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ANONIMA TRASPORTI: UNA SPA GESTITA DALLA CRIMINALITA’

TRA PIZZO AI CAMIONISTI E AFFARI CON I COLOSSI EUROPEI… COSI’ LE COSCHE CONTROLLANO I TIR E INCASSANO MILIONI

L’ultimo sequestro c’è stato la scorsa settimana: un’azienda con quaranta tir, che secondo la procura di Napoli appartiene a ai casalesi.
Per gli investigatori non è una sorpresa: delle 312 imprese sottratte alla criminalità  organizzata negli ultimi diciotto mesi, oltre la metà  si occupano di autotrasporto, il nuovo business delle cosche.
«Le mafie si adattano alle tendenze del mercato, forti del know how di professionisti che suggeriscono i settori più redditizi», spiega Michele Prestipino, procuratore aggiunto alla Direzione antimafia di Reggio Calabria.
In Italia l’86 per cento delle merci viaggia su gomma: ogni giorno sterminate processioni di camion si mettono in marcia, spesso lungo l’A1 formano un’unica colonna ininterrotta da Napoli a Bologna.
Quelle carovane sono una sorgente di guadagni, quasi infinita: il giro d’affari complessivo del settore supera i 60 miliardi l’anno.
Una torta che interessa ben 97 mila società , di cui 65 mila però sono solo padroncini: la loro ditta è il mezzo che guidano.
Lo scenario perfetto per gli strateghi dei clan, che hanno capitali da investire e armi per imporre le loro regole.
Il mercato è talmente ghiotto che Cosa nostra, casalesi e ‘ndrangheta hanno creato un’intesa nazionale, per evitare di litigare nell’ingorgo dei loro tir: l’embrione di una potentissima “Anonima Trasporti”, in grado di piegare anche le multinazionali. Francesco Ventrici, uomo della cosca calabrese Mancuso, è stato intercettato mentre metteva in guardia i dirigenti della Lidl Italia, filiale della holding tedesca dei discount:   «Voi volete la guerra, ma la guerra in Calabria non la vince nemmeno il Papa». Il messaggio era chiaro: dovevano continuare a usare i camion della famiglia, qualunque concorrente avrebbe fatto una brutta fine.
Ci vuole poco per fermare un mezzo, incendiarlo è facilissimo: solo tra marzo e aprile le fiamme ne hanno distrutti 48, soprattuto al Nord, spesso senza permettere di identificare la natura del rogo.
Ma il fumo dei sospetti arriva lontano.
In silenzio, i padrini da anni si sono inseriti nelle code dei bisonti della strada. Hanno creato società  con dinamismo manageriale e capacità  di mimetismo.
Come spiegava un boss calabrese attivo in Lombardia: «Se ti siedi con un professionista di Tnt, gli devi parlare da professionista; se ti siedi con uno shampista napoletano, gli devi parlare allo stesso modo».
Non è un esempio a caso.
I Flachi di Milano, che da venticinque anni dominano la scena criminale padana, avevano creato un consorzio che faceva da mediatore tra Tnt, il colosso olandese della logistica, e i padroncini.
Il clan si presentava con un’offerta competitiva, senza esplicitare minacce: «Siamo da dieci anni dentro. Il nostro interesse è che la Tnt inizi a fare un percorso nuovo e noi gli garantiamo immagine, efficienza di lavoro e tutto».
Il rapporto è andato avanti per anni, finchè la magistratura non ha certificato le relazioni pericolose e commissariato per sei mesi le sedi incriminate.
«Le imprese gestite dalla ‘ndrangheta sono di piccole e medie dimensioni, ma sul mercato occupano posizioni dominanti», chiarisce il procuratore Prestipino: «Sono proiezioni imprenditoriali dell’organizzazione che non hanno necessità  di far valere la qualità  del lavoro perchè operano in un mercato protetto».
Spesso si limitano a mediare tra i padroncini e chi ha bisogno di trasferire la merce, fabbriche o catene di supermarket.
La mediazione ha un costo: una provvigione tra il 10 e il 15 per cento, che diventa una sorta di pizzo legalizzato.
E finisce per colpire le già  magre entrate dei piccoli proprietari. «Non possiamo stare a galla perchè la concorrenza mafiosa ci strozza: un viaggio di 1.500 chilometri a noi costa 3.500 euro mentre loro lo fanno per 800 euro», denuncia Filippo Casella, imprenditore catanese con 20 camion.
Nel 1998 si ribellò alle richieste dei boss e ha testimoniato contro il padrino Nitto Santapaola: gli chiedevano due milioni e mezzo di lire al mese, ma pretendevano anche l’assunzione di amici degli amici e l’assegnazione di subappalti per le loro ditte.
Una pratica diffusa messa a nudo da decine di operazioni che hanno svelato la presenza di broker mafiosi in tutta la Sicilia: a Gela, Catania, Palermo, e soprattutto Vittoria, cuore di un distretto che produce pomodori e primizie esportati ovunque. È nell’ortofrutta che l’Anonima Trasporti riesce ad avere il ruolo più importante, condizionando l’intera filiera.
L ‘inchiesta “Sud Pontino” ha svelato il cartello delle famiglie siciliane, campane e calabresi per dominare la distribuzione agricola su larga scala: una rete che dai campi del Sud arrivava fino al grande ortomercato di Fondi, che rifornisce la capitale, e ancora più su a Latina, Bologna, Milano.
Acquistano, trasportano, rivendono.
In questo modo, i clan federati hanno la certezza di mettersi in tasca il 40 per cento del prezzo finale della merce: è come se per ogni chilo di fragole o di melanzane, quattro etti fossero cosa loro.
«A Rosarno la distribuzione alimentare medio-grande è controllata dalla cosca Pesce attraverso proprie aziende o ditte che hanno accettato il compromesso», commenta Prestipino, citando la località  dove lo sfruttamento della manodopera nei campi ha provocato la più grande rivolta di immigrati mai avvenuta in Europa.
Anche i corleonesi cominciarono con i camion. Li comprarono nel dopoguerra per portare il bestiame, loro o rubato, nei macelli di Palermo. Poi li usarono per trasferire terra e materiali dai cantieri delle prime opere pubbliche.
Un ciclo che adesso si ripete spesso. «L ‘infiltrazione avviene attraverso la catena dei subappalti e per contiguità  con i settori dell’edilizia e del commercio che sono tradizionalmente i più controllati dalla criminalità  organizzata», analizza Rita Palidda, docente all’università  di Catania ed esperta del rapporto tra mafia ed economia nell’isola.
Dai suoi studi emerge il ritratto di un predominio ormai consolidato nelle regioni meridionali: «È un paradosso la violenza negli autotrasporti: più esteso e duraturo è il controllo e meno si ricorre ad azioni violente perchè l’infiltrazione è ormai consolidata e le imprese e gli amministratori si adeguano».
La Sicilia è la prima patria di questo business: delle 59 ditte di trasporti confiscate in via definitiva, 32 hanno sede lì.
Nelle mappe delle forze dell’ordine Catania appare come una capitale della logistica di Cosa nostra.
L ‘ultima operazione è scattata a marzo, con il blocco di beni per 20 milioni di danni di Giovanni Puma, accusato di essere uomo del clan Madonia.
Fino al blitz, le sue imprese hanno lavorato per conto di Eurodifarm, la società  lombarda controllata da Dhl, uno dei leader mondiali delle consegne, rimasta all’improvviso senza mezzi con cui distribuire i medicinali in Sicilia.
E anche i “supplenti” avrebbero dovuto chiedere il permesso al signor Puma.
Il provvedimento di sequestro è stato poi revocato dai giudici del riesame ma le indagini proseguono.
Il caso forse più clamoroso è quello della Riela, confiscata nel 1999 a una famiglia alleata di Santapaola: da allora i dipendenti hanno lavorato duro per farla sopravvivere nella legalità  e far fruttare i duecento tir, e sono diventati un esempio.
Pericolosissimo per i boss, che non sono rimasti a guardare. Hanno aspettato il momento giusto e l’hanno tagliata fuori dai contratti.
Di fronte alla voragine nei fatturati, a gennaio l’Agenzia nazionale che gestisce i beni sequestrati si è arresa e ha messo l’azienda in liquidazione.
Ma le istruttorie hanno svelato chi c’era dietro la crisi: l’antico padrone Filippo Riela, che è stato arrestato per concorso esterno in mafia. Riela avrebbe stabilito un patto per rilevare i mezzi e girarli a una società  fidata, nel tentativo di sottrarli agli inquirenti. Secondo le indagini, la rete dei Riela è composta da tante ditte “amiche” nella Sicilia orientale: impresari ragusani considerati a lui vicini hanno l’appalto per la quasi totalità  dei viaggi tra Nord e Sud dei supermercati Auchan e del salumificio Rovagnati. Ora per i padrini dei tir si prospetta un altro affare: quello dei contributi pubblici destinati all’autotrasporto.
La rivolta dei Forconi che ha paralizzato collegamenti e forniture in tutta Italia è nata in Sicilia.
Ha causato danni per duecento milioni di euro al giorno. E si è chiusa con la loro vittoria: il governo Monti ha promesso incentivi per lenire gli effetti dell’aumento di carburante e agevolazioni per la costruzione di nuove infrastrutture.
Oggi ogni anno lo Stato spende 454 milioni di euro per sostenere i tir italiani. A sbarrare le strade sono stati i camionisti isolani, riuniti nel movimento Forza d’Urto, a cui poi si sono aggregati pescatori e agricoltori, altre vittime del caro gasolio. Nel giro di qualche giorno la protesta è divampata in tutta Italia, dando volto al potere della categoria.
Anche se le forze dell’ordine hanno numerosi sospetti sugli animatori dei presidi, soprattutto nelle regioni meridionali.
L’impresario che ha guidato gli sbarramenti nel trapanese è poi finito in manette: i pm di Napoli lo accusano di avere messo i suoi camion al servizio delle cosche.
Ci sono state altre denunce, respinte dal leader di Forza d’Urto, il catanese Richichi, come insinuazioni per affossare «il grande movimento popolare».
Al fianco di Richichi nelle barricate dei Forconi c’era Enzo Ercolano, figlio dello storico capomafia di Catania Pippo, fratello di Aldo, condannato per l’omicidio del giornalista Giuseppe Fava. Enzo si occupa di trasporti: insieme al padre è stato indagato e poi prosciolto nella maxi inchiesta “Sud Pontino”.
Ma non è l’unico della dinastia Ercolano, famiglia imparentata con i Santapaola, ad avere investito nei tir.
I cugini, Angelo, Maria e Aldo Ercolano, hanno fatto molta più strada: la loro Sud Trasporti si è insediata nel polmone economico del Paese, creando la base principale nell’interporto piemontese di Rivalta.
Angelo Ercolano è un imprenditore apprezzato, che non è mai stato coinvolto in indagini penali.
Gli investigatori si sono occupati di lui in una sola circostanza, prima del 2005, a causa dei suoi incontri con Giovanni Pastoia.
È il figlio di Ciccio Pastoia, boss di Belmonte Mezzagno e braccio destro di Bernardo Provenzano morto suicida in cella. Anche lui si occupa di trasporti, con filiali a Catania.
Ma questa frequentazione non ha mai dato luogo a contestazioni penali: erano solo affari. Invece gli altri fratelli-soci della Sud Trasporti, Aldo e Maria, finirono sotto accusa nel 1995 in un’inchiesta sui boss della logistica in cui spuntavano anche i nomi del padre Angelo Ercolano e di Nitto Santapaola.
Ma tutto è stato archiviato, senza ostacolare la crescita del loro gruppo. Adesso operano in tutta Europa con una branca polacca e da pochi mesi hanno aperto una nuova società : smaltimento e trasporto di rifiuti, pericolosi e non. Hanno anche un nuovo logo: “My Way. La strada del successo”.

Michele Sasso e Giovanni Tizian
(da “L’Espresso“)

This entry was posted on martedì, Luglio 31st, 2012 at 22:49 and is filed under mafia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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