IL GOVERNO SI FARA’, ANCHE CON IL MUSO LUNGO DI DI MAIO
GIORNATA CHE STEMPERA LE TENSIONI, CONTE FA TREMARE IL M5S ANDANDO AL COLLE… ALO STATO ATTUALE NON CI SARA’ ALCUN VICEPREMIER, MA DI MAIO NON MOLLA
C’è un elemento quasi da commedia dell’arte in questo gioco di maschere e di spartiti. Prima la drammatizzazione col presidente del Consiglio che sale al Colle, facendo spifferare che potrebbe rimettere il mandato.
Spiegano che lo ha fatto come strumento di pressione per piegare le resistenze dell’indomito Di Maio, aggrappato alla poltrona costi quel che costi.
Poi l’ottimismo, alla fine della riunione sul programma, con tutti che dichiarano che è cosa fatta, dopo due ore di cenni sull’universo.
Tale è: innominata la parola Tav, la parola giustizia, la Gronda e sul decreto sicurezza si concorda che, ovviamente, saranno recepite le indicazioni del Colle, ma non che saranno bruciati in pubblica piazza i testi del governo gialloverde con cui Salvini ha chiuso i mari.
E, come d’incanto, spariscono gli irrinunciabili dieci punti Di Maio, diventati poi venti, i cinque di Zingaretti, e tutti i nodi più divisivi dell’ultimo anno.
Anche il taglio dei parlamentati si farà , ma in data da destinarsi. Evviva, dichiarano tutti: “passi avanti”.
Passi avanti, si dice, anche se la questione di Di Maio non è stata risolta. Anzi, il capo dei Cinque stelle resiste, determinato a non rinunciare al suo ruolo da vicepremier anche se, così dicono fonti degne di questo nome, il professor Conte al Quirinale ha illustrato uno schema che, per tagliare la testa al toro tra la richiesta del Pd (un vice) e quella dei Cinque stelle (due vice), prevede di non farne nessuno.
Diciamolo subito, per misurare il tasso effettivo di tensione. La sensazione è che il governo si farà nonostante il muso del ministro del Lavoro che teme il ricollocamento. Anche il capo dello Stato, nel corso del colloquio (a borse chiuse), ha fatto capire che è arrivato il momento di mettere un punto fermo in questa storia andata oltre i limiti del consentito.
E che non ha alcuna intenzione di concedere all’avvocato Conte più tempo rispetto a quello previsto: entro mercoledì al Quirinale si aspettano che il premier incaricato salga con programma, lista dei ministri e un corredo di convincenti certezze, altrimenti si prende atto del fallimento del mandato e si procede con le riflessioni del caso.
Nel corso del colloquio l’incaricato, ostentando con la consueta considerazione di sè, ha dato assicurazioni al riguardo, su tempi, programma, nodi della squadra, pronto, in caso contrario, a trarne le conseguenze in tempi celeri.
Tranne poi, una volta sceso, allargare le braccia a domanda sulla questione Di Maio, al punto da far sorgere spontanea una domanda, nelle stanze del Nazareno: “È un pupazzo o è in grado di prendere in mano la questione ponendosi come interlocutore del Pd, in grado di dare garanzie? Chi comanda lì dentro?”.
Ecco, spetta a lui, dicono, risolvere la prima grana, su una questione dirimente per il Pd che — avete visto gli applausi a Calenda alla Festa dell’Unità — è indigeribile, se non per il gruppo dirigente, per la base sì, eccome.
In attesa che l’Elevato Conte dia una risposta, quella definitiva, in attesa del prossimo incontro con Zingaretti, dato per imminente ma non ancora in agenda, aleggia una domanda che certifica quanto il Pd sia “incastrato” nel meccanismo: “E se Conte e Di Maio giocano al poliziotto buono e a quello cattivo?”.
Non è dato sapere se, in questo negoziato che durerà fino all’ultimo minuto utile, il Pd è davvero disposto a far saltare tutto in nome del no a Di Maio.
Il punto è che, negli inquieti interrogativi sul “chi comanda lì dentro”, c’è la fotografia di un partito incastrato, in preda a una sorta di sindrome di Stoccolma propria di chi oggi chiede al carceriere di liberarlo della prigione che ieri ha contribuito a costruire. Ovvero chiede a Conte di togliere di mezzo Di Maio, che è evidentemente il capo politico grazie al cui ultimatum (subito dal Pd) lo stesso Conte ha ottenuto l’incarico.
Pare un gioco di parole, ma è sostanza politica.
Perchè poi, al netto delle bizze, dell’ansia poltronista e sui cedimenti caratteriali, Di Maio è ancora il capo politico dei Cinque stelle che magari non controlla i parlamentari ma è imbullonato nel cuore del sistema pentastallato, quella piattaforma Rousseau che si pronuncerà ad accordo fatto, prima che Conte salga al Quirinale.
Piattaforma che detiene ancora lo ius vitae ac necis del nuovo governo. Si capisce perchè non dice: “Prego, accomodatevi”.
In fondo, il sondaggio di Pagnoncelli sul Corriere fotografa un Movimento che cresce, di parecchi punti in pochi giorni, perchè ha ritrovato una centralità politica. È lo stesso Movimento dato per morto dopo le europee, umiliato da Salvini, col popolo in fuga e marginale nel gioco politico fino a pochi giorni fa.
Ecco, per quale motivo dovrebbe mai cedere, concedendo con benevolenza al Pd di scegliere, di fatto, il capo del Movimento? Perchè mai, ora che la rinnovata centralità consente al Movimento di chiudere l’accordo a condizioni alte oppure di tornare al voto con Conte, legittimato anche dall’indulgenza democratica come perfetto anti-Salvini? Ecco il punto.
Il sì al buio su Conte, senza discontinuità conclamata, senza garanzie alla luce del sole, voluto in nome della stabilità e della paura del voto da sindaci, presidenti di regione, il grosso del gruppo dirigente democratico ha paradossalmente invertito i ruoli, trascinando la discussione dalla “discontinuità ” alla trattativa sui ministeri.
Domanda, che per ora è senza risposta: il Pd è disposto ad andare al voto in nome del fatto che non si è trovata una quadra sui vicepremier?
Questa domanda se l’è posta anche Di Maio, molto più politico dell’Elevato. E infatti non molla, fino alla fine.
Tocca a Conte, e ci risiamo: “È un pupazzo o è in grado di prendere in mano la questione?”.
(da “Huffingtonpost”)
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