IL CALIFFO AL BAGHDADI, UNA VOCE PIU’ CHE UN CAPO
LA STORIA DEL JIHADISMO NON FINIRA’ CON LA SUA MORTE
Da tempo era uscito dai “radar” mediatici. Di lui si erano perse le tracce. Il “Califfo” è morto tante volte e sembrava svanito nel nulla, come nel nulla era finito il “suo” Stato islamico di Siraq. Come era avvenuto con Osama bin Laden, diventato sul finire della sua vita un’icona piuttosto che un capo operativo di al-Qaeda, così per ciò che è rimasto, e non è poco, di Daesh era diventato Abu Bakr al-Baghdadi: una voce, più che un comandante operativo. Una icona in vita. Fino a oggi.
Fonti del Pentagono, che trovano sponde presso fonti di Siria, Iraq e Iran, il “Califfo” è morto nel corso di un raid Usa nel Nord della Siria. Al-Baghdadi si sarebbe fatto esplodere per evitare la cattura. Le verifiche sono ancora in corso, a partire dall’esame del dna, decisivo per l’identificazione.
Social media e siti internet legati all’Isis non confermano ma esortano i seguaci in tutto il mondo a “continuare la jihad anche se la notizia fosse vera” definendo già il loro leader come “martire della guerra santa”.
Nel corso degli anni ci sono state molte rivendicazioni sulla morte del capo dell’Isis che però sono sempre state smentite. Ad aprile era ricomparso in un video per la prima volta dal luglio 2014, quando fu ripreso mentre parlava alla moschea di Mosul. Nel febbraio del 2018 diverse fonti Usa riportarono che il leader dell’Isis era rimasto ferito nel corso di un bombardamento aereo del maggio del 2017 e, a causa delle ferite, dovette lasciare la guida dell’Isis per almeno cinque mesi.
Ma quella guida, di fatto, il “Califfo” l’aveva dovuta lasciare da tempo. Il tempo nel quale si consumavano le sconfitte sul campo di battaglia a Raqqa, l’autoproclamata capitale dello Stato islamico, a Mosul, la città irachena da dove tutto ebbe inizio, a Kobane… Il tempo nel quale nasce l’Isis 2.0.
Quarantotto anni, Ibrahim Awwad Ibrahim Ali al-Badri al-Samarri nasce a Samarra, in Iraq in una famiglia della classe media sunnita. Laureato a Baghdad nel 1996 in Studi Islamici, fu arrestato nel febbraio 2004 dalle forze di occupazione Usa che lo rilasciarono dopo 10 mesi, ritenendolo non pericoloso.
Dopo il rilascio, entrò in contatto con al Qaeda. Nel 2010 divenne leader dell’Isis in Iraq, organizzazione che nel 2013 si diffuse nell’intero Medio Oriente. Una volta libero si avvicina ad al-Qaeda in Iraq, che diventa “Stato islamico dell’Iraq”.
Alla morte del capo Abu Omar al-Baghdadi, il 18 aprile del 2010, i vertici del gruppo nominano leader proprio Awwad che prende il nome di Abu Bakr. Un mese dopo, il 16 maggio, annuncia l’alleanza con al Qaeda, guidata da Ayman al Zawahiri. Ma poco dopo comincia a sfidare l’autorità del medico egiziano, successore di Bin Laden (ucciso nel 2011).
Con l’inasprirsi della guerra siriana nel 2013 e con il ritiro di gran parte delle truppe governative di Damasco dal nord e dall’est della Siria, gli uomini di al al Baghdadi risalgono facilmente l’Eufrate e prendono Raqqa senza colpo ferire, proprio come è successo poi con Mosul, la seconda città dell’Iraq, caduta nel giugno 2014.
Forte di successi militari ancora inspiegabili contro eserciti descritti come i più potenti della regione, il credito di al Baghdadi che ha ormai rotto con al- Qaeda – e su cui gli Usa hanno intanto messo una taglia di 25 milioni di dollari m- conquista i cuori di migliaia di giovani disadattati di mezzo mondo i
cerca di una ragione per vivere e morire. Si nasconde da cinque anni. Anni in cui ha diffuso video con i suoi sermoni, compreso quello nel quale annunciava che il Califfato avrebbe “presto conquistato Roma”. In aprile è stato pubblicato un video dell’ala mediatica dell’Isis al-Furqan che mostrava un uomo che si spacciava per Baghdadi.
Era la prima volta che Baghdadi veniva visto dal luglio 2014, quando aveva parlato nella Grande Moschea di Mosul. Il 5 luglio si mostra in pubblico per la prima volta e rivolge un’allocuzione dall’interno della Grande moschea al-Nuri. Nel sermone al Baghdadi ordinava ai fedeli musulmani riuniti di obbedirgli e si autoproclamava “Califfo” di un territorio che si estendeva dalla Siria all’Iraq, ovvero dalla provincia di Aleppo fino a quella di Diyala.
L’Isis 2.0 si decentra, affidandosi a lupi solitari, foreign fighter di ritorno e a nuovi indottrinati. Quanti operano, con diverse funzioni e gradi di responsabilità , nel contrasto al radicalismo islamico armato, condividono una preoccupazione: l’abbassamento della guardia da parte dell’opinione pubblica, come se, dopo le sconfitte subite in Siria e Iraq, lo Stato islamico sia una forza residuale, allo sbaraglio. Niente di più erroneo.
“Dobbiamo essere consapevoli che la storia del jihadismo — dice ad HuffPost Nabil El Fattah, già direttore del Centro di Studi strategici di Al- Ahram del Cairo, tra i più autorevoli studiosi arabi dell’Islam radicale armato – non finirà con al-Baghdadi così come non è finita con l’eliminazione di bin Laden. C’è un malessere profondo che investe il mondo islamico e che va anche al di là dei pur ampi confini del Grande Medio Oriente. Un malessere sociale ma anche identitario che riguarda soprattutto i giovani. D’altro canto — aggiunge El Fattah- sul piano strettamente operativo, al-Baghdadi non aveva mai presieduto alla definizione dell’azione militare di Daesh, compito che spettava agli ufficiali sunniti del disciolto esercito di Saddam Hussein, che il ‘Califfo’ aveva conosciuto durante la sua prigionia in Iraq”.
Raqqa, Mosul, Sirte, Fallujia non erano più difendibili: troppo possente la potenza di fuoco messa in atto dalle coalizioni, quella a guida americana e quella russa, per poter reggere da parte dei miliziani del Daesh. Meglio ripiegare nelle aree desertiche, come quella al confine tra Libia e Tunisia, e da lì riorganizzare le forze e coordinare gli attacchi all’Europa. E in Europa a scatenarsi non sono più solo i “lupi solidari”.
Perchè i “lupi jihadisti” agiscono sempre più in branco, si strutturano in cellule compartimentalizzate, acquisiscono elementi fondamentali per colpire attraverso la rete di siti on line legati all’integralismo islamico armato. A organizzazione decentrata, catene di comando autonome, che entrano in azione senza dover dipendere da una “cupola” o da un capo supremo. Sul piano operativo e della catena di comando, la divisione che si occupa degli attentati all’estero è una branca distinta all’interno dell’organigramma dello Stato islamico: recluta, addestra, fornisce i soldi e organizza la consegna delle armi ai combattenti del gruppo che sono pronti a compiere degli attentati. La divisione non si occupa solo degli attentati in ma anche in altri Paesi dove ci sono località turistiche frequentate dagli occidentali, per esempio la Turchia, l’Egitto e la Tunisia.
L’Isis diventa così un “marchio di fabbrica” che amplifica mediaticamente le azioni condotte dalle varie branche affiliate. Di questo “marchio” Abu Bakr al-Baghdadi era diventato la voce. Una voce che, forse, si è spenta per sempre. Trump esulta e ora può sostenere, anzitutto all’opinione pubblica interna, che la guerra all’Isis è definitivamente vinta. Uno spot elettorale. Perchè chi, anche in America, si occupa di monitorare i cambiamenti in essere dello Stato islamico, sa bene che i tentacoli dell
“piovra” jihadista sono ancora tanti e pericolosi. Non avevano più bisogno di un Capo ma di un Martire da celebrare e vendicare. Abu Bakr al-Baghdadi può far paura anche da morto
(da “Huffingtonpost”)
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