CARA MINISTRA BELLANOVA, LA SUA REGOLARIZZAZIONE E’ UN PERCORSO A OSTACOLI
LETTERA DI UN CITTADINO AL MINISTRO: “RIENTRARE NEI CRITERI E’ PIU’ DIFFICILE CHE PASSARE DALLA CRUNA DI UN AGO”
Onorevole Ministra Bellanova,
martedì ho accompagnato Mahmood (nome di fantasia) che abita vicino a casa mia e l’Italiano lo mastica ancora poco, alla Coldiretti di Saluzzo. La Coldiretti è il più grande sindacato agricolo italiano e a Saluzzo ha una sezione a cui sono iscritte poco meno di diecimila persone: una sede grande, dove si assistono gli agricoltori nelle pratiche.
Ci sono andato perchè Mahmood vuole fare la regolarizzazione secondo lo schema varato (lacrime comprese) da lei.
È giunto in Italia da alcuni anni: aveva un permesso umanitario che, come lo ha informato la Commissione competente di Torino a mezzo raccomandata (una lunga lettera con caratteri corpo 6 in Italiano giuridico) non può essere rinnovato perchè egli non ha dimostrato di essere perseguitato nel proprio Paese e quest’ultimo non è un teatro di guerra. Dunque, è partito il conto alla rovescia dei 60 giorni per proporre ricorso oppure per provare con il suo schema di regolarizzazione.
E quindi, eccoci qui.
Il funzionario appura che Mahmood risiede nel mio comune da due anni (ha avuto alloggio dal proprio datore di lavoro), ha lavorato continuativamente dal 2018 e dal 2019 ha un contratto a tempo determinato annuale.
Ha la carta di identità del mio comune, il certificato di residenza e ovviamente il contratto per l’anno in corso.
Perfetto: l’esito è che può procedere con la regolarizzazione e immagino lei sappia bene cosa significa, ma magari gli altri Italiani no.
Significa che con l’aiuto del patronato della Coldiretti dovrà semplicemente riempire un modulo (che per pompa è stato chiamato “kit” di regolarizzazione), quindi versare 130 euro alla posta e spedirlo a Roma. Con la ricevuta in tasca sarà regolare per 6 mesi.
Avete capito bene: casa, lavoro contrattualizzato in agricoltura da due anni, residenza nello stesso luogo negli ultimi due anni sono la condizione per essere regolari per sei mesi. Naturalmente, previo esborso di 130 euro, che per un lavoratore come lui sono tantissimi soldi.
Così ci dice il sindacato e sebbene abbia sentito che forse con il suo contratto potrebbe avere (sempre a mezzo “kit”) una regolarizzazione più lunga, comunque il balzello rimarrebbe e comunque, per chi non è madre lingua, quello che riferisce il patronato. È la legge.
Sono un po’ demoralizzato, ma lieto che comunque qualcosa si possa fare, mi aspetto di potere tradurre per il mio amico le domande a cui dovrà rispondere e quindi firmare. Ma niente: l’impiegata cui hanno passato la pratica, gentilissima, mi informa che è la prima pratica di questo tipo e quindi deve chiedere delucidazioni alla Posta.
Resto di sasso.
Il 30 giugno, con la procedura del suo decreto approvata da oltre un mese, il mio amico è il primo che la richiede a Saluzzo, vale a dire l’epicentro della raccolta del frutta piemontese, dove si stima che ogni anno lavorino 12mila persone, per oltre un terzo di origine africana, in crescita anno dopo anno.
Ripenso alle condizioni che nel caso di Mahmood si sono verificate (casa, residenza, contratti di lavoro) e al costo di venti euro al mese che gli dicono essere il prezzo per essere regolare in Italia. Mi sembra di vivere una riedizione tragica della fatidica domanda di Eccebombo, con protagonista lei, signora Ministra: mi si nota di più se metto a punto una procedura di regolarizzazione più stretta della cruna dell’ago in cui dovrebbe passare una gomena o se faccio semplicemente finta di niente e lascio che migliaia di lavoratori restino nel limbo giuridico?
Mi permetta una riflessione.
Non ci vuole molto a comprendere che rendere difficile la residenza regolare di chi lavora in Italia non ha come primo effetto il ritorno nel Paese di provenienza di questi lavoratori. E ciò per due ragioni.
In primo luogo perchè un reddito da lavoro in Italia, ancorchè sommerso, rappresenta una speranza rilevante per la sua famiglia nel Paese d’origine: più resisterà e meglio sarà per tutti i suoi cari. Il prendere atto di non essere gradito da chi approva le norme in questo Paese e quindi decidere di tornare ai propri luoghi non fa parte degli atteggiamenti che risulterebbero comprensibili in patria.
In secondo luogo, perchè c’è, in questo Paese che rende la vita difficile a chi vuole lavorarci regolarmente sebbene non ne sia cittadino, una drammatica e costantemente crescente carenza di manodopera in alcuni ambiti, fra cui spicca l’agricoltura.
Il nostro settore primario è invecchiato e le sue risorse umane si sono assottigliate: per certe produzioni (frutticole, viticole, orticole e zootecniche) il fabbisogno di braccia da tempo non è soddisfatto da nostri concittadini.
Queste due condizioni contemporanee (bisogno dei singoli lavoratori — fabbisogno del settore economico primario) permette di qualificare in modo preciso l’esito dell’attuale quadro normativo rispetto ai lavoratori stranieri in Italia.
Esso è (con)causa di creazione e mantenimento di sacche di sfruttamento e di illegalità , che poggiano sulla precarietà giuridica come la più efficace delle minacce.
Non c’è possibilità di richiedere paghe giuste e dignità per chi deve nascondersi alla legge.
Ecco perchè la vieta retorica nazionalista, che alimenta l’odio espresso di alcuni e si giova della pavidità dimostrata anche dal Governo che ha varato il suo modello di sanatoria, signora Ministra, è la migliore alleata dei caporali e dei padroni senza scrupoli.
E mi sembra che così, le sue lacrime acquistino un nuovo e più amaro significato.
(da “La Repubblica”)
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