, SANITÀ, GIOVANI. NON AGLI SPOT DELLA PREMIER”… RENZI: “SPERPERO DI DENARO PUBBLICO PER CAPRICCIO PERSONALE DELLA PREMIER”
“Lunedì prossimo presenteremo una denuncia formale alla Corte dei Conti indicando Giorgia Meloni come responsabile dello spreco di denaro pubblico legato allo scandalo del centro migranti in Albania. Quello che stiamo vedendo è uno scandalo per le famiglie degli italiani: quei soldi dovevano andare a Carabinieri, sanità, giovani. Non agli spot della Premier”. Lo scrive sui suoi social il deputato Francesco Bonifazi, annunciando che Italia Viva presenterà denuncia.
Matteo Renzi punzecchia la presidente del Consiglio e lancia la sua “gufata”: «La verità è più grave, Meloni ha commesso un errore clamoroso: sta sprecando centinaia di milioni degli italiani solo per un suo capriccio personale». Il vero affondo però arriva in coda, col parallelo al veleno tra la leader di Fratelli d’Italia e Chiara Ferragni: «Lei è una influencer, non una statista. Ma questo spreco di soldi degli italiani è assurdo e illogico: diventerà il suo pandoro…».
(da agenzie)
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Ottobre 19th, 2024 Riccardo Fucile
NELL’ULTIMO PERIODO L’EMITTENTE CONSERVATRICE HA ATTACCATO PIÙ VOLTE “THE DONALD”, POCHI GIORNI FA È STATA MANDATA IN ONDA UN’INTERVISTA ALLA HARRIS, CHE HA FATTO INFURIARE IL TYCOON… MICHAEL WOLFF, IL BIOGRAFO DEL MAGNATE DELLE TV: “MURDOCH SI AUGURA LA MORTE DI TRUMP”
Durante l’apparizione di venerdì mattina, Trump ha affermato di essere “l’essere umano più stabile” e ha ribadito la sua lamentele sul fatto che la rete non sostiene esclusivamente la sua campagna per la rielezione, permettendo che andassero in onda pubblicità a favore della candidatura presidenziale della vicepresidente Kamala Harris.
Ha poi delineato come intendesse portare direttamente la sua lamentela al fondatore della rete, Rupert Murdoch, chiedendo che tutte le pubblicità negative cessassero per 21 giorni.
Trump si è seduto affiancato da quattro co-conduttori sul “divano curvo” del programma mattutino di Fox News, dove ha discusso della campagna elettorale del 2024, della sua rivale Harris e della cena di beneficenza Al Smith di giovedì sera a New York, un evento in cui ha pronunciato un discorso con alcune battute che sostiene siano state scritte dallo staff di Fox News. Purtroppo, non era un fan dei loro scritti e ha fatto sapere a tutti gli spettatori venerdì che non gli erano piaciuti.
“Beh, ho avuto molte persone che mi hanno aiutato”, ha risposto Trump. “Molte persone. Alcune persone da Fox. Non dovrei dirlo. Ma hanno scritto alcune battute e, per la maggior parte, non mi sono piaciute”.
l giorno delle elezioni è il 5 novembre, a 18 giorni di distanza. L’autunno scorso, Murdoch, 93 anni, si è ritirato dalla carica di presidente di News Corp, passando il posto al figlio Lachlan Murdoch.
Sempre venerdì, Fox News ha trasmesso un segmento in cui Trump visitava un barbiere nel Bronx durante la sua permanenza a New York. Il candidato repubblicano ha tenuto una piccola intervista in stile Q&A giovedì con lo staff del Knockout Barbershop nella zona di Castle Hill. [
Il segmento faceva parte della serie di barbieri del corrispondente di Fox News Lawrence Jones, che lo porta a visitare luoghi in tutto il paese per discutere le questioni principali che colpiscono la comunità nera e cosa spinge gli elettori in questa stagione elettorale. L’intervista con l’ex presidente andrà in onda lunedì, secondo un comunicato stampa di Fox Corporation.
Il The Hollywood Reporter ha contattato Fox News venerdì per chiedere un commento sulle dichiarazioni di Trump riguardo alla rete e per informarsi sul potere di Murdoch nel suo ruolo di Presidente Emerito.
(da agenzie)
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Ottobre 19th, 2024 Riccardo Fucile
O SI E’ RIVOLUZIONARI O NON LO SI E’, SE IL “SISTEMA” E’ IL NEMICO NON SI FA DA RUOTA DI SCORTA DI CHI LO RAPPRESENTA, UN PO’ DI COERENZA MAI?
«Le intimidazioni dei neofascisti non ci spaventano e Torino, città antifascista, darà il benvenuto a llaria Salis, dopo averla largamente sostenuta nel corso della campagna elettorale», così, in una nota, Marco Grimaldi, vicepresidente alla Camera di Avs, Sara Diena, capogruppo in comune a Torino di Sinistra Ecologista e Alice Ravinale, capogruppo in Regione Piemonte di Avs rispondono agli striscioni affissi ieri nel capoluogo piemontese contro Ilaria Salis.
«Torino non ti vuole», si legge sul drappo bianco su cui spicca il logo del collettivo giovanile di estrema destra «Avanguardia», che si definisce nazionalista, identitario e rivoluzionario. Un altro striscione recitava: «Askatasuna-Salis: da antisistema a servi del sistema».
Gli striscioni sono apparsi alla vigilia dell’ospitata che l’europarlamentare di Avs farà questa sera all’Askatasuna in una delle tappe del tour «questa notte non sarà breve», omonimo del fumetto con cui Zerocalcare, anche lui presente in alcune date, ha raccontato la storia di Salis. «Abbiamo voluto ricordare, tanto al centro sociale quanto all’eurodeputata con la passione per i pestaggi in superiorità numerica e ad Alleanza Verdi-Sinistra, partito che l’ha candidata, che cosa realmente sono: dei finti rivoluzionari a servizio di quello stesso sistema marcio e corrotto che dicono di combattere, ma del quale, in realtà, sono i primi servi», hanno scritto sulla propria pagina Instagram i membri torinesi di Avanguardia.
«Su come la città abbia valutato llaria, la sua vicenda e la proposta di Avs parlano i numeri, con l’11,7%, il dato più alto di Italia e di sempre raggiunto. Tornando a chi ci minaccia, sappiamo chi sono, sappiamo come la pensano, non ci stupisce, purtroppo, il loro modo scomposto di attaccare le singole persone. Il problema è che questi piccoli gruppi di estrema destra si sentono più sicuri e liberi di agire sotto l’ala di un governo amico», hanno risposto gli esponenti di Avs.
(da agenzie)
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Ottobre 19th, 2024 Riccardo Fucile
SE UN SICARIO RICEVE IL MANDATO DI UCCIDERE QUALCUNO, IL FATTO CHE SI ATTENGA ALLE INDICAZIONI NON VUOL DIRE CHE NON SIA UN CRIMINALE
Incapacità o eversione. Non c’è altro modo di spiegare la strategia del governo Meloni nella gestione del fenomeno migratorio. A dimostrarlo è anche l’esito, prevedibile e previsto, dell’azione propagandistica di invio di sedici naufraghi in Albania, sulla base del protocollo per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria. E, per spiegare la gravità delle scelte dell’esecutivo sul tema, non occorrono nemmeno valutazioni politiche, basta un minimo di conoscenza giuridica.
In origine era il blocco navale, poi lo stato d’emergenza
Nel costruire la propria base di consenso, Giorgia Meloni ha promesso a lungo di fermare gli sbarchi attraverso il blocco navale. L’attuazione del piano è sempre stata piuttosto fumosa, soprattutto sul piano del diritto: la leader di Fratelli d’Italia prospettava con frasi a effetto l’affondamento delle navi, nei luoghi di partenza o nei porti italiani, che fossero mezzi di fortuna o navi di soccorso. Quale fosse il titolo di legittimità di queste azioni non è mai stato chiarito.
Il concetto di blocco navale è poi sparito dal programma di governo con l’approdo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, per ovvie ragioni. La più banale: è illogico, oltre che ingiustificato, il ricorso a uno strumento militare per la gestione di un fenomeno civile.
Proprio sulla gestione del fenomeno migratorio, dopo appena un semestre di governo, l’esecutivo ha dichiarato lo stato di emergenza, su impulso dei ministri Musumeci e Piantedosi. Attraverso questo strumento amministrativo, più volte utilizzato ad esempio durante la pandemia, il governo Meloni ha di fatto demandato alla protezione civile la gestione dei flussi migratori, ammettendo implicitamente di non essere in grado di organizzare il sistema di accoglienza definito negli anni dalle politiche di destra.
Sbarco selettivo, carico residuale, pizzo di Stato
L’implicita dichiarazione di fallimento arrivava anche dopo una serie di bocciature giudiziarie dei provvedimenti del governo in materia di soccorso in mare. Nel novembre 2022 c’era stato il caso Humanity, a cui il ministro Piantedosi, di concerto con Crosetto e Salvini, aveva imposto il cosiddetto “sbarco selettivo”, autorizzando il trasbordo dei soli naufraghi in condizioni di emergenza. Dopo pochi giorni, anche le persone definite “carico residuale” avevano ottenuto di poter sbarcare, grazie alla pronuncia in via cautelare del tribunale di Catania, che aveva riconosciuto l’illegittimità dell’atto amministrativo interministerial
Qualche mese dopo, nel settembre 2023, un decreto a firma dei ministri Piantedosi, Nordio e Giorgetti aveva previsto, da parte dei richiedenti protezione, il versamento di una cauzione di quasi 5mila euro per evitare di finire rinchiusi nei Cpr, i centro di permanenza e rimpatrio. La disapplicazione del provvedimento era arrivata dai tribunali di Firenze, di Bologna, di Catania. In quest’ultimo caso, la giudice Apostolico, che non aveva convalidato il trattenimento di richiedenti protezione tunisini, era stata destinataria di duri attacchi di ministri e parlamentari di destra, che l’accusavano di un uso politico della giustizia.
Il diritto d’asilo, la libertà di circolazione, l’integrità personale
Che la giustizia sia anche politica è in realtà piuttosto ovvio: le norme, le leggi, il diritto rispondono alla coscienza dell’epoca in cui sono vigenti. Se nei regimi autoritari e nei totalitarismi, gli ordinamenti traducono l’ideologia di governo in leggi che impongono l’obbedienza generalizzata, eliminano gli spazi di dissenso e conflitto, comprimono i diritti, così anche il successivo riconoscimento solenne dei diritti umani, giunto di fronte alle macerie materiali ed etiche della Seconda guerra mondiale, è un atto politico tradotto in testi giuridici. Nel 1948, con la Dichiarazione universale dei diritti umani, si era iniziato proprio questo processo di codificazione e accordo sui diritti che spettano a ogni essere umano, partendo dall’idea che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” (così l’articolo 1).
Le norme del diritto internazionale e umanitario non sono quindi delle imposizioni dall’alto, ma riconoscono tutele necessarie e già previste dalla cultura umana e giuridica.
Ad esempio, il diritto di asilo, che garantisce a chiunque fugga da persecuzioni o danni gravi nel proprio paese di poter chiedere e ottenere protezione, c’era già nell’Antica Roma, e, culturalmente, si inserisce nelle consuetudini di ospitalità della tradizione greca.
O, ancora, la libertà di movimento prevista tra i diritti umani, pur spesso ostacolata da burocrazie e scelte nazionali, deriva da una verità logicamente innegabile, spiegata dal filosofo Immanuel Kant nel suo La pace perpetua (1795): le persone “non possono disperdersi all’infinito, ma devono da ultimo tollerarsi nel vicinato, nessuno avendo in origine maggior diritto di un altro a una porzione determinata della terra”.
E anche il diritto di non subire trattamenti inumani e degradanti, il diritto di non essere detenuti senza elementi d’accusa, il diritto di difesa non sono capricci buonisti, ma rappresentano le basi della nostra civiltà giuridica, dall’Habeas corpus alle argomentazioni di Beccaria e Foucault.
Gli obblighi giuridici a garanzia dei diritti
Per garantire questi diritti a chiunque, italiani compresi, occorre però che gli Stati si assumano le proprie responsabilità: la dichiarazione di un diritto è infatti vuota se il diritto non è poi effettivo, esigibile, attuale. Perché sia così, correlati ai diritti ci sono sia doveri etico-morali sia obblighi giuridici. Se i primi dipendono dalla sensibilità individuale e collettiva, i secondi sono invece vincolanti: sono infatti stati scritti, approvati e ratificati in apposite dichiarazioni e convenzioni internazionali, a cui anche l’Italia ha, democraticamente e giustamente, aderito, e che deve quindi rispettare.
Tra queste c’è ovviamente la Dichiarazione universale dei diritti umani, ma anche la Convenzione di Ginevra del 1951 sul diritto d’asilo, la CEDU, cioè la Convenzione europea per i diritti umani, che comprende libertà e diritti già citati. E, rispetto al diritto del mare, l’Italia ha ratificato nel 1989 la convenzione UNCLOS sul soccorso, che impone di fornire assistenza a ogni naufrago, senza distinzioni. La ragione di un simile obbligo è tanto semplice quanto logica: in una fase di soccorso, la priorità è salvare vite, a prescindere che il naufrago fosse su uno yacht affondato o sia stato torturato nei lager libici.
Questi obblighi, e questi diritti, sono tra loro legati. Il soccorso infatti non si esaurisce lanciando un salvagente, ma facendo sbarcare le persone assistite in un place of safety, un posto sicuro, presso il quale possano essere soddisfatti i loro bisogni primari: cibo, alloggio, cure mediche, protezione internazionale.
La procedura accelerata di frontiera e le deportazioni in Albania
Proprio sulla protezione internazionale, cioè su un bisogno primario che deriva da un diritto umano fondamentale, si sono concentrate le strategie del governo Meloni (e, a dire il vero, pure certi precedenti).
All’indomani del naufragio di Cutro, infatti, l’esecutivo ha convocato un consiglio dei ministri straordinario, promettendo l’emanazione di un decreto. Il decreto legge in questione, oltre a introdurre il nuovo delitto colposo di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, ha ristretto ulteriormente le ipotesi di protezione speciale, di fatto condannando al rimpatrio anche persone ben inserite, che hanno sviluppato legami personali e familiari in Italia.
Viene anche specificata un’ipotesi di procedura accelerata, attraverso l’aggiunta della lettera b-bis) all’art. 28-bis D.Lgs. 28/2005 che si applica alle domande di protezione presentate “direttamente alla frontiera o nelle zone di transito di cui al comma 4 da un richiedente proveniente da un Paese designato di origine sicuro”.
Di fatto è su queste ipotesi che si basa il protocollo tra Italia e governo albanese, con cui quest’ultimo concede il trattenimento di migranti sul proprio territorio, sotto la normativa e con la piena responsabilità (anche finanziaria) dell’Italia. I sedici naufraghi portati nel campo di Shengjin sono egiziani e bengalesi, provenienti da Paesi considerati sicuri dal governo italiano. Quattro di loro sono già rientrati, in quanto minorenni o vulnerabili. Degli altri dodici il tribunale di Roma non ha convalidato il trattenimento, applicando quanto emerso dalla sentenza della Corte di Giustizia europea dello scorso 4 ottobre, che risponde ai principi generali in materia di diritto alla protezione.
Un Paese sicuro o è sicuro ovunque e per tutti o non è davvero sicuro
La sentenza europea, così come le pronunce del tribunale di Roma, non spiegano nulla di inedito. La protezione delle persone, infatti, riguarda le loro condizioni concrete ed effettive.
Sul punto, tra l’altro, l’Italia è stata sanzionata più volte dalla Corte europea dei diritti umani (la CEDU): nel 2012, per respingimenti verso la Libia (caso Hirsi), e nel 2014, per espulsioni verso la Grecia (caso Sharifi). In entrambi i casi, le pratiche di respingimento trattavano collettivamente e in maniera sommaria i potenziali richiedenti asilo, negando di fatto il diritto alla protezione dalle persecuzioni.
Già tenendo conto di questi precedenti, e dei princìpi su cui si basano, è evidente come una lista di Paesi sicuri non possa bastare per ridurre le tutele a garanzia di una persona in fuga: l’analisi del rischio che corre ciascuno dipende non tanto (o non solo) dalle condizioni del Paese d’origine, ma anche dall’identità del richiedente, che proprio in base alle sue caratteristiche individuali e alla sua storia personale può essere vittima di violenze e discriminazioni.
La lista dei Paesi sicuri stilata dal governo, quindi, deve essere considerata al più un’indicazione di massima: chi esamina una richiesta di protezione deve valutare il caso concreto e individuale, oltre a verificare se il Paese d’origine sia effettivamente sicuro, per chiunque.
Questo tema era già stato sollevato dal tribunale di Firenze sulla Tunisia e viene affrontato proprio dalla sentenza della Corte di giustizia UE a cui fanno riferimento le recenti pronunce del tribunale di Roma: perché sia sicuro, un Paese deve esserlo in ogni parte del suo territorio e per tutti, minoranze comprese. Se infatti ci sono discriminazioni, abusi, violenze in alcune regioni o contro particolari gruppi di persone, il Paese in questione non può essere considerato davvero sicuro per nessuno: in assenza della tutela di tutti, nessuno è in salvo.
Forme e limiti: sovranità e mandato elettorale non possono calpestare i diritti
Di fronte all’ennesima, inevitabile, bocciatura giudiziaria di atti illegittimi, il governo reagisce oscillando tra le inquietanti dichiarazioni del ministro Nordio, secondo cui “se la magistratura esonda dobbiamo intervenire”, e i tentativi salviniani di riprendersi la scena, chiamando i leghisti in piazza contro la magistratura, con uno sprezzo delle regole preoccupante in un Paese democratico.
Anche Giorgia Meloni, in risposta alle critiche politiche sull’azione propagandistica verso l’Albania, si richiama al mandato elettorale ricevuto, con un trucco dialettico rodato, che sposta sul piano retorico una questione di diritto, stuzzicando la contrapposizione tra quel che si vuole e quel che si può.
Che un mandato sia chiaro non implica infatti che sia legittimo: un sicario riceve l’ordine di uccidere qualcuno su commissione, ma, per quanto possano essere precise le indicazioni a cui si attiene, nessuno dubita che le sue azioni siano criminali.
Per il mandato elettorale il ragionamento deve essere lo stesso e pure la nostra carta fondamentale, fin dal suo primo articolo, lo chiarisce: la sovranità appartiene al popolo “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
E in questi limiti ci sono anche i diritti umani, riconosciuti sia dalle leggi nazionali, sia dalle convenzioni internazionali, sia dall’etica universale. La protezione umanitaria non è quindi un’opzione che Giorgia Meloni e il suo governo possano applicare o disapplicare a piacimento: è invece un elemento fondante della nostra cultura giuridica e umana.
(da Fanpage)
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Ottobre 19th, 2024 Riccardo Fucile
RAMPELLI NON HA AVUTO UN “AVANZAMENTO DI CARRIERA” RISPETTO ALLA PASSATA LEGISLATURA MA, COMPLICE LA DECADENZA DI LOLLOBRIGIDA, È TORNATO CENTRALE NEL PARTITO (FRA DUE ANNI SI VOTA A ROMA, C’E’ IN BALLO LA SUA CANDIDATURA A SINDACO?)
Piccoli indizi: è andato in Croazia, a Dubrovnik, per il convegno di Ecr con la delegazione di Fratelli d’Italia. E’ stato fra i primi, se non l’unico, nel giorno del varo della finanziaria in Consiglio dei ministri a suonarle alle banche. Difende la manovra con il coltello fra i denti, parla di vittoria del merito sulla sanità, attacca le opposizioni sulla decisioni dei giudici rispetto al centro di accoglienza per migranti in Albania, agita mandanti dietro ai dossieraggi.
Insomma, ultimamente Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera e busto di Fratelli d’italia piazzato al Pincio dalle sorelle Arianna e Giorgia Meloni, sembra essere ritornato sul pezzo. In linea con i vertici del partito. Chi lo conosce da una vita aggiunge: “E’ più sereno”. Sarà.
Poi si scava e si scopre pure che in vista degli imminenti congressi del partito, che quasi un anno fa lo portarono quasi a una rottura clamorosa recuperata in zona Cesarini, sembra esserci un accordo per i responsabili dei municipi di Roma.
Nessuna candidatura alternativa rampelliana. Insomma, sembra venir meno almeno nel racconto politico parlamentare il ruolo dello “zio Fabio”, il borbottone messo da parte dopo aver creato, soprattutto nella capitale, lo zoccolo duro di Fratelli d’italia
Qualcosa sembra muoversi negli equilibri interni di FDI. Sono piccoli segnali, certo. Dettagli da unire e da capire. Eppur qualcosa si muove, nel pissi pissi del partito famiglia, che ultimamente vede a ribasso (ma chissà se è vero) le quotazioni di Francesco Lollobrigida, ministro-ex. A favore di Rampelli? Non esageriamo. Possono essere semmai rette parallele che per un caso raro e occasionale si toccano.
Sta di fatto che il vicepresidente della Camera, unico big a non avere avuto un avanzamento di carriera rispetto alla passata legislatura, è tornato a essere più centrale. Almeno nella percezione. Chi gli vuole bene dice che forse in caso di rimpasto potrebbe, a sorpresa, entrare a fare parte del giro buono.
Chi non gli vuole bene – e ce ne sono – afferma: “Giammai!”. E però l’unico mezzo oppositore interno di Giorgia Meloni (appellativo che al diretto interessato fa gonfiare le vene del collo) è rientrato nel gruppo che per un periodo lo aveva, complice il suo carattere non proprio elastico, messo un po’ ai margini.
Rampelli non si sente una riserva della repubblica melonista, dice di divertirsi a fare il vicepresidente vicario della Camera (la quinta carica dello stato), ma fra due anni si voterà a Roma. E dopo la tragedia di Enrico Michetti l’idea è quella di puntare su un politico puro.
(da Il Foglio)
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Ottobre 19th, 2024 Riccardo Fucile
CROSETTO (A CUI SPETTA FORMALMENTE LA NOMINA) VUOLE A TUTTI I COSTI SALVATORE LUONGO, MA MANTOVANO NON CI PENSA PROPRIO E SPINGE PER MARIO CINQUE O RICCARDO GALLETTA, SPONSORIZZATO DAL VATICANO… DOPO AVER INGOIATO I NOMI DI DE GENNARO ALLA GUARDIA DI FINANZA E BRUNO VALENSISE ALL’AISE, CHE FARÀ CROSETTO SE MELONI LUNEDÌ IN CDM APPOGGERÀ MANTOVANO?
Il mandato di Luzi scade a novembre, e il nome del successore sarà avanzato nel prossimo Consiglio dei ministri. Il ministro della Difesa vuole Luongo. Ma il sottosegretario non ci sta e punta su Cinque o Galletta
Un’altra grana sta per arrivare sulla scrivania di Giorgia Meloni, chiamata ad affrontare una scelta delicata: la nomina del nuovo comandante generale dei carabinieri. Da settimane, infatti, risulta a Domani che sia in atto sul dossier un nuovo scontro tra il ministro della Difesa, Guido Crosetto, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano.
La lite monta intorno al sostituto di Teo Luzi, attuale comandante generale dell’Arma con il mandato in scadenza a metà novembre, quando raggiungerà il limite d’età dei 65 anni.
In campo ci sono tre candidati forti, tutti ufficiali di indiscutibile spessore: il vicecomandante generale, Salvatore Luongo, il capo di Stato maggiore, Mario Cinque, e il capo del comando Pastrengo, Riccardo Galletta.
I tempi però sono ormai strettissimi, e l’obiettivo è di evitare il bis di quanto accaduto lo scorso anno con i vertici della Guardia di finanza dopo la fine del mandato di Giuseppe Zafarana.
Le premesse, anche questa volta, non sono però delle migliori. Crosetto e Mantovano puntano su nomi diversi, e entrambi non sembrano voler fare un passo indietro. Sarà Meloni a decidere chi assecondare, con conseguenze imprevedibili.
Il nome di Crosetto
La prima sfida diretta potrebbe consumarsi già nel Consiglio dei ministri in programma lunedì. Crosetto, a cui spetta il potere di firma, ha individuato da un pezzo il profilo preferito: Salvatore Luongo, 62 anni, che nel maggio di quest’anno è stato nominato dall’esecutivo vicecomandante dei carabinieri. Il generale ha un lungo cursus honorum al ministero della Difesa: è diventato capo dell’ufficio legislativo con Roberta Pinotti del Pd.
Il ministro punta a chiudere presto la partita, evitando di arrivare a ridosso della scadenza di novembre; così da favorire un cambio della guardia “ordinato”, replicando lo schema usato con Carmine Masiello indicato a capo dell’esercito. Il passaggio, nonostante il boccino sia formalmente nelle mani di Crosetto, non è affatto scontato. Tutt’altro.
A palazzo Chigi c’è chi è pronto alla barricate: il nome di Luongo trova infatti l’opposizione di Mantovano, di cui Meloni si fida ciecamente su questi dossier. Il sottosegretario considera l’ex capo legislativo della Difesa troppo trasversale, addirittura vicino al Pd. Impensabile, secondo il pensiero intransigente di Mantovano, benché nello specifico non abbia nulla da ridire dal punto di vista del curriculum.
La vicenda sembrerebbe più una ripicca verso Crosetto con cui i rapporti sono ai minimi termini. Il ministro della Difesa è intenzionato a tirare dritto su Luongo nel prossimo Cdm.
Mantovano, invece, vorrebbe Mario Cinque, capo di Stato maggiore dei carabinieri dal 2021, quando ha preso il posto proprio di Luzi, approdato al comando generale. Tra l’attuale comandante e Cinque c’è un rapporto solido che ha favorito una stretta collaborazione.
Nella sua carriera interna all’Arma, il generale ha ricoperto vari incarichi di prestigio fino al ruolo di sottocapo di Stato maggiore dei carabinieri nel 2018. Cinque viene descritto da chi lo conosce come «un ufficiale di grandi capacità e indiscutibile tratto umano».
C’è poi il terzo candidato in gioco, Riccardo Galletta, attualmente capo del comando Pastrengo (Nord Italia), che gode di grande stima anche dalle parti del Vaticano (che spinge il suo nome proprio con Mantovano, plenipotenziario dei rapporti tra Palazzo Chigi e Santa Sede) e vanta buoni uffici con il Quirinale.
Il Colle, risulta sempre a Domani, ha preferito chiamarsi fuori dalla disputa: ripone massima fiducia in tutti e tre i profili e fino alla fine seguirà in silenzio la scelta del sostituto di Teo Luzi.
Battaglia politica
La sfida non si gioca però solo sui curriculum. La nomina è teatro dell’ennesima puntata della battaglia politica interna al governo. Per Meloni la matassa è difficile da sbrogliare: la decisione finale toccherà a lei, che finora ha voluto tenersi lontana dalla vicenda.
La premier infatti in merito alle nomine sull’intelligence e dei vertici della sicurezza preferisce non scegliere da sola: spesso si è affidata ai suoi più stretti collaboratori per la selezione dei candidati. Tra tutti spicca proprio Mantovano, regista per esempio dell’operazione che ha portato alla guida dell’Aisi Bruno Valensise, che in pochi mesi ha riorganizzato l’agenzia.
È stata rivista l’intelligence economico-finanziaria, prima affidata a Giuseppe Del Deo (a lungo considerato il favorito per la guida dell’Agenzia), affidando i principali compiti di intelligence a Carlo De Donno, specializzato nel contrasto alla criminalità organizzata e anti-terrorisimo.
(da Domani)
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Ottobre 19th, 2024 Riccardo Fucile
“LA MAGGIORANZA SPIEGHI LE SCELTE EDITORIALI”
Sono gli ascolti di L’Altra Italia condotto dall’ex Iena Antonino Monteleone il simbolo delle difficoltà della Rai. Quantomeno per quel che concerne gli ascolti, che giovedì sera, per il programma di attualità, hanno sfiorato senza toccarla la soglia dell’1%. Per la precisione, lo 0,99% di share con 169 mila spettatori che hanno scelto di rimanere su Rai 2 in una serata dove le alternative non mancavano, da Piazzapulita su La7 a Dritto e Rovescio su Rete 4. Cifra da sconto al supermercato che dà lo spunto per analizzare quello che Repubblica e La Stampa definiscono un flop di TeleMeloni. Ed effettivamente, i programmi dell’emittente nazionale non brillano dopo gli addii storici, da Amadeus a Fabio Fazio, passando per Lucia Annunziata e Flavio Insinna. Intanto, si vocifera che L’Altra Italia, che conta ben 33 puntate da 180 mila euro l’una, possa essere spostato alla seconda serata.
Lo share dei programmi Rai
Reazione a Catena di Pino Insegno, programma tra i più apprezzati e riconosciuti dal pubblico, nonostante si aggiudichi ascolti intorno al 20%, fatica a smarcarsi da La Ruota della Fortuna di Gerry Scotti, in onda su Canale 5 nella stessa fascia: il preserale.
Non va meglio sabato sera. La scorsa settimana Tu si que vales ha staccato sia Chi può Batterci di Marco Liorni, sia Ballando con le Stelle. Anche Massimo Giletti, con il suo Stato delle cose fa fatica su Rai 3, vedendo il suo 4,4% di share superato da La torre di Babele in onda su La7.
Cifre basse anche per A casa di Maria Latella, che in settimana si è fermato al 3%. La nuova proposta editoriale della Rai targata Meloni evidentemente non sta scaldando il cuore degli spettatori.
Le opposizioni: «Spiegare le scelte editoriali»
Visti i risultati, le opposizioni si scagliano contro L’Altra Italia: «TeleMeloni è un disastro culturale, sociale ed economico per il Paese», rincarano i dem della Commissioni di Vigilanza Rai. E aggiungono: «L’altra Italia ha toccato il punto più basso mai raggiunto dalla rete, nonostante il conduttore sia legato da un contratto da oltre 300 mila euro». Non sono mancate le critiche per la vicinanza di Monteleone a FdI, più volte visto agli eventi di partito: «Ha le spalle coperte», cita Repubblica. Anche il Movimento 5 Stelle fa sentire la sua per voce del capogruppo in Vigilanza Dario Carotenuto: «Vogliamo sapere adesso come impatta l’imbarazzante 0,99% del programma di Monteleone sui conti Rai: vogliamo in Vigilanza un report dettagliato per questo e per gli altri programmi di prima serata. Esiste un tema di sostenibilità delle scelte editoriali, perché sono legate ai soldi del canone pagato da tutti gli italiani. Il più grosso fallimento degli ultimi decenni non può essere inosservato».
(da agenzie)
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Ottobre 19th, 2024 Riccardo Fucile
LA MAGGIORANZA PREPARA UN EMENDAMENTO AL DECRETO “SALVA INFRAZIONI” MA LA QUESTIONE PUÒ RIAPRIRE TUTTA LA PARTITA DEI BALNEARI E INGUAIARE IL NEOCOMMISSARIO FITTO NELL’AUDIZIONE CHE LO ATTENDE A BRUXELLES
C’è un ministro, Raffaele Fitto, che si prepara – studio matto e disperatissimo – a sottoporsi alla graticola di Bruxelles. Audizione con i Socialisti agguerriti pronti a chiedergli, per esempio, dei balneari e delle concessioni, della direttiva Bolkestein e dei ritardi dell’Italia nell’applicarla-
Poi c’è un decreto in conversione in Parlamento, si chiama “Salva infrazioni” che rischia di essere smontato come un Lego dalla maggioranza, nonostante l’accordo trovato in Consiglio dei ministri. Il cavallo di Troia è rappresentato da quel mondo dei circoli sportivi dilettanti che si trovano nei pressi dei corsi d’acqua. Mare, laghi e fiumi. A Roma sono salotti con vista sul Tevere dove l’unico vero sport praticato è l’esercizio imperituro delle relazioni di potere. Se non ne fai parte, non esisti.
In tutto, va detto, ci sono circa 900 realtà interessate su 2.000 esistenti, le più disparate, che da nord a sud passando per le isole sono coinvolte da questo riordino delle concessioni demaniali
E però questo assalto del mondo dei circoli parte da Roma. E non solo da quello dell’Aniene di Giovanni Malagò, che ha una concessione lontana dallo scadere, ma un po’ tutti stanno facendo pressioni. Canottieri Roma, Canottieri Lazio, Circolo dei magistrati, Canottieri Remo: basta farsi un giro lungo le sponde del biondo Tevere. La pressione di questo mondo di sport dilettantistico, ma che come una matrioska racchiude anche altro, rischia di essere un problema per lo studioso Fitto. Che se riaprirà questa faccenda si troverà a dover dar conto anche all’inverso dei balneari, terreno di voti di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia.
Intanto il ministro dello Sport Andrea Abodi, socio dell’Aniene, si muove. E in maniera non si sa quanto coordinata con Fitto ha promosso per oggi al Circolo del tennis del Foro italico la conferenza “Sport di base e Bolkestein”. Con lui ci saranno il capo di gabinetto del ministero Massimiliano Atelli (in predicato di passare alla Covisoc), Donato Marzano (Lega navale), Francesco Ettorre (Federazione vela) e Diego Nepi (ad di Sport e salute). Più giuristi e docenti universitari.
Questa spinta fa il paio con l’emendamento “salva circoli” preparato dal deputato capitolino di Fratelli d’Italia Luciano Ciocchetti.
In mezzo, per sineddoche, ci finisce il circolo Canottieri Aniene (anche se non interessato nell’immediato dalla scadenza della concessione): emblema della Roma eterna che si dà forza e decide. Il salva circoli sta a cuore anche all’opposizione. Debora Serracchiani del Pd chiede, per esempio, che “siano salvaguardate tutte quelle realtà che potrebbero essere scalzate” da grandi società
Per Fitto, il ministro indicato come commissario Ue nonché vicepresidente esecutivo, che deve presentarsi con le carte in regola è la classica gatta da pelare.
(da il Foglio)
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