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IL DIVORZIO TRA SALVINI E MELONI È SOLO QUESTIONE DI TEMPO: DOPO LE REGIONALI IN AUTUNNO, UNA VOLTA VARATA LA NUOVA LEGGE ELETTORALE, LA ZELIG DELLA GARBATELLA POTREBBE SFANCULARE LA LEGA DAL GOVERNO E COALIZZARSI SOLO CON FORZA ITALIA AL VOTO ANTICIPATO NELLA PRIMAVERA DEL 2026

LIBERA DALLA ZAVORRA DEL CARROCCIO, MELONI SAREBBE FINALMENTE LIBERA DI AVVICINARSI AL PARTITO POPOLARE EUROPEO: DOPO TIRANA, RIDOTTA ALL’IRRILEVANZA CON I VOLENTEROSI AL TELEFONO CON TRUMP, LA DUCETTA HA CAPITO DI AVER SBAGLIATO E HA CAMBIATO COPIONE… IL SUO EGO ESPANSO NON HA PERSO PERO’ IL VIZIO, PER RITORNARE SULLA RIBALTA INTERNAZIONALE, DI ”STRUMENTALIZZARE” PERFINO PAPA LEONE XIV

Si può governare, e bene, senza Salvini? Dentro Fratelli d’Italia se lo chiedono da tempo, e si inizia a immaginare un futuro in cui l’alleanza di centrodestra sia ridotta al minimo, con un patto tra meloniani e Forza Italia.
Le ostilità (eufemismo) tra l’ex Truce del Papeete e la Ducetta, d’altronde, sono numerose e quotidiane: dalla guerriglia in Rai al risiko bancario (il no della Lega alla fusione del “suo” Banco BPM con Monte dei Paschi di Siena caro ai
meloniani), fino al terzo mandato dei presidenti delle Regioni.
Sulla questione elettorale per le prossime regionali, si è consumato persino un ruvido botta e risposta tra Mantovano e Salvini, con il sottosegretario che, davanti alle perplessità di Calderoli di fronte al ricorso del Governo contro la legge sul terzo mandato per le regioni autonome, rivolgendosi a Salvini, ha “certificato” la rottura in Consiglio dei ministri tra Fdi e Carroccio: “Ma sta parlando per lei?”. E il leader del Carroccio ha replicato, secco: “Il voto è contrario per tutta la delegazione leghista”. Amen.
Nel partito di Giorgia Meloni ci sono posizioni contrastanti, non tutti la pensano allo stesso modo, in particolare sul dossier Regioni a statuto speciale, Trentino e Friuli Venezia Giulia, che vedono un presidente leghista che vorrebbe correre per la terza volta, come Fugatti e Fedriga.
Quando il Consiglio dei ministri ha impugnato la legge trentina sul terzo mandato, è arrivato lo strappo di Salvini e Meloni ha risposto dando forfait al Festival delle Regioni: una forte influenza la “costringe al riposo”. Cancellati tutti gli impegni. Dunque, una “malattia diplomatica” per evitare il confronto col governatore del Friuli Venezia Giulia, Fedriga.
Se il ministro FdI per i Rapporti col Parlamento Luca Ciriani, friulano d’origine e fratello dell’ex sindaco di Pordenone, Alessandro, spinge per accompagnare alla porta i due Governatori uscenti, l’ex cognato d’Italia, Francesco Lollobrigida, invece, vorrebbe mediare e cercare una soluzione condivisa con gli alleati leghisti.
In generale, la questione sul terzo mandato, oltre alle questioni tecniche, tira in ballo un più ampio disegno politico di Giorgia Meloni, che da tempo punta a togliere spazi di potere alla Lega. E con qualche ragione.
La Lega di Salvini, infatti, governa, attraverso i suoi colonnelli, regioni apicali come il Veneto, il Friuli Venezia-Giulia e la Lombardia, pur disponendo di un consenso elettorale (8,5%) molto ridotto rispetto a Fratelli d’Italia (praticamente ha meno di un terzo dei voti del partito della premier).
A spingere per un ridimensionamento del Carroccio, ovviamente, non ci sono
solo le dinamiche di potere, ma ben più profonde dissonanze politiche tra i due leader: Salvini si sta dimostrando l’unico grande oppositore di Giorgia Meloni, nonché il solo a “disturbarla” sulla politica internazionale.
L’affiliazione al mondo “Maga” di Trump e il mai rinsecchito putinismo e anti-europeismo del ministro dei Trasporti sono la spina più velenosa nel fianco per la Statista from Garbatella.
Il graduale spostamento a destra della Lega, che ha anche inglobato la X Mas di Vannacci, ha creato non poche difficoltà alla premier, obbligandola a virate controproducenti per i suoi piani di navigazione.
Ad esempio, il trumpismo smaccato di Salvini l’ha indotta a tendere una mano all’inaffidabile affarista della Casa Bianca per non essere scavalcata nel rapporto con gli Stati Uniti.
Ma questa mossa l’ha pagata in Europa, dove ormai è considerata alla stregua di una cheerleader del Caligola di Mar-a-Lago, dunque inaffidabile.
Il famigerato sogno di essere il “ponte” tra Washington e Bruxelles è la diretta conseguenza di una partita su più tavoli, indotta dalla sopravalutazione di Salvini.
Forse, se non ci fosse stato lui tra i piedi, Giorgia Meloni non sarebbe finita in un cul-de-sac con il quartetto Macron-Starmer-Merz-Tusk che guida le mosse di Ursula von der Leyen.
Magari avrebbe trovato il coraggio di ricollocarsi in Europa spostandosi verso il centro, con un avvicinamento al Partito Popolare Europeo (Ppe), sfanculando i fascio-conservatori del suo gruppo a Bruxelles, Ecr.
Probabilmente, avrebbe offerto in cambio ai popolari, come segno di buon volontà, l’approvazione del nuovo Mes, che Salvini non vuole neanche sentir nominare, e a cui si oppone strenuamente da sempre (“Mai!”).
Il camaleontismo obbligato della Zelig Giorgia ha prodotto finora soltanto buchi nell’acqua: la special relationship con Trump è solo nella sua testolina bionda, e in Europa l’Italia non conta nulla
Dalla foto di Draghi con Macron e Scholz, sul treno per Kiev, siamo passati al
fronte dei Volenterosi da cui l’Italia dei due Meloni si è chiamata sdegnosamente fuori.
Con conseguenze politiche evidenti: prima la foto dei leader europei a Kiev con Zelensky (Meloni assente, ovviamente), poi il vertice “gemello”, tenutosi qualche giorno dopo a Tirana, in cui Macron, Merz, Starmer e Tusk, insieme al presidente ucraino, (con Meloni spettatrice non pagante) hanno telefonato direttamente a Trump.
Da questo pastrocchio, la “Thatcher cacio e pepe” ha capito di aver sbagliato, che così non si può andare avanti, doveva trovare una via per uscire dall’irrilevanza politica internazionale in cui era finita.
Ma per riconquistare il suo status e governare con autorevolezza agli occhi di Bruxelles, bisogna disfarsi del sempre più ingombrante fardello leghista.
Come? Intanto, ridisegnando la legge elettorale.
Se andasse in porto la riforma che assegna il 55% dei seggi alla coalizione che ottiene almeno il 40% dei voti, Fratelli d’Italia potrebbe sganciarsi definitivamente dalla Lega e siglare un patto d’acciaio con Forza Italia. Al momento, se stiamo ai sondaggi, non basta: il 28-29% di Fdi, insieme all’8-9% di Forza Italia non sarebbe sufficiente a far scattare il premio.
Ma ai piani alti di via della Scrofa sono convinti che, togliendo potere a Salvini e allontanando il Carroccio, i consensi siano destinati ad aumentare.
Le ragioni sono tre:
1. Senza la Lega tra i cojoni, altri elettori moderati potrebbero salire sul Carro del vincitore (cioè il suo) e scegliere nell’urna Fratelli d’Italia
2. Un pezzo della Lega difficilmente accetterà di votare un partito vannaccizzato e spostato a destra, e potrebbe preferire le braccione da boscaiolo di Giorgia Meloni.
3. Inglobando nell’alleanza anche Noi Moderati di Maurizio Lupi, la coalizione de-leghizzata potrebbe raggiungere agilmente alla soglia del 40%.
Il piano di decoupling tra Fratelli d’Italia e Lega non è destinato a concretizzarsi prima delle elezioni regionali dell’autunno 2025: l’idea è chiudere senza troppe
figuracce la partita in Toscana, Campania, Puglia, Veneto e Marche e solo successivamente rompere l’alleanza.
Una volta approvata la nuova legge elettorale, magari con i voti dell’opposizione (il progetto è stato già portato all’attenzione di Elly Schlein), si potrebbe andare al voto anticipato nella primavera nel 2026, Mattarella permettendo.
A proposito di Pd e legge elettorale: qualcuno, dentro Fratelli d’Italia, dove si confida molto nelle divisioni a sinistra, ha fatto però notare che, nel caso in cui i dem, il M5s e Avs riuscissero a creare una coalizione unita, la soglia del 40% non sarebbe così lontana nemmeno per il centrosinistra.
Che Giorgia Meloni si stia preparando a cambiare pelle è dimostrato innanzitutto dal dialogo con il Ppe.
Come scriveva ieri Simone Canettieri sul “Foglio”: “Non è un mistero che la premier abbia imbastito un ottimo rapporto umano e politico con tre personalità tedesche come il cancelliere tedesco Friedrich Merz, la presidente della commissione Ursula von der Leyen e il presidente del Ppe Manfred Weber
Di sicuro, i segnali di un avvicinamento al Ppe superano quelli della rincorsa ai Patrioti orbaniani-salviani-lepenisti”.
In secondo luogo, la Ducetta ha ben interiorizzato la lezione X del trumpismo: tuitto una cosa oggi, ne posto un’altra domani e le smentisco entrambe il giorno dopo.
Che è, in buona sostanza, ciò che sta già facendo nei confronti dell’odiato Macron.
La premier, durante il viaggio a Roma di JD Vance in occasione della messa di intronizzazione di Papa Leone XIV, ha (dopo la sua telefonata a Trump) ribadito al vicepresidente la volontà di partecipare al vertice telefonico.
Una volta in call, la Zelig di Colle Oppio, non solo si è posta in maniera mansueta e disponibile, ma ha anche dato manforte a Macron agli occhi di Trump sostenendo la linea francese secondo la quale, senza una tregua, non può esserci alcun negoziato tra Russia e Ucraina. Una giravolta che ha fatto
ovviemente felici gli altri partecipanti,
Sulla fine della guerra, Giorgia Meloni ha provato a sfruttare l’elezione di Papa Leone a suo vantaggio. La Ducetta, abilissima con la propaganda, ha sbandierato ai quattro venti la sua telefonata a Prevost, provando a coinvolgere il Pontefice e utilizzarlo per rientrare in gioco sullo scacchiere internazionale.
Il solito bluff: fin dal suo primo giorno di pontificato, era stato lo stesso Papa a proporre il Vaticano come possibile sede dei negoziati e la premier si è solo rivenduta una carta già vista.
Prima di farlo, ha chiamato di nuovo Trump, chiedendogli “il permesso” di inserire la Santa Sede nel negoziato, e quello ha risposto: “Mi piace il Papa ma soprattutto suo fratello che ha votato per me”. Come a dire: fate voi.
Del resto, Trump non ha più in mano grandi carte sul tema Ucraina. circondato solo da yes man inadeguati e affaristi inesperti, non ha nella sua squadra diplomatici o sherpa capaci di portare avanti una soluzione.
L’inviato speciale Steve Witkoff è un immobiliarista spaccone, Rubio e Vance sono totalmente inetti a gestire un dossier così complesso e pieno di trappole come quello ucraino.
L’atteggiamento da poker di Trump certo non aiuta: con le sue minacce, giravolte, dietrofront, il tycoon non può proporsi come mediatore stabile o credibile: nelle cancellerie internazionali è considerato un mattoide volubile, molto sensibile al fascino di Putin.
Tolto di mezzo Papa Leone, che si è detto disponibile a ospitare i colloqui, ma non a essere il mediatore, e quell’instabile mentale di Trump, chi può porsi come mediatore tra Mosca e Kiev?
Certo non la Cina, che a parole si dichiara equidistante, ma da 3 anni e mezzo fornisce armi e sostegno economico, e logistico, all’esercito russo.
Ci sarebbe l’Unione europea, che però ormai Putin vede come il vero unico nemico: il Cremlino non riconosce all’Ue lo status di neutralità segando così Bruxelles da un ruolo attivo nella trattativa di pace
Che lo spazio per la pace sia ristretto è comunque evidente a tutti: lo zar del
Cremlino, come ha rivelato lo stesso Trump durante la telefonata ai volenterosi, è ormai convinto di vincere, e non ha alcun interesse a trattare, men che meno con il Vaticano (si alienerebbe il mondo ortodosso: il Patriarca Kirill è in rotta da anni con la Santa Sede).
Del resto, come può Putin cedere, dopo 3 anni passati a vendere ai russi la “denazificazione” e la vittoria totale sugli usurpatori ucraini, in nome della ricostituzione del Russkij Mir (il mondo russo)?
Non può, perderebbe la faccia e potrebbe significare la sua fine. E finché non porterà a casa la sua “vittoria”, non può fare altro che sabotare ogni tentativo di negoziato.
(da Dagoreport)

This entry was posted on venerdì, Maggio 23rd, 2025 at 15:25 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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