BERLUSCONI DI FRONTE AL BIVIO: UN NUOVO PREDELLINO O LA RIDOTTA
O CERCA UNA VASTA ALLEANZA O CERCA DI RILANCIARE FORZA ITALIA
La prova decisiva sarà il passaggio parlamentare, e fino ad allora nulla potrà darsi per scontato.
Ma se davvero la legge elettorale andrà in porto secondo lo schema e la tempistica voluti da Renzi, non c’è dubbio che da quel momento sarà finita un’epoca, e che la Seconda Repubblica finirà in soffitta.
Sarà un passaggio di sistema, insomma, che va oltre il dettaglio del vertice di ieri tra il premier e il Cavaliere.
Era chiaro come sarebbe andata a finire, era impossibile per Berlusconi evitare la sconfitta: il patto del Nazareno si diluisce nell’intesa siglata da Renzi e Alfano, senza le variazioni richieste dal Cavaliere.
Se il patto formalmente regge è per reciproca convenienza: per un verso il segretario democratico toglie così margini a quanti nel Pd mirano a sabotare il suo progetto riformatore; per l’altro verso il leader di Forza Italia resta a quel tavolo dove – Renzi gliel’ha garantito – sarà «a pieno titolo» quando dovrà scegliersi il futuro capo dello Stato.
Altro non poteva ottenere Berlusconi, ma tanto gli basta.
Quantomeno per garantirsi un ruolo nella sfida per il Colle, ruolo che – senza accordi sugli equilibri interni di partito con Fitto – potrebbe perdere quando si inizierà a votare a scrutinio segreto.
È sicuro che il tema del successore di Napolitano sia stato affrontato durante il colloquio, ma non si sa se – nel corso della conversazione – Renzi ha ripetuto la battuta con cui di solito introduce l’argomento: «Dovete capirmi, mi trovo assediato. Ho già tutto il vecchio politburo del mio partito che si sente candidato in pectore per la presidenza della Repubblica».
E giù, a quel punto, con la lista delle telefonate a cui deve rispondere: dalla A di Amato alla V di Veltroni, senza che manchi mai Casini.
Ovviamente il premier vuole finire i suoi «compiti» prima che la partita del Quirinale abbia inizio. E non è solo per scongiurare pericolosi incroci tra temi diversi ed evitare imboscate.
Il fatto è che Renzi vuol togliersi di dosso «l’etichetta dell’annuncite che mi hanno appiccicato», in Italia e in Europa, se è vero che il capogruppo del Ppe Weber lo definisce un «chiacchierone».
Perciò, oltre ad aver stretto i tempi sulla delega fiscale e sul Jobs act, vuole chiudere sull’Italicum e sulla modifica del Senato, perchè – a suo modo di vedere – «varare le riforme, anche quelle non economiche, nei tempi programmati, fa crescere la credibilità dell’Italia».
I problemi del premier sono altri, e più del vertice serale con Berlusconi è stato complicato l’incontro mattutino con Padoan, a causa di quei numeri che non lo fanno star sereno: l’Italia non riparte e le previsioni non sono incoraggianti se persino la Germania – come gli hanno spiegato i vertici dell’Economia – nelle previsioni del prossimo anno rischia una crescita vicina allo zero.
Per certi versi, quindi, il colloquio con il capo forzista è stato defatigante: preso atto che sulla legge elettorale il Cavaliere – pur volendo – non poteva accettare ufficialmente il premio di maggioranza alla lista «altrimenti tornerei ad avere problemi nel partito», e avuto dal suo interlocutore «l’impegno formale» che «non faremo ostruzionismo nè faremo imboscate in Parlamento», Renzi ha chiuso la pratica.
Un’altra pratica si apre invece per Berlusconi, posto ora davanti a un bivio.
Se il nuovo modello di Italicum diverrà legge, dovrà decidere come intervenire per dare un futuro al centrodestra nel nuovo assetto di sistema.
Si vedrà se le elezioni saranno davvero nel 2018. In ogni caso, quando arriverà il tempo delle urne, cercherà un accordo tattico con la Lega per varare un listone unico? E cosa e quanto a quel punto dovrebbe cedere al «populista» Salvini?
Oppure, per giocare d’anticipo e mantenere il ruolo del federatore, salirà su un nuovo predellino per ricomporre ciò che è stato diviso con la fine del Pdl, proponendosi come padre nobile di un nuovo inizio?
Certo, il Cavaliere ha un’altra opzione: tenere viva Forza Italia e misurare ancora la sua capacità di attrarre consenso.
Ma nel ’94 il Ppi prese il 17% alle elezioni, prima di tramontare insieme alla Prima Repubblica.
Francesco Verderami
(da “il Corriere della Sera”)
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