LA SOLITUDINE DI FRANCESCO
CREDO SI SIA RESO CONTO DI ESSERE UN UOMO STONATO IN UN’ORGIA DI ODIO PLANETARIO. E COME TALE PIURTORPPO DEL TUTTO SOLO
Era la Pasqua di cinque anni fa, la pandemia aveva bloccato il pianeta e quell’uomo vestito di bianco si muoveva da solo in una raggelante piazza San Pietro vuota. È un’immagine potentissima, iconograficamente al pari dei Boeing 767 contro le Torri Gemelle, che oggi non può non tornare alla memoria anche per la coincidenza che vuole la scomparsa di Bergoglio proprio negli stessi giorni della massima festività cristiana.
Ma se è vero che molto è stato detto e scritto a commento di quel rito senza assemblea, con il successore di Pietro che sotto una pioggia punitiva sembrava l’ultimo uomo su una terra da Day After, io vorrei condividere un’ulteriore riflessione che parta proprio da quei fotogrammi per cercare un altro senso nel pontificato di Francesco e nella sua solitudine.
Sì, solitudine. Non nascondo che soprattutto negli ultimi anni si è rafforzata in me la sensazione struggente di essere davanti a un uomo solo, purtroppo non dissimile da quello che il 27 marzo 2020 si stagliava sullo sfondo della piazza deserta.
Sarà che Bergoglio era salito al vertice della Chiesa assumendosi l’onerosa responsabilità di presentarsi con il sorriso, tratto sostanzialmente assente sia dal
volto sfigurato di dolore di Wojtyla sia da quello rigidamente trattenuto del teologo Ratzinger, cosicché la prima rivoluzione del Papa argentino passò proprio da un diverso modo di gestire la mimica facciale, finalmente sciolta in quella leggerezza gioviale che non per nulla fu mitologico attributo del Giullare di Dio.
Correva l’anno 2013, e un Vaticano adombrato da intrighi di Curia e da scandali indicibili si affidava al volto radioso di un latino-americano figlio del barrio e delle migrazioni, uno nel cui sangue scorreva la fantasia di Borges e magari pure l’infantile incanto giocoso che animava Cortázar.
Gli anni successivi stavano per convincerci che quel sorriso, unito a una certa bonarietà alla Roncalli, fosse l’unica terapia possibile per salvare la Chiesa dalle sue marcescenze e conferirle il ruolo di alleata di un’umanità sempre più indifesa dinanzi a una tecnologia debordante e onnivora.
Udienza dopo udienza, discorso dopo discorso, Bergoglio sembrava rimarcare con forza sempre maggiore il suo metodo del sorriso deflagrante, quasi sulla scia di un Gene Sharp aggiornato al terzo millennio, persuadendo milioni di persone che forse non tutto fosse perduto se in pochi anni un afroamericano arrivava alla Casa Bianca e un argentino amante del tango provava a cambiare il Vaticano. Ci abbiamo creduto. Noi e lui. Sembrava possibile, sembrava a un passo dal prendere forma e tradursi in realtà. Ma poi?
Poi solo tre anni dopo qualcosa iniziò a incrinarsi: con una dottrina e un linguaggio antitetici rispetto a quelli di Francesco, gli Stati Uniti sceglievano Trump per archiviare definitivamente l’era Obama. Il contesto aveva cominciato a virare, le energie stavano cambiando, le perturbazioni nascono sempre da avvisaglie nuvolose che vanno compattandosi prima che inizi il temporale vero e proprio.
Così fu, con il sempre più marcato successo dei sovranismi, con l’emergere di propagande violente contro i migranti, e poi il colpo di grazia del Covid un attimo prima dell’irrompere dei carri armati, a far retrocedere il Vecchio continente ai mostri in bianco e nero dell’epidemia di spagnola e dell’ultimo conflitto mondiale.
Lì, credo, è avvenuto qualcosa di drammatico: il sorriso accogliente e inclusivo di un pastore affabile si è trovato ad arginare la piena devastante di un fiume impazzito, all’improvviso carico di orrore e di morte, in una moltiplicazione esponenziale di cadaveri, ogni giorno, dal fronte ucraino e poi da quello mediorientale, in un crescendo di anatemi e di inni alla catastrofe, con i mari pieni di portaerei e i cieli fitti di missili d’ogni colore e provenienza, dai droni iraniani a quelli israeliani, dai ribelli Houthi ai bombardamenti russi sulla domenica delle Palme.
Contro tutto questo, poteva ancora qualcosa il magistero del santo di Assisi a cui Bergoglio si ispirava? Il verbo carezzevole e cordiale del Papa di Santa Marta riusciva a tenere testa a un’orgia di odio planetario in cui i tagliagole tornano di moda, si prendono di mira le ambulanze, si minacciano invasioni contro il diritto internazionale, e perfino i coreani di Kim Jong-un vengono
sparare a poche migliaia di chilometri da Roma?
Mi sbaglierò, ma lui per primo credo si sia reso conto di essere un uomo stonato, e come tale purtroppo del tutto solo. Deve essere stata dura, molto dura. Non sentirsi più capace di parlare la lingua di un mondo trasformato, sbandato, ebbro di vendetta, totalmente irriconoscibile rispetto a quello che ne aveva festosamente accolto l’elezione solo dieci anni prima.
Insomma, Bergoglio era adesso come quel famoso giorno in piazza San Pietro, pastore abbandonato da un gregge che parla una lingua diversa, che ama e sceglie condottieri con opposti valori e opposte bandiere.
Nelle ultime settimane, in occasione del lungo ricovero al Gemelli, filtrò la notizia che egli avrebbe dovuto sottoporsi a una riabilitazione per poter riprendere a parlare. Rimasi attonito, la trovai una metafora tragica ma nitidissima: colui che più di tutti aveva incarnato la speranza, d’un tratto è costretto al mutismo e deve re-imparare a mettere insieme le parole. Adesso apprendiamo che quella voce si è spenta del tutto, e a me non riesce non pensare che tutto ha un senso con quell’uomo bianco in una piazza spettrale, senza anima viva, presagio di un epilogo che non avremmo voluto vedere.
(da repubblica.it)
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