Giugno 27th, 2025 Riccardo Fucile
PER GLI ERMELLINI, IL PROVVEDIMENTO È A RISCHIO DI INCOSTITUZIONALITÀ PERCHÉ MANCA IL REQUISITO DI “NECESSITÀ E URGENZA” PER GIUSTIFICARE UN DECRETO. IN PIÙ IL TESTO È ETEROGENEO, UNA SORTA DI “ZIBALDONE” CHE METTE INSIEME DI QUESTIONI CHE NULLA HANNO A CHE FARE L’UNA CON L’ALTRA – IL PARERE DELLA CORTE NON È VINCOLANTE, MA GIURIDICAMENTE È PESANTISSIMO PER MELONI
Sbagliato nel metodo e nel merito, per questo a rischio di incostituzionalità. In 129
pagine la Cassazione boccia senza appello il decreto sicurezza, segnalando criticità non solo nel metodo di adozione del provvedimento, ma soprattutto nei contenuti.
Il parere è contenuto nella relazione 33/2025 sulle novità normative dell’Ufficio del massimario e del ruolo e al momento non è vincolante, tuttavia giuridicamente è pesantissimo.
Per gli ermellini, il decreto è a rischio di incostituzionalità in primo luogo per il metodo. Un decreto, ricordano, è giustificabile solo in caso di “necessità e urgenza”, requisiti che mancano totalmente se è vero che il provvedimento ha di fatto inglobato un disegno di legge che da tempo camminava in Parlamento secondo le normali procedure.
Il governo Meloni ha giustificato il blitz per “evitare ulteriori dilazioni al Senato” ma la Corte Costituzionale – si ricorda nel parere – ha più volte ribadito che il ricorso al decreto-legge non può fondarsi su una “apodittica enunciazione dell’esistenza delle ragioni di necessità e di urgenza”.
In più, sottolineano, il decreto è eterogeneo. In concreto, significa che si tratta di uno zibaldone di questioni che nulla hanno a che fare l’una con l’altra dalla sicurezza urbana all’ordinamento penitenziario, dal terrorismo alla canapa
questo è ulteriore vizio di legittimità costituzionale per i decreti legge.
Ci sono almeno una trentina di profili critici o problematici. Fra questi, di certo la norma che amplia a dismisura l’operatività degli agenti segreti e ne decreta la non punibilità, consentendo loro anche di creare gruppi terroristici o eversivi da zero, così come le aggravanti di luogo e contesto per il dissenso, le cosiddette norme anticortei. Stessi dubbi di incostituzionalità suppone il nuovo reato di “terrorismo della parola”, secondo cui diventa punibile anche la sola detenzione di non meglio specificato “materiale propedeutico al terrorismo”.
Per la Cassazione, la norma rischia di anticipare eccessivamente la soglia di punibilità, criminalizzando condotte preparatorie che potrebbero essere distanti e slegate dall’effettiva commissione di un reato. Profili critici per i giudici hanno anche le norme di criminalizzazione del dissenso in carceri e cpr – i nuovissimi reati di rivolta carceraria e resistenza passiva – le aggravanti previste per manifestazioni e reati “dentro e fuori le stazioni ferroviari e dalla metro”, così come per le occupazioni di case.
Particolare allarme destano le norme per le detenute madri, giustificate in base alla dottrina sul “diritto penale d’autore”, che rischia di colpire le persone non per la condotta illecita specifica, ma per il loro status sociale o l’appartenenza a determinate categorie, violando i principi di uguaglianza e non discriminazione.
Pasticciate secondo la Cassazione sono anche gli articoli che hanno a che fare con la lotta antimafia e in materia di misure di prevenzione. Da quella che depotenzia le interdittive, dando al prefetto la facoltà di limitarne gli effetti qualora accerti che “verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento al titolare dell’impresa individuale e alla sua famiglia” a quella che prevede il licenziamento in tronco di tutti i dipendenti che
abbiano parentele con il destinatario o precedenti condanne per mafia
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Giugno 27th, 2025 Riccardo Fucile
IL PARTITO DI PETER MAYAR AVANTI DI SETTE PUNTI, SI VOTERA’ TRA UN ANNO: “IL REGIME DI ORBAN DEVE SPARIRE”
Nei giorni scorsi, 1,1 milioni cittadini hanno espresso la propria opinione tramite schede distribuite in tutto il Paese, rispondendo a 13 domande relative a imposte, pensioni, sanità, pubblica istruzione e anche questioni internazionali.
Oltre il 90% ha sostenuto il programma del Tisza, 98% l’appartenenza dell’Ungheria all’Ue e alla Nato, malgrado la propaganda massacrante del governo di Viktor Orban contro Bruxelles.
Più esigua, ma pur sempre maggioranza, pari al 58%, quella di chi sostiene l’adesione dell’Ucraina all’Ue: segno che la questione divide l’opinione pubblica ungherese.
Peter Magyar ha detto: “Visto che la questione divide la nostra società, una volta al potere, organizzeremo un referendum vincolante giuridicamente su questa questione”.
Secondo gli ultimi sondaggi, il partito Tisza avanza ormai con un vantaggio di 7 punti percentuali sul partito di destra Fidesz di Orban (46% contro 39%), tutti gli altri partiti difficilmente passeranno lo sbarramento di 5%.
Molti attivisti del Tisza che raccoglievano voti nella consultazione, sono stati aggrediti fisicamente e verbalmente, in modo organizzato da militanti del partito di Orban, secondo quanto denuncia Magyar, che interpreta questi gesti come segno del nervosismo del partito di governo. “Siamo ormai la maggioranza, il Tisza vincerà le elezioni nell’aprile del 2026, il regime di Orban deve sparire”, ha detto Magyar.
(da agenzie)
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Giugno 27th, 2025 Riccardo Fucile
“UN’ALTRA UNGHERIA E’ POSSIBILE”
Nel centro di Budapest all’alba è apparso un nuovo poster firmato dalla street artist
Laika. “Another Hungary is Possible (“Un’altra Ungheria è possibile”) il titolo: l’opera raffigura il premier ungherese Viktor Orbàn in versione queer, con gonna e tacchi, mentre sventola una bandiera arcobaleno, come se sfilasse al Pride.
Sulla fine della gonna si legge la scritta “Free Maja”, in omaggio alla militante antifascista non-binary detenuta nel Paese. Un messaggio provocatorio lanciato dall’artista alla vigilia del Budapest Pride che il governo ungherese ha cercato di ostacolare.
Non è la prima volta che Laika prende di mira l’esecutivo di
Orban: tra le sue opere più celebri, il poster che ritraeva l’eurodeputato Jozsef Szajer, suo fedelissimo, colto in fragrante all’interno di un’orgia omosessuale durante il confinamento da Covid, e Ila Resisti, a sostegno della militante antifascista Ilaria Salis, oggi eurodeputata. Le opere precedenti però erano state realizzate in Italia.
“La street art ha il potere di mostrare l’impossibile, l’utopico. Rappresentare Orban che marcia per i diritti civili è certo una provocazione, ma non atta a ridicolizzare. È più che altro un sogno: quello di un’Ungheria in cui il premier non demolisce lo Stato di diritto con leggi liberticide, non reprime le piazze, ma scende in strada accanto alla comunità LGBTQIA+. Un premier rispettoso dei diritti umani”, ha dichiara Laika.
Secondo l’artista, “l’Ungheria sta attraversando una preoccupante deriva autoritaria, con una progressiva erosione delle garanzie democratiche”. Laika ha denunciato la tolleranza, se non il sostegno, da parte del governo verso gruppi neofascisti come quello di HVIM (Sixty-Four Counties Youth Movement), a cui il premier ha concesso l’autorizzazione a sfilare nelle stesse vie del Pride.
A maggio, il Parlamento Europeo ha chiesto formalmente che il Budapest Pride si svolgesse senza ostacoli. “Tra i 20 Paesi firmatari della mozione non figura l’Italia, che invece – ha affermato l’artista – guarda con favore al ‘modello ungherese’”. “Essere qui oggi è un rischio, ma è anche necessario. È importante non solo per la comunità LGBTQIA+ ungherese, ma per quella di tutta l’Europa” ha concluso Laika.
(da agenzie)
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Giugno 27th, 2025 Riccardo Fucile
“OCCORRE UN INTERVENTO URGENTE CONTRO L’USO ILLEGALE DI SPYWARE”
La Federazione europea dei giornalisti (Efj), assieme ad altre organizzazioni tra cui Amnesty International, ha scritto una lettera aperta alle istituzioni dell’Ue, a cui ha chiesto un intervento urgente contro l’uso illegale di spyware, alla luce dello scandalo Paragon. Lo spionaggio ai danni dei giornalisti di Fanpage.it, Francesco Cancellato e Ciro Pellegrino, e di Roberto D’Agostino di Dagospia, hanno spinto lo Spyware Coordination Group, una coalizione di organizzazioni della società civile e di giornalisti che si batte per la trasparenza, la responsabilità e la tutela dei diritti fondamentali in relazione alle tecnologie spyware ad alzare la voce con l’Ue e chiedere azioni concrete.
“All’inizio di quest’anno, i media hanno rivelato che diversi giornalisti italiani e attivisti per i diritti umani erano stati presi di mira con Graphite, uno spyware sviluppato da Paragon Solutions”, si legge nella lettera. “Secondo quanto riportato, le vittime erano venute a conoscenza del bersaglio in seguito a una notifica ufficiale dell’intrusione da parte di WhatsApp. Ciò ha indotto le autorità italiane ad avviare un’indagine ufficiale. Nei rapporti di marzo e giugno, il Citizen Lab ha confermato queste affermazioni e ha fornito ulteriori prove che lo spyware Graphite potrebbe essere stato acquisito e distribuito in diversi Stati membri, tra cui Italia, Danimarca e Cipro, colpendo probabilmente un numero maggiore di vittime rispetto ai 90 obiettivi notificati ufficialmente da WhatsApp. Preoccupante è anche il fatto che i rapporti evidenziano uno schema che prende di mira i gruppi per i diritti umani, i critici del governo e i giornalisti, sottolineando la necessità di un’azione coordinata dell’Ue per affrontare queste violazioni e proteggere i diritti fondamentali in linea con standard internazionali e regionali”, denunciano. “Diversi Stati membri, tra cui Spagna, Italia e Cipro, sarebbero emersi come centri nevralgici per l’industria dello spyware, con un’alta concentrazione di venditori che operano da questi Paesi”.
Efj sottolinea l’assenza di un quadro normativo adeguato a contrastare gli abusi. Le raccomandazioni emanate a seguito dello scandalo Pegasus infatti, non sono state osservate e le ultime vicende hanno sollevato “notevoli preoccupazioni riguardo al commercio e alla proliferazione di spyware commerciali all’interno dell’Ue, nonché alle sue potenziali implicazioni sui diritti umani”. “Dato il rischio posto dagli spyware ai diritti fondamentali, tra cui il diritto alla privacy, lo stato di diritto, il dibattito pubblico, la libertà e il pluralismo dei media e l’integrità degli spazi civici, invitiamo rispettosamente le istituzioni dell’Ue a dare priorità ad azioni politiche normative
immediate per affrontare le sfide degli spyware commerciali”, prosegue la lettera.
Attualmente, le tecnologie spyware “sono semplicemente troppo invasive per essere conformi al diritto internazionale dei diritti umani (IHRL), come sottolineato dal Garante europeo per la protezione dei dati e dal Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla promozione e la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali nella lotta al terrorismo”, si legge ancora. Al di là delle singole iniziative sparse qua e là, l’assenza di una risposta coordinata europea “sta creando lacune critiche in relazione al commercio di questi strumenti e alla gestione delle vulnerabilità della sicurezza informatica che incentivano la proliferazione
di spyware commerciali e il loro uso illegale da parte dei governi”.
Pertanto, Efj chiede alcune azioni immediate: “la pubblicazione della comunicazione della Commissione, attesa da tempo, per chiarire i confini tra il diritto dell’Ue e la sicurezza nazionale, l’impegno formale della Commissione nel processo Pall Mall e la partecipazione a tutti gli sforzi internazionali e regionali per affrontare la minaccia rappresentata dai software spia commerciali, la piena attuazione delle raccomandazioni del Comitato PEGA, comprese quelle relative ad aree di competenza dell’Ue come la regolamentazione del mercato interno, la gestione delle vulnerabilità della cybersecurity e la garanzia che gli Stati membri forniscano rimedi efficaci alle vittime”.
(da agenzie)
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Giugno 27th, 2025 Riccardo Fucile
OTTO MESI DI SPIONAGGIO DA PARTE DELL’ANTITERROROSMO IN UN PARTITO CHE SI CANDIDA ALLE ELEZIONI
Nel maggio scorso avevamo raccolto la denuncia di Potere al popolo, che aveva
scoperto un poliziotto infiltrato nelle fila del partito a Napoli. Su quel caso sono state presentate 3 interrogazioni parlamentari a cui il governo di Giorgia Meloni non ha ancora risposto. Ma dai documenti in possesso di Fanpage.it siamo riusciti a risalire all’intera operazione messa in campo dalla Direzione Centrale della polizia di prevenzione, l’antiterrorismo, ai danni di un partito che si candida regolarmente alle elezioni politiche. Abbiamo scoperto infatti che le infiltrazioni ci sono state in diverse città italiane: Milano, Bologna e Roma, oltre che Napoli. Nelle nostre ricerche, una volta identificati i poliziotti infiltrati in Potere al Popolo, abbiamo avvisato i responsabili e i dirigenti locali dell’organizzazione, riuscendo a trovare tutti i riscontri e le
prove di una attività di spionaggio ed infiltrazione che è durata almeno 8 mesi.
Da Napoli a Milano: così i poliziotti si sono infiltrati nel partito
Grazie all’analisi dei documenti in nostro possesso abbiamo ricostruito tutti gli spostamenti dei 5 agenti di polizia che si sono infiltrati in Potere al Popolo. Appartengono tutti al 223esimo corso allievi agenti di polizia, e dopo un periodo di prova, che hanno trascorso in diverse Questure italiane, nel dicembre del 2024 sono stati trasferiti tutti alla Direzione centrale della polizia di prevenzione, ovvero all’antiterrorismo. Non un solo infiltrato, non un caso singolo, ma una vera e propria operazione articolata. I 5 agenti hanno iniziato la loro infiltrazione in Potere al popolo, spesso attraverso l’organizzazione giovanile “Cambiare rotta”, contemporaneamente, tra ottobre e novembre del 2024, e solo a dicembre del 2024 hanno ricevuto il trasferimento ufficiale all’antiterrorismo.
A Milano i poliziotti infiltrati sono stati due. “Il primo soggetto si è avvicinato a Cambiare Rotta nell’università statale di Milano, all’inizio dell’anno accademico, nel mese di ottobre” ci racconta Samuele Ortolini, di Cambiare Rotta Milano. La loro è l’organizzazione giovanile che fa capo all’area politica di Potere al Popolo. Un’associazione che si presenta anche alle elezioni studentesche nei principali atenei italiani. “Si è presentato come uno studente fuori sede che aveva particolarmente a cuore il tema del carovita nella città di Milano. Ha partecipato alla contestazione che abbiamo fatto al teatro dal Verme di Milano a Carlo Calenda ed a molte altre manifestazioni. Il secondo soggetto invece si è avvicinato a Cambiare Rotta nell’università Bicocca, nel mese di dicembre” spiega Ortolini.
Le immagini che abbiamo ritrovato mostrano il primo poliziotto nel momento del suo giuramento in polizia, al termine del 223esimo corso allievi agenti di polizia, e poi in manifestazione a Milano in diverse occasioni. Una di queste è la contestazione a Carlo Calenda al teatro dal Verme di Milano. E poi ancora in piazza contro il carovita e per la Palestina, con la presenza anche alla manifestazione nazionale del 30 novembre scorso. Era arrivato all’antiterrorismo dopo un periodo di prova alla Questura di La Spezia, presso il commissariato di Sarzana. Il secondo soggetto invece era più schivo: “Mostrava diffidenza a mostrarsi nei video e nelle foto – sottolinea l’attivista di Cambiare Rotta – perché diceva di non voler allarmare i suoi genitori”.
Eppure di lui siamo riusciti a trovare un video di una contestazione all’onorevole Tommaso Foti di Fratelli d’Italia, all’università Bicocca di Milano. Compare per pochi secondi, dopo si copre il volto con lo striscione. “Nei momenti comuni non hanno mai esplicitamente dichiarato di conoscersi, ma erano molto affiatati, con la scusa che erano entrambi studenti fuori sede hanno socializzato fin da subito” spiega Ortolini. Ma dopo aver avvisato gli attivisti di Potere al popolo di Milano, grazie al controllo delle foto sugli smartphone degli attivisti, siamo riusciti a trovare alcune foto dei due poliziotti infiltrati insieme ad una manifestazione. Il secondo poliziotto, anche lui proveniente dal 223esimo corso, aveva svolto il periodo di prova addirittura al Viminale, al Ministero degli Interni, per poi essere trasferito a dicembre 2024 all’antiterrorismo. “Quando ci avete informato della loro reale identità, e cioè del fatto che fossero poliziotti, abbiamo ricostruito andando a ritroso la loro identità, e abbiamo notato molte somiglianze con il caso emerso a Napoli. Erano presenti nelle iniziative di lotta, ma al di fuori di queste non partecipavano a momenti di socialità” conclude Ortolini.
Sempre al 223esimo corso allievi agenti appartiene anche il poliziotto infiltrato a Bologna in Potere al Popolo. Di lui
abbiamo anche le immagini in divisa, oltre ai video che lo mostrano in piazza dietro lo striscione di Pap a urlare cori e slogan. Per lui i mesi di prova sono stati alla Questura di Modena, per poi arrivare alla Direzione centrale dell’antiterrorismo. Come tutti gli altri ha 21 anni, nato nel 2004, ed è stato molto attivo a Bologna da dicembre 2024, prima contro il carovita ed il costo dei biglietti dei trasporti e poi nell’ambito universitario. Ha partecipato alla campagna elettorale per le elezioni studentesche e più di una foto lo ritrae ad un banchetto elettorale della lista di Cambiare Rotta. “Sempre nell’autunno del 2024, come era successo anche a Napoli, un altro poliziotto si infiltra nella nostra organizzazione a Bologna” ci spiega Giuliano Granato, portavoce nazionale di Potere al popolo. “Comincia a partecipare all’organizzazione giovanile Cambiare rotta, partecipa a tutti i momenti, da quelli locali a quelli nazionali, ad esempio è stato presente al corteo per la Palestina il 30 novembre scorso a Roma. E partecipa molto attivamente alla campagna elettorale all’università per l’elezione del consiglio nazionale studentesco universitario, CNSU” spiega.
A maggio di quest’anno avviene però una cosa clamorosa, che oggi possiamo ricostruire dettagliatamente. È il 27 maggio e Potere al popolo insieme ai collettivi universitari scende in piazza a Bologna per contestare la presenza di Giorgia Meloni in città. Lo stesso giorno Fanpage.it pubblica la notizia di un poliziotto infiltrato in Potere al popolo a Napoli. Dalle immagini che abbiamo ritrovato, il poliziotto infiltrato a Bologna è in quel corteo. Si sbraccia, urla slogan. “Siamo tutti antifascisti” dice, battendo le mani. Ma soprattutto è lì mentre dal megafono parlano del caso del poliziotto infiltrato a Napoli. L’agente dell’antiterrorismo prosegue la manifestazione, non si stacca. Ma sarà il suo ultimo atto. “Nel momento in cui c’è anche una
denuncia pubblica in quella piazza di Bologna, dell’episodio di Napoli, questo soggetto dall’indomani sparisce da un momento all’altro, non abbiamo avuto più alcuna sua notizia dal giorno successivo. Quando ci avete avvisato della sua reale identità è stato semplice capire il perché fosse sparito” racconta Granato.
Sono in totale 5 gli agenti del 223esimo corso allievi agenti di polizia che sono stati trasferiti alla Direzione Centrale della polizia di prevenzione. Abbiamo ricostruito i volti e gli spostamenti di tutti e 5, ed abbiamo scoperto che tutti avevano un unico target: Potere al popolo. A Roma il tentativo di
infiltrazione è però fallito, soprattutto grazie alla scrupolosità delle attiviste di Cambiare Rotta e Potere al popolo e, evidentemente, per le condotte un po’ maldestre dell’agente in questione. Per lui dopo il giuramento c’è stato un periodo di prova alla Questura di Cremona e poi il trasferimento alla Direzione centrale a dicembre 2024. Nel mentre ha provato ad infiltrarsi alla Sapienza. “Questo soggetto si è avvicinato a noi tramite un banchetto informativo elettorale, Cambiare Rotta si era candidata alle elezioni studentesche di ateneo, alla Sapienza” ci racconta Anita Palermo di Potere al popolo di Roma. “E’ sembrato molto strano perché appunto è spuntato dal nulla, non lo aveva mai visto nessuno, diceva di essere iscritto alla Sapienza dall’anno precedente, più o meno i volti, facendo politica all’università, li riconoscevo, e quindi mi aveva proprio stranito che questa persona non fosse mai comparsa, prima di quel momento. Intorno a novembre ha gravitato una o due settimane intorno a noi, e poi quando si è accorto che il nostro è stato un atteggiamento di chiusura, ha smesso di cercarci” spiega l’attivista di Pap. L’agente fa tante domande, forse troppe. Partecipa anche ad una assemblea a Giurisprudenza, di cui abbiamo una foto che lo identifica, ed addirittura siede in prima fila ed interviene. Un comportamento che viene reputato troppo
strano per una persona che non si era mai vista in nessuna iniziativa politica all’università di Roma. “Quando ci avete avvisato del fatto che questo soggetto fosse un poliziotto, abbiamo ricostruito. Il fatto di avere l’informazione compiuta della reale identità di questo soggetto ha avvalorato la nostra tesi, che era appunto una tesi di sospetto nei confronti di una persona che aveva un atteggiamento troppo strano” ci dice Palermo.
Un’operazione su larga scala: “Vogliamo sapere chi l’ha ordinata”
Quella che abbiamo ricostruito è probabilmente una operazione su larga scala di spionaggio e infiltrazione di Potere al popolo, partito che si presenta da anni alle elezioni politiche, e dell’associazione Cambiare Rotta, che si presenta alle elezioni del consiglio nazionale degli studenti universitari, che è un organo del Ministro dell’Istruzione, e alle elezioni dei consigli di ateneo, nelle principali università italiane. Dopo il primo caso denunciato da Potere al popolo a Fanpage.it, sono state presentate 3 interrogazioni parlamentari, una del Pd, una di Avs e una del Movimento 5 Stelle, a cui il governo non ha ancora risposto. Nessun commento è stato fatto dal Ministero dell’Interno. L’unica replica fu affidata alle agenzie da “fonti qualificate di polizia” che affermavano però cose dettagliate e in parte già smentite.
La prima era che nessuna Procura aveva mai autorizzato una attività simile, quindi immaginiamo che ancora oggi, davanti ad una operazione così grande, non ci siano autorizzazioni di sorta da parte della magistratura. La seconda fu che si trattava di un caso isolato basato su iniziativa personale. In ultimo si faceva cenno al fatto che nel caso del poliziotto di Napoli, sui suoi profili social erano presenti le foto del giuramento in polizia. Circostanza falsa, visto che le foto di quel poliziotto in divisa,
così come le altre trovate da Fanpage.it, non erano affatto sui profili social degli agenti, che invece erano assolutamente blindati, chiusi e senza nessun riferimento né fotografico, né di altro tipo alla reale attività dei soggetti in questione.
“Noi chiediamo di sapere innanzitutto chi ha ordinato questa operazione, perché non regge più questo silenzio, il governo deve dare spiegazioni assolutamente” dice Giuliano Granato. Guardando le date di questa operazione non si può non pensare ad altre operazioni che si sono rivelate oscure e su cui ancora oggi il governo è incapace di fare chiarezza. Le infiltrazioni in Potere al popolo iniziano nell’autunno del 2024, di lì a pochissimo saranno infettati con lo spyware Paragon i telefoni del direttore di Fanpage.it Francesco Cancellato, del collega Ciro Pellegrino, e dei fondatori di Mediterranea Saving Humans, Luca Casarini e Beppe Caccia. “Ci indica un percorso di repressione che questo governo sta intraprendendo e lo sta intraprendendo con, cito testualmente le parole di Giorgia Meloni, “metodi da regime”. Noi facciamo un appello a quelle che sono le forze sociali, democratiche, le associazioni, ma anche i singoli cittadini e cittadine, a mobilitarsi affinché in questo paese si possa agire politicamente in modo democratico, senza dover avere paura delle infiltrazioni da parte della polizia” sottolinea Anita Palermo.
Da quanto abbiamo potuto ricostruire, mentre l’infiltrato di Roma, dopo il suo tentativo fallito, ha fatto perdere immediatamente le sue tracce, l’agente infiltrato a Bologna è scomparso dal 27 maggio scorso, quelli di Milano invece sono andati via dal capoluogo lombardo il 23 ed il 27 maggio scorso, ufficialmente per un ritorno a casa alla fine dei corsi. Solo uno era rimasto in contatto con l’organizzazione, fino alla manifestazione del 21 giugno scorso contro il riarmo europeo a Roma. In quella occasione abbiamo provato ad intercettarlo, con
l’aiuto degli attivisti di Potere al popolo, ma non si è presentato all’appuntamento che gli avevamo dato. Dal 22 giugno i telefoni di tutti gli agenti infiltrati risultano staccati. “Le nuove scoperte ci danno ancora ulteriori preoccupazioni” commenta Giuliano Granato. “Libertà di riunione, libertà di associazione e libertà di espressione, sono fondamenti della nostra democrazia, sono scritti nella carta costituzionale, e chiunque abbia autorizzato questa operazione, chiunque l’abbia ordinata, sta calpestando le basi stesse della nostra costituzione” conclude il portavoce nazionale di Potere al popolo.
(da Fanpage)
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Giugno 27th, 2025 Riccardo Fucile
VUOLE EMERGERE COME GARANTE DI STABILITA’, RESTARE FUORI DAL LOGORAMENTO BELLICO E OFFRIRE UN’ALTERNATIVA SOLIDA ALL’EGEMONIA OCCIDENTALE
Mentre Israele bombarda le infrastrutture nucleari iraniane e gli Stati Uniti battezzano la loro “Operation Midnight Hammer”, la Cina alza la voce, ma senza alzare le mani. Nei comunicati ufficiali di Pechino, si leggono parole come “violazione della Carta delle Nazioni Unite”, “instabilità globale” e “rispetto per la sovranità”. Ma in filigrana si legge altro. La costruzione di una reputazione alternativa: quella di superpotenza che non ha bisogno di intervenire militarmente per modellare il mondo, l’unica interessata al rispetto del diritto internazionale mentre nessuno sembra più tollerarlo.
La Cina non sta con Teheran per ideologia, né contro Israele per convinzione. Sta con se stessa. Il conflitto, se limitato, è funzionale: allontana gli americani dall’Asia, fa crollare la fiducia nei mediatori occidentali, apre spazi diplomatici che Pechino può riempire con la sua narrativa multipolare e “responsabile”
Petrolio, BRI e Stretto di Hormuz: il vero campo di battaglia è energetico
La dipendenza cinese dal Medio Oriente non è un’opzione: è un assioma. Più del 40% del petrolio importato dalla Cina transita attraverso lo Stretto di Hormuz. Iran, Arabia Saudita, Emirati: sono tutti fornitori. Una crisi prolungata in quella zona colpisce Pechino direttamente al cuore – economico, energetico e infrastrutturale.
Nonostante l’Iran abbia minacciato a più riprese la chiusura dello Stretto dopo i raid americani e israeliani, la Cina non ha spinto né sostenuto questa scelta. Pechino, pur difendendo Teheran a parole, ha lasciato volutamente aperta quella valvola geopolitica, da cui transita circa il 20% del greggio mondiale. Il segnale è chiaro: la Cina non vuole destabilizzare il sistema di cui è diventata pilastro silenzioso. Sa che un’impennata del prezzo del petrolio manderebbe in recessione mezzo pianeta, a partire dai suoi partner commerciali. Invece di incendiare il mercato, lo tiene sul filo. È una dimostrazione di forza al contrario: potremmo stringere, ma non lo facciamo – per ora. E così dimostra di avere leve globali senza doverle usare.
Qui infatti entra in gioco la doppia logica cinese: da un lato, condanna gli attacchi occidentali per non perdere l’accesso alle fonti energetiche; dall’altro, sfrutta la destabilizzazione per ridurre la presenza americana nella regione, accrescere la propria e lanciare segnali. Una guerra lunga, ma non catastrofica, significherebbe anche maggior margine di manovra per la Belt and Road Initiative, oggi in stallo per instabilità e sanzioni. In gioco non c’è solo il greggio: c’è la legittimità a essere potenza sistemica.
Strategia a due volti: moralismo in pubblico, realismo in privato
Ufficialmente, la Cina è “preoccupata”. Sostiene l’ONU, invita al dialogo, offre addirittura bozzetti di mediazione multilaterale. Ma non è coinvolta in alcuna trattativa concreta. La sua vera influenza si esercita altrove: nella logistica, nella finanza, nella
tecnologia dual-use.
Con l’Iran, la Cina ha una relazione non ideologica, ma funzionale. Gli ha aperto le porte ai BRICS e alla SCO, ha firmato un accordo venticinquennale di cooperazione su energia, finanza, telecomunicazioni. Non difende Teheran: lo integra nella propria visione alternativa dell’ordine mondiale. Come con la Russia, anche con l’Iran la relazione è guidata non dalla fiducia, ma dalla convenienza – e dalla comune ostilità verso l’unilateralismo americano.
Il conto ucraino: quanto costa il fronte che logora l’Occidente
Secondo il Congressional Budget Office, dal febbraio 2022 a oggi, gli Stati Uniti hanno speso in Ucraina oltre 175 miliardi di dollari, tra aiuti militari, economici e umanitari. Di questi, più di 90 miliardi sono confluiti direttamente in forniture belliche: sistemi missilistici HIMARS, munizioni d’artiglieria, droni da ricognizione, blindati, sistemi antiaerei Patriot e Storm Shadow, oltre a ingenti risorse per l’addestramento delle truppe e il supporto logistico. Altri 60 miliardi sono stati destinati al sostegno al bilancio dello Stato ucraino, al funzionamento delle istituzioni e ai servizi di base, mentre una quota crescente va alla ricostituzione delle scorte del Pentagono, che si stanno esaurendo.
Ma oltre al costo diretto, c’è il prezzo strategico: Washington ha consumato una porzione critica delle sue riserve di missili antiaerei e munizioni a guida di precisione, che richiedono anni per essere rimpiazzate. Secondo la RAND Corporation, l’industria bellica americana produce a un ritmo troppo lento per sostenere contemporaneamente Ucraina, Israele e – ipoteticamente – Taiwan. Ogni dollaro speso oggi a est dell’Europa è un dollaro in meno per contenere la Cina nel Pacifico. E Pechino lo sa. Osserva. E aspetta.
Il paradosso degli alleati asiatici: la Nato ha i muscoli, ma non le
braccia
La mossa più interessante degli ultimi giorni non viene da Teheran, né da Washington. Viene da Tokyo e Seoul. I due principali alleati asiatici della Nato hanno disertato il summit in Olanda, smentendo la narrativa occidentale sulla compattezza della coalizione tra Indo-Pacifico e Occidente, e sul cordone a difesa del Mar Cinese.
Dietro le formule diplomatiche si cela un dato strategico: Giappone e Corea non vogliono essere trascinati in un’altra guerra americana, tanto meno se condotta contro un partner energetico rilevante e in un contesto percepito come troppo lontano dalla sicurezza regionale. In gioco c’è anche la tenuta di AUKUS e del sistema di alleanze regionali, già in difficoltà. La Cina lo sa, e testa i limiti della deterrenza americana, proprio dove dovrebbe essere più salda.
Taiwan sullo sfondo: Riprendersi il mondo senza sparare un colpo
Come nel 1997, quando Hong Kong tornò alla Cina senza un colpo di pistola, oggi Pechino punta a riconfigurare l’ordine globale non con le guerre, ma con le attese, le connessioni economiche, la pressione strategica silenziosa. Non conquista: si fa lasciare spazio. E quando arriva, il vuoto è già stato creato dagli altri.
Secondo questa logica, la Cina non ha bisogno di attaccare Taiwan. Le basta osservare e preparare. Mentre l’America spreca risorse in Medio Oriente e nell’Europa orientale, Pechino accumula tempo, mezzi e narrativa. Non è un caso che nel linguaggio dei media statali sia tornato il concetto di “riunificazione inevitabile”. La strategia non è bellica, è logorante: intimidazione a bassa intensità, isolamento diplomatico, dominio informativo.
Se Washington non può garantire la sicurezza energetica dei suoi partner, né quella territoriale dei suoi alleati europei, come potrà garantire la sopravvivenza di Taiwan in caso di crisi vera? La domanda si insinua nell’opinione pubblica e tra gli alleati. E Pechino si assicura che resti lì, come un dubbio strategico, alimentato giorno dopo giorno dalla distrazione americana.
Afghanistan: 20 anni di scacchi sotto gli occhi del weiqi cinese
In Afghanistan, gli Stati Uniti hanno speso oltre 2.000 miliardi di dollari – circa 300 milioni al giorno per vent’anni – per condurre una guerra che, alla fine, ha restituito il potere agli stessi talebani da cui era partita nel 2001. Un conflitto pensato con la logica degli scacchi: attacco frontale, rovesciamento del re, occupazione del centro. Ma il terreno era quello del weiqi, il gioco cinese dell’accerchiamento, della pazienza strategica, dell’erosione laterale.
Mentre la NATO bombardava, la Cina osservava e costruiva. Non ha mai sparato un colpo, ma ha circondato il campo con infrastrutture, investimenti e accordi a lungo termine. Già dal 2012, Pechino si inseriva nei vuoti lasciati dall’ISAF: miniere di rame, giacimenti d’oro, terre rare strategiche, zone industriali al confine con lo Xinjiang. Ha sfruttato la stabilità ottenuta a caro prezzo dagli occidentali per pianificare la propria penetrazione morbida, senza provocare, senza esporsi, ma tracciando linee invisibili come nel weiqi.
Non guerra fredda, ma pace calda: il commercio come trincea
Da circa 20 anni, Wang Jisi della Peking University, dice che “piuttosto che parlare di guerra fredda tra Cina e Occidente, bisognerebbe parlare di pace calda”. La Cina non fa la guerra fredda, fa la pace calda del commercio, dei contratti, delle materie prime. È tra i primi partner economici degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e perfino del Giappone e della Corea del Sud – paesi con cui ha tensioni crescenti su Taiwan, sul Mar Cinese Meridionale, sui diritti umani. Ma il paradosso è questo:
sono loro a dipendere da Pechino, non il contrario. Sulle terre rare, ad esempio – materiali essenziali per le batterie, l’elettronica avanzata e le tecnologie militari – la Cina controlla oltre il 90% della lavorazione globale.
Ha costruito un sistema a prova di sanzione, una rete che collega Iran, Russia, Africa, Asia Centrale e Sud America, da cui può rifornirsi o a cui può vendere se l’Occidente chiude una porta. Quando Canberra ha bloccato l’export di carbone, la Cina ha virato sul carbone indonesiano. Quando Washington ha imposto dazi sui chip, Pechino ha investito miliardi nell’autonomia tecnologica e nei semiconduttori “di Stato”. È una strategia a ventaglio, non a muro: se una sponda cede, ce n’è sempre un’altra a cui appoggiarsi.
Il grande gioco cinese: caos controllato, silenzio utile
La Cina non cerca di vincere le guerre. Cerca di vincere nel mondo che le guerre lasciano dietro di sé. È l’unica potenza globale a non essere impantanata in alcun conflitto armato da decenni. Non certo perché sia neutrale, ma perché cerca di instaurarsi agli occhi del mondo come l’unica grande potenza responsabile. Questo accresce il suo soft power.
L’obiettivo non è salvare l’Iran, ma dimostrare che può sopravvivere alle guerre senza logorarsi, cercando di far passare un unico messaggio, ovvero che chi si schiera con lei avrà almeno una certezza: quella di non dover combattere. Quale sia il prezzo da pagare in termini di libertà, questo è un altro discorso. Ma è un discorso che riguarda ogni forma di imperialismo – che sia americano, russo o cinese – quando pretende di esportare la democrazia o ribaltare un regime. E mentre le democrazie liberali si spaccano, si indeboliscono, si inseguono in una sterile battaglia tra moralismo e interessi, la Cina capitalizza ogni crisi per rafforzare la propria narrativa: ordine, stabilità, continuità. A qualunque costo.
Se l’Europa resta divisa, disillusa e assente, non potrà più scegliere di stare dalla propria parte, né dalla parte della civiltà democratica che dice di voler difendere. Perderà l’iniziativa, il linguaggio e, infine, la possibilità di pesare. Perché nel mondo multipolare che si sta formando, la neutralità è già una forma di resa.
(da agenzie)
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Giugno 27th, 2025 Riccardo Fucile
CI SERVONO 300 CARRI ARMATI E 1000 MEZZI CORAZZATI, MANCANO DRONI PER ATTACCARE E SISTEMI ADEGUATI PER CONTRASTARLI (CANNONI A RAGGIO LASER, CONTROMISURE ELETTRONICHE E CYBER) … IL SISTEMA ANTI-AEREO E ANTI-MISSILISTICO E’ DEBOLE, L’UCRAINA RIESCE AD ABBATTERE IL 90% DEI MISSILI RUSSI IN ARRIVO SUL SUO TERRITORIO. ISRAELE HA PERCENTUALI MIGLIORI. L’ITALIA, IN QUESTO SENSO, HA DIFESE RIDICOLE
Ogni ragionamento sulle prossime spese militari in ambito Nato non può che partire
dall’analisi dell’esistente, lo studio delle guerre in corso, e il calcolo delle necessità future. […] Che cosa ci manca? Innanzitutto le truppe. Si pensi solo che ai tempi della Guerra Fredda, la sola Italia doveva garantire una massa di 22 brigate operative dell’esercito, pari a 220 mila soldati armati e schierati, in gran parte nel Nord-Est.
Oggi i numeri sono drasticamente calati. L’Italia, oltre 30 mila unità in Marina e circa 40 mila in Aeronautica, ha 90 mila soldati di terra, di cui 60 mila operativi. Simili sono i numeri francese, tedesco o britannico. Intanto la Russia si prefigge di schierare in tempi brevi un esercito di 1 milione 600 mila effettivi. Ecco perché uno dei capitoli sarà il rafforzamento degli organici: per l’Italia è allo studio l’arruolamento di 40 mila soldati e soldatesse in più, ma anche una riserva di almeno 10 mila ex militari, freschi di addestramento e veloci da rimettere eventualmente in linea.
Per equipaggiarli a dovere, c’è una commessa affidata a un consorzio italo-tedesco tra Leonardo e Rheinmetall: 300 carri armati più 1000 mezzi corazzati per il trasporto truppa, da costruire in una fabbrica a La Spezia, costo stimato circa 10 miliardi spalmati in diversi anni. Il secondo clamoroso deficit riguarda la difesa dal cielo
Dice il generale Giorgio Battisti, presidente della commissione militare del Comitato Atlantico Italiano, un think-tank collegato alla Nato: «La guerra in Ucraina insegna che occorre difendere i soldati da una vera e propria caccia all’uomo fatta con sciami di droni a basso costo». Fino a qualche tempo fa, la guerra dei droni era particolarmente sofisticata e gli apparecchi senza pilota molto costosi. Ora non è più così. I droni turchi, iraniani, russi, ucraini sono basici, poco costosi, prodotti a ritmo industriale, e però terribilmente letali.
Ecco perché l’Italia sta correndo ai ripari con una coproduzione italo-turca per produrre droni in casa. Dai droni però ci si deve anche difendere. E non avrebbe senso sparare un missile che costa 1 milione di euro, progettato per tirare giù un aereo nemico, contro un drone che vale pochi spiccioli. Tanto più che di questi droni ne possono arrivare più di mille al giorno e quei missili sono prodotti con il contagocce.
Una soluzione verrà da cannoni a raggio laser, in avanzata fase di sperimentazione in diversi Paesi. Per difendersi, si sperimentano contromisure elettroniche e cyber, utili a confondere il drone nemico. Altra falla delle forze europee è la difesa anti-aerea e anti-missilistica. L’Ucraina riesce ad abbattere il 90% dei missili russi in arrivo sul suo territorio. Israele ha percentuali migliori. L’Italia, la Francia, la Germania, in questo senso hanno difese francamente ridicole.
Ci sono due progetti comuni della Nato che faticosamente dovrebbero invertire la situazione. Il primo si chiama “Sky Shield”, avviato dalla Germania nel 2022, e ad oggi vi partecipano 25 Paesi europei: hanno scelto la tecnologia americana dei missili Patriot ed è già operativa una fabbrica in Germania che li produce su licenza. Italia e Francia hanno invece tenuto duro sulla tecnologia italo-francese del Samp/T, ma mancando grosse commesse questo programma cammina arilento.
(da “la Stampa”)
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Giugno 27th, 2025 Riccardo Fucile
POI, TRA IL X E IL XIII SECOLO, PER VIA DI UN ENORME BALZO DEMOGRAFICO E DI UN INCREMENTO DELLA PRODUZIONE AGRICOLA E MINERARIA, LE ROTTE TERRESTRI NON BASTARONO PIÙ. E COSÌ I CINESI INIZIARONO AD ALLARGARSI
Forse davvero fu una specie di globalizzazione. Attorno al X secolo, i cinesi avevano con i paesi stranieri i legami commerciali più fitti di qualunque altro popolo del pianeta.
La Cina esportava ceramiche di lusso e altre manifatture in mezzo mondo, a beneficio dei suoi acquirenti nel Medio Oriente, in Africa, in India e nel Sud-Est asiatico. E in tutte queste zone c’erano a loro volta fornitori che assicuravano le merci ai consumatori cinesi.
I contatti internazionali della Cina erano così estesi da influire sulla popolazione a tutti i livelli sociali, non soltanto sugli abitanti delle città portuali ma anche su quanti vivevano nell’entroterra, molto distanti dal mare.
Ed era in fondo la prima volta che la storia marittima della Cina prendeva quella scala smisurata. Per secoli, anzi per millenni, il suo rapporto con il mare era stato una cosa più modesta. Tutto era probabilmente cominciato dai fiumi. Imbarcazioni fatte per risalire le grandi arterie d’acqua che innervavano quella immensa regione del mondo.
Ma dai fiumi al mare la via fu breve. Sappiamo che già tra il 6000 e il 2000 a.C., a Guangzhou, quella che conosciamo oggi in Occidente come Canton, le canoe scavate erano usate anche per avventurarsi in mare aperto. Ma è difficile dire molto più di così.
Quello che sembra dai ritrovamenti archeologici è che per secoli e secoli la popolazione costiera avrebbe continuato a usare solo semplici mezzi capaci di galleggiare lungo le acque più vicine a riva.
Anche i testi scritti non dicono molto di più: forse la prima nave degna di menzione è quella citata nel Zhushu jinian, gli Annali su bambù, quando parla di un grosso pesce catturato nelle acque costiere e sacrificato a Huangdi…
Si era attorno al IV secolo a.C., all’epoca detta degli Stati combattenti, e a quanto pare non si trattava propriamente di popoli del mare… Anzi, forse fu solo allora che iniziarono a usare le vele, quelle che in cinese si chiamano fan.
E fu sempre nello stesso periodo che iniziarono a usare navi da guerra e a combattere sul mare. Sappiamo di una battaglia, avvenuta verso il 485 a.C., quando Fuchai, re di Wu, inviò una flotta dal Sud e sconfisse la marina del regno di Qi, nel Nord. E sappiamo pure che pochi anni dopo il regno di Yue nel Sud attaccò Wu dal mare sconfiggendolo.
Tutte avventure di cabotaggio, scontri avvenuti vicino a riva, ma il segno che i vari regni cinesi cominciavano a dare una diversa e nuova importanza al mare. Anche se ci vollero alcuni secoli perché cominciassero a osare un po’ di più. Nel 109 a.C. l’imperatore Han Wudi inviò una flotta con cinquemila soldati da Shandong verso la Corea. Poi fu la volta del Giappone.
Anzi per la verità il contatto sembra essere avvenuto a parti inverse: la prima testimonianza scritta in cui si menziona il paese di Wo, il Giappone appunto, risale all’anno 57 d.C. e parla di un ambasciatore proveniente da quelle isole che avrebbe reso omaggio alla corte cinese, riportandosene a casa un sigillo d’oro.
Ne venne fuori un lungo periodo di scambi diplomatici e commerciali: i giapponesi inviavano tessuti, legno di sapan, archi, frecce, schiavi e perle bianche; i cinesi, dal canto loro, mandavano seta, oggetti d’oro, perle, piombo, cinabro e soprattutto specchi di bronzo, tra gli oggetti più ricercati dell’epoca. Anche qui, come sulle strade di terra della via della seta, commercio voleva dire un crescente via vai di monaci buddhisti e un infittirsi degli scambi culturali.
Tali contatti tra Cina e Giappone furono mantenuti per lungo
tempo via Corea: era più facile navigare sfruttando la relativa vicinanza dell’isola, piuttosto che affrontare il mare aperto. L’influenza della civiltà cinese lascio segni di vasta portata nel mondo giapponese, a quel tempo ancora relativamente primitivo; e non solo sul piano culturale, ma anche politico e sociale.
Fu soprattutto a partire dalla dinastia Song, tra il X e il XIII secolo, che le cose cambiarono radicalmente. Un enorme balzo demografico, un grande incremento della produzione agricola e di quella mineraria; e infine il notevole aumento della produzione, con conseguente aumento del volume di scambi e delle reti di distribuzione.
Le rotte terrestri non bastarono più, insufficienti per gestire da sole la grande quantità di beni che ora venivano smerciati; era un problema di quantità e anche di peso e mole delle mercanzie.
Molti prodotti esportati dai Song, infatti, erano troppo pesanti per essere trasportati da cammelli e cavalli. Vasellami e piatti di porcellana, ad esempio, dovevano essere protetti e impacchettati in casse di legno per evitare che si rompessero.
E sebbene queste merci non fossero di per sé pesanti e ingombranti, lo diventavano una volta impacchettate per la spedizione.
Naturale, quindi, che simili trasformazioni incentivassero notevolmente la cantieristica navale:
Furono quelli i tempi in cui il commercio con le isole della Sonda e l’Oceano Indiano cominciò a crescere sempre di più.
Furono i tempi di quella sorta di globalizzazione che attraversò l’Asia più orientale. Anche per questo, crebbe a dismisura l’importanza dei porti cinesi meridionali. Oltre a Quanzhou, uno dei principali snodi commerciali divenne Guangzhou, a volte chiamata Canton, che si trova poco a nord di Hong Kong, sulla costa sud-orientale del paese
Da Guangzhou le navi partivano in direzione sud lungo la costa del Vietnam e poi attraverso lo stretto di Malacca. Da lì facevano rotta verso ovest, raggiungevano la costa occidentale dell’India e procedevano verso la penisola arabica.
In ciascun porto c’era un funzionario, il sovrintendente al commercio marittimo, incaricato di sorvegliare tutti i mercanti stranieri che arrivavano nel porto e di rilasciare licenze ai mercanti cinesi che facevano rotta verso paesi stranieri.
E normalmente, dove vi sono grandi possibilità di guadagno, finisce per affermarsi una volontà di controllo politico e militare. Fu soprattutto la dinastia Yuan, la dinastia mongola che prese il potere nel XIII secolo (quella per intenderci che ospitò anche Marco Polo), che cercò di scalzare i mercanti privati e creare una sorta di monopolio del commercio: un progetto che la vide impegnata anche in grandi missioni diplomatiche, con l’invio di tributi e mercanzie sino in India.
E fu ancora la dinastia Yuan a spingersi in una delle rare spedizioni marittime militari della storia cinese. Il Giappone era ricco e in quei secoli era diventato anche sempre più potente. Scriveva un monaco buddhista giapponese di quel periodo che i mongoli erano sbigottiti dalla qualità delle armature e dall’eccellenza degli arcieri del Giappone: «Le nostre corazze fan tremare persino gli dèi
Una volta sotto il loro controllo, i guerrieri del Giappone saranno in grado di conquistare la Cina e l’India […] nessun paese potrebbe resistere. Ecco perché i mongoli vogliono sottomettere il Giappone».
Non era solo questo: c’erano anche i buoni rapporti che il Giappone aveva con la precedente dinastia imperiale cinese – quella che gli Yuan avevano cacciato -, c’erano in gioco grandi quantità di tributi e tanto altro ancora.
Fu così che nell’ottobre del 1274 navi cinesi e coreane apparvero
al largo delle coste giapponesi, verso la baia di Hakata: la via più breve e più diretta venendo dall’estremità sud della Corea.
Un contingente marittimo di novecento navi e quindicimila soldati fu scagliato contro il Giappone. I cronachisti della dinastia annotarono che i mongoli avevano vinto, ma scrissero pure che la scarsa disciplina e la mancanza di frecce avevano obbligato le loro armate a ritirarsi… che era un modo per riconoscere, pur con dovuta prudenza, la vittoria folgorante del Giappone.
Le fonti giapponesi sostennero dal canto loro che fu un «vento divino», un kamikaze, a scacciare gli invasori, ma alcune recenti ricerche archeologiche suggeriscono che i cinesi furono sconfitti per colpa del mediocre equipaggiamento e del cattivo stato di manutenzione delle loro navi.
Kublai continuò a inviare ambasciatori in Giappone, ma invano. Sei anni dopo, però, l’esecuzione capitale da parte dello shogun di alcuni inviati dell’imperatore portò a un secondo tentativo d’invasione. Ma anche in questo caso il risultato fu un disastro per i mongoli e un altro kamikaze per i giapponesi.
Nel 1286, Kublai annunciò che avrebbe temporaneamente messo da parte i suoi piani di conquista del Giappone, e ciò a causa della problematica situazione in cui versava il confine meridionale con il Dai Viet: «Il Giappone non ci ha mai invasi, mentre proprio in questo momento l’Annam sta sconfinando al di qua delle nostre frontiere.
Meglio dunque mettere da parte il Giappone e concentrare tutte le nostre forze sull’Annam» decise saggiamente Kublai. Volendo evitare di subire una terza sconfitta sul mare, scelse di far avanzare i suoi eserciti sulla terraferma.
Dopo la morte di Kublai, nel 1294, un ufficiale propose al successore Temür di provarci di nuovo. La risposta del nuovo imperatore fu enigmatica: «Ora non è il momento. Ci penseremo».
Il che voleva dire in pratica: non se ne fa nulla e non aspettatevi da me un’altra parola sulla questione. Alla fine dei conti, il mare dimostrava di poter essere più un problema che la soluzione.
(da la Repubblica”)
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Giugno 27th, 2025 Riccardo Fucile
“SIAMO STREMATI, GLI AIUTI UMANITARI NON BASTANO E L’ESERCITO SPARA AI PUNTI DI DISTRIBUZIONE”
Il conflitto tra Israele e Iran si è temporaneamente raffreddato, ma a Gaza il dramma
della popolazione prosegue senza sosta. Per i gazawi, la guerra non è mai finita: a oltre 600 giorni dal 7 ottobre, i civili palestinesi vivono ancora sotto assedio, tra raid dell’Idf, carenze estreme di cibo, acqua, e altri beni di prima necessità, e una quotidianità segnata dalla paura e dall’incertezza. «Non è facile descrivere la situazione: è molto dura. Non c’è farina, né acqua pulita, tutto è carissimo. Le bombe ci circondano in ogni momento», dice a Open Nadera Mushtha, scrittrice palestinese cresciuta nel quartiere di Shujaiya a Gaza City. «Dal 2 marzo non è entrato più nulla nella Striscia. Qualche settimana fa sono arrivati alcuni aiuti – continua – Ma solo farina». «Stiamo davvero morendo di fame, siamo fisicamente stremati e i nostri corpi sono debilitati», ci spiega Sara Awad, scrittrice e studentessa che vive al nord di Gaza. «Non ricordo l’ultima volta in cui mi sono sentita sazia – prosegue -; mangiamo solo una volta al giorno, e ci vogliono ore per riuscire a procurarci il cibo».
Giovedì 26 giugno, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato la sospensione totale delle consegne di aiuti umanitari sulla Striscia, che di fatto non sono mai davvero ripresi. La decisione è arrivata a seguito delle pressioni del ministro di ultradestra Smotrich, che aveva minacciato di lasciare il governo se non fossero stati presi provvedimenti «per impedire che gli aiuti finissero nelle mani di Hamas». Poche ore prima dell’annuncio, l’ex premier Naftali Bennett aveva diffuso un video che mostrava uomini armati su un convoglio diretti al nord di Gaza, sostenendo che si trattasse dei miliziani di Hamas
intenti a sottrarre gli aiuti. Le Nazioni Unite hanno però attribuito i saccheggi a bande armate locali, e non al partito-milizia. Dallo scorso 19 maggio, quando Israele ha parzialmente revocato il blocco degli aiuti durato 78 giorni, a Gaza sono entrati soltanto 56 camion al giorno. Per l’Onu ne servirebbero diverse centinaia ogni giorno per rispondere ai bisogni urgenti della popolazione. «Gli aiuti umanitari sono fondamentali in tempo di guerra; tutti noi dipendiamo da essi per sopravvivere in questi tempi durissimi, ma il governo israeliano controlla e ci nega gli aiuti per aumentare la nostra sofferenza», afferma Sara.
La (non) distribuzione degli aiuti umanitari
La distribuzione degli aiuti umanitari nell’enclave palestinese è attualmente affidata alla Gaza Humanitarian Foundation (GHF), una controversa organizzazione non governativa registrata in Svizzera e negli Stati Uniti, a cui Israele ha appaltato – aggirando l’Onu e altre Ong – il sistema di assistenza umanitaria dal 26 maggio scorso. Il numero di punti di distribuzione allestiti, uno al centro e tre al sud della Striscia, è stato considerevolmente ridotto. Quelli rimasti, costruiti vicino a postazioni militari, si sono trasformati in trappole mortali: secondo l’Onu, a un mese esatto dall’inizio dell’attività, almeno 400 palestinesi affamati sono stati uccisi dall’esercito israeliano e 3 mila sono rimasti feriti. Più di dieci vittime al giorno, che si sommano a quelle del conflitto: 103 nelle ultime 24 ore, tre delle quali uccise mentre aspettavano in fila un pacco di alimenti. «Così il cibo per i civili viene trasformato in arma», ha denunciato pochi giorni fa l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha). James Elder, portavoce dell’Unicef, ha definito le scene ai centri di distribuzione come una versione reale degli «Hunger Games». In serata, il presidente della ong, Johnnie Moore ha fatto sapere di aver scritto una lettera al segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres per
chiedere di «lavorare insieme», poiché «è giunto il momento di affrontare il fallimento strutturale della fornitura di aiuti a Gaza e di correggere con decisione la rotta».
«L’Idf spara ai civili affamati che cercano di raggiungere i punti di distribuzione»
«L’esercito israeliano prende di mira chiunque riesca ad arrivare nei punti di distribuzione. E alcune persone prendono i sacchi di farina solo dopo moltissimi tentativi. Perché andiamo là? – si chiede Nadera – Perché abbiamo fame e dobbiamo nutrire le nostre famiglie». I prezzi per acquistare gli alimenti sono invece altissimi: «C’erano piccole quantità di riso e pasta già prima della chiusura dei valichi, ma sono carissimi e la gente non può permetterseli. I mercati ci sono, ma sono vuoti – prosegue – non c’è più nulla che possono vendere: niente carne, frutta o verdura. Nemmeno zucchero, latte o dolci», ci spiega. «Ci affidiamo al pane per nutrirci, ma un sacco di farina costa più di mille dollari». «Morte, fame, malattie, negazione e paura: questo è ciò in cui si sta trasformando il nostro amato Paese – le fa eco Sara – Una guerra senza fine, e Israele continua a ucciderci con le sue armi potenti». Intanto, l’organizzazione mondiale della Sanità ha fatto sapere di aver consegnato la prima spedizione di aiuti medici nella Striscia. «Nove camion carichi di forniture essenziali, 2 mila unità di sangue e 1.500 di plasma» hanno attraversato il territorio palestinese, ha scritto su X il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus.
Le trattative per un cessate il fuoco
Nel frattempo, la trattativa per un cessate il fuoco, che include la liberazione degli ostaggi israeliani, potrebbe riprendere nei prossimi giorni. E un ruolo decisivo sarà giocato dall’interesse del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, a impegnarsi concretamente nei negoziati. I mediatori egiziani e qatarioti provano, in ogni caso, a sfruttare l’effetto della fine della
conflitto tra Israele e Iran. Il portavoce del ministro degli Esteri qatariota, Majed Al Ansari, ha affermato alla Cnn che i negoziatori nel conflitto stanno sfruttando lo «slancio» della fine della guerra per riavviare i negoziati in stallo. Ansari ha affermato che Doha è stata in contatto con «tutte le parti» negli ultimi giorni per convincere Israele e Hamas a riprendere i colloqui. Intanto, dal vertice Nato de L’Aja e dal Consiglio europeo a Bruxelles è arrivato un pressing perché si ritorni al tavolo dei negoziati per il cessate il fuoco.
Ma i civili palestinesi sono stremati: dalla fame, dai bombardamenti, dalla distruzione e dalla carestia. «Tutti i miei sogni sono stati infranti in un istante, sia sul piano personale che negli studi, dato che la mia università ormai non è altro che cenere. Il dolore mi assale quando penso a me stessa o agli altri giovani che vivono tutto questo, mentre il mondo continua a guardare in silenzio», ci dice Sara. «Cerco di fare del mio meglio nonostante la guerra, ma tutto è difficile per noi – sottolinea Nadera -. Noi giovani abbiamo bisogno di credere che questa guerra finirà, anche per poter vivere come tutti i nostri coetanei nel mondo», afferma. «Sogniamo di vivere una giornata normale, senza l’odore della morte, mangiare senza avere lo stomaco affamato, e sentire la felicità al posto della fame e della paura. Può sembrare una cosa normale per gli altri. Ma per me – conclude Sara -, è un sogno».
(da agenzie)
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