“COMPRIAMO UNA NAVE E SALVIAMO I MIGRANTI”: LA SFIDA DEI VENTENNI DI UNA ONG TEDESCA RACCONTATA IN UN FILM-DOCUMENTARIO
“LA IUVENTA UN ANNO DOPO? UN SUCCESSO CHE URLA IL FALLIMENTO DELL’EUROPA”: INTERVISTA AL DOCUMENTARISTA MICHELE CINQUE CHE HA SEGUITO PER MESI LE OPERAZIONI DI SOCCORSO
“Della Iuventa mi sono innamorato a prima vista”, dice Michele Cinque, il documentarista romano 33enne che sta montando il suo ultimo film sull’esperienza vissuta a bordo della nave allestita da un gruppo di ventenni tedeschi per salvare i migranti nel Mediterraneo.
“Sono stato a bordo della loro prima missione, poi ho seguito per un anno alcuni dei ragazzi della Iuventa e alcuni di coloro che avevamo salvato”.
Un’esperienza forte?
“Drammatica e indimenticabile. Era la primavera dell’anno scorso. La Ong Jugend Rettet, fondata nel 2015 da giovani della media borghesia tedesca che invece di andare all’Università hanno scelto di salvare i loro coetanei in fuga dalle guerre e dalla fame, aveva acquistato la nave e aveva appena finito di allestirla nel porto di Endem, in Germania. Avevano trasformato quel peschereccio in una vera nave adatta a missioni di search and rescue, e stavano partendo per Malta. Era maggio, quando lessi la notizia presi il telefono e li chiamai”.
Cosa la incuriosiva?
“La loro storia mi ha emozionato subito. Mi interessava il loro slancio utopico, quello di pensare che un gruppo di ventenni potesse avere un impatto concreto in uno dei problemi che sta mettendo in crisi l’Europa; che ragazzi così giovani ci credessero al punto da aprire un crowd funding, comprare la barca e partire in prima persona per il Mediterraneo”.
Pensavano davvero di cambiare il mondo?
“Sì, e naturalmente sapevo che il loro slancio utopico si sarebbe scontrato duramente con la realtà . Il loro gesto di denuncia non avrebbe cambiato granchè le politiche migratorie europee. Ma era un tentativo che valeva la pena di filmare. Dieci giorni dopo ero a Malta, e via in mare a bordo della prima missione della Iuventa”.
Quante persone avete salvato?
“Oltre duemila in quindici giorni, tra fine luglio e l’inizio di agosto. Abbiamo visto e ripreso tutto, in quella zona di mare di fronte alla Libia. In alcune giornate non abbiamo smesso di salvare persone per diciotto ore. Alcune le ho poi seguite per un anno nei centri di accoglienza in Piemonte, Sicilia e Lazio, e nel film racconto la loro vita. Uscirà quest’estate, pensiamo di presentarlo ai festival. Magari a Venezia o a Berlino, vedremo”.
Nello scontro tra utopia e realtà chi ha prevalso?
“A bordo erano in 13. Non avevano mai visto quelle 12 miglia di mare, tra 12 e 24 miglia dalla costa della Libia. È una zona di guerra. C’è la Nato, le colonne di fumo per i gommoni dati a fuoco, il fumo per gli spari delle navi militari… Il primo giorno non facemmo nessun salvataggio, c’era mare mosso. Il secondo eravamo davanti a Sabrata, a 24 miglia dalla costa, e il mare era piatto come una tavola: forse oggi comincia il nostro lavoro, pensai. La mattina avevamo 450 persone a bordo”.
Ci sono stati anche momenti difficili?
“Nel montaggio, ieri rivedevo le sequenze della rianimazione di una ragazza ventenne da parte di uno dei ragazzi della Iuventa. Senza successo, purtroppo. Fu un momento drammatico, uno dei molti. Quei ragazzi vivono una grande felicità quando salvano qualcuno, ma poi c’è lo scontro con la morte: in quel tratto di mare hanno lasciato parte dell’illusione della gioventù, della capacità di credere e di sognare”.
Pensa siano riusciti nella loro vera missione, incidere su un tema cruciale come le migrazioni?
“L’Europa va in direzione opposta alla loro, e lo fa con soluzioni miopi: l’accordo tra Italia e Niger per un contingente al confine tra Niger e Libia con cui fermare i migranti è l’ennesimo muro. Finchè saranno i privati a fare il lavoro che dovrebbe fare la Ue ai confini, possono esplodere polemiche, illazioni o dubbi legittimi come quelli sui possibili contatti tra alcune Ong e i trafficanti. Il mio film racconta proprio la disillusione di questi ragazzi tedeschi un anno dopo: sapevano di non poter essere loro la soluzione, ma pensavano che quando l’Europa avesse visto i ventenni andare in mare a salvare le persone, avrebbe ritenuto finalmente necessario istituire un nuovo programma di salvataggio come fu Mare Nostrum. E invece la Iuventa ha già salvato quest’anno oltre seimila persone in 5 missioni, un numero pari a tutte quelle salvate nelle sette missioni del 2016. Questa per loro è una sconfitta”.
Siete entrati anche nelle acque costiere libiche?
“Solo quando la guardia costiera dà il permesso. Quella italiana, perchè la libica non è facile da identificare. Ci sono navi che sono state attaccate da quella che pareva la guardia costiera libica. Molto spesso sono vestiti da militari e imbracciano l’AK47, come gli uomini delle milizie che incrociano in quelle acque”.
Come stanno i ragazzi che avete aiutato e poi seguito?
“Ne abbiamo ritrovati 6. Stanno seguendo l’iter burocratico, lentissimo, e per un paio d’anni non sapranno nemmeno se la richiesta di asilo politico verrà accolta. Il fotografo che era con me ha fotografato quasi tutti coloro che abbiamo salvato. Quando abbiamo rintracciato qualcuno abbiamo portato le loro foto nelle buste, e c’è stato un corto circuito emotivo: noi siamo abituati a vedere quelle immagini con un carico drammatico che ce le rende insopportabili; loro invece le vedono come un viaggio che un ragazzo europeo può fare a sedici o diciotto anni con gli amici: ‘Ah, guarda, c’è anche lui nella foto! Guarda Tizio, era qui con Caio…”.
E a lei cos’è rimasto, di questo viaggio?
“La consapevolezza degli errori che l’Europa sta commettendo. Ho conosciuto ragazzi ghanesi di 19 anni che sono stati due anni e mezzo nei campi di prigionia in Libia. Dire ‘facciamo un blocco navale e lasciamoli in Libia’ non rispecchia nessuno dei principi di quella che vogliamo sia la nostra Europa. Creare nuove prigioni non è l’Europa dei venti o trentenni. Ma mi ha lasciato anche la consapevolezza che bisogna lottare in prima persona, per cambiare le cose”.
Cosa dovrebbe fare, l’Europa?
“Ci sono 1,5 milioni di persone sulla costa libica che aspettano di partire, ne arrivano duecentomila l’anno e cinquemila muoiono in mare. Non voglio difendere Gheddafi, ma la situazione è peggiorata. Un ragazzo che non ha mai visto il mare mi ha detto ‘accidenti quanto è grande questo lago’. Perchè la Ue non investe uno o due milioni di euro per fare una campagna mediatica in Africa? Per far capire a questa gente che le condizioni in Europa non sono quelle che immaginano? Che il sogno europeo non c’è più? Le uniche campagne media le fanno gli scafisti: inserirò nel film un video preso da YouTube che mi ha mostrato un ragazzo del Ghana, è un appello di un giovane che dice: fratelli, voi ci vedete su Facebook con auto belle e bei vestiti, ma noi in realtà viviamo per strada e non abbiamo il coraggio di dirvi che qui stiamo peggio che in Africa”.
(da “La Repubblica”)
Leave a Reply