PERCHE’ E’ POSSIBILE LA CRISI DI GOVERNO
ESAURITI GLI IMPEGNI DEL CONTRATTO, PIAZZATE LE RISPETTIVE BUFALE, TANTO VARREBBE MONETIZZARE DA UN LATO E LIMITARE I DANNI DALL’ALTRO
“Siamo a un bivio”, dice chiaro e tondo Francesco Silvestri. “Per noi qualunque soluzione che coinvolga il tunnel di base è irricevibile”, aggiunge Luca Carabetta, che sulla Torino-Lione è probabilmente l’uomo più ascoltato da Luigi Di Maio.
“Ma figurati se facciamo una crisi di governo su questo”, prova a smorzare un 5 stelle di rango passeggiando per Montecitorio.
Nonostante tutto, nonostante tutti, il Movimento avrebbe da perdere più di tutti in caso di un precipitare degli eventi sul Tav. Eppure mai come in queste ore a Palazzo si respira un’aria strana.
La dinamica della giornata sparge un odore strano.
L’ambasciatore francese Christian Masset è stato questa mattina a Palazzo Chigi. O almeno da lì è uscito insieme a Giuseppe Conte, perchè la comunicazione del premier tira su una cortina fumogena sullo svolgersi di un eventuale faccia a faccia.
Quello che di sicuro avviene nel pomeriggio tra lo stesso presidente del Consiglio e Mario Virano, direttore generale della Telt, la società partecipata che si occupa dell’opera.
Dopo il quale l’ex professore di Firenze annuncia un’inusuale conferenza stampa, che fino all’ultimo è rimasta incerta sulla definizione di luoghi e orari. Poi si materializza a Palazzo Chigi alle 17, dice che “il metodo è fondamentale”, che l’analisi costi-benefici commissionata da Danilo Toninelli è “il punto di riferimento per qualsiasi decisione”, e, infine, che fosse per lui la Torino Lione non si farebbe.
La tensione è alle stelle. Fiutando l’aria i due colonnelli del nord Zaia e Fontana diramano una nota subito prima che parli il premier: “Impensabile bloccare i bandi”.
Quando si alza dalla sala stampa di Palazzo Chigi e se ne va la comunicazione della Lega mette in scena una vera e propria contro conferenza per cercare di smussare quel che è appena successo: “Non ci sembra che Conte si sia schierato, rimane mediatore”. La situazione si avvita.
Intanto il capo politico dei 5 stelle annulla un impegno che lo avrebbe visto presente a Montecitorio nel primo pomeriggio, applaude il presidente del Consiglio con una nota probabilmente confezionata in anticipo e convoca alle 20 i gruppi parlamentari. Un altro segnale da leggere con attenzione.
Perchè la consuetudine prevede appuntamenti il lunedì sera, in orario molto tardo. E perchè di lì a mezz’ora a Palazzo Chigi si tiene un Consiglio dei ministri.
Un clima da pre-crisi, si sarebbe detto in tempi normali. Ma questi di normale hanno ben poco, i tempi gialloverdi dei demagoghi di governo uniti dalle circostanze e da una mano sottile di colla chiamata contratto di governo.
E si intrecciano ragionamenti e riflessioni, a cavallo tra lezioni di scienza politica ai tempi del sovranismo e chiacchiere da bar.
Contratto alla mano, i 5 stelle sarebbero quelli che rinuncerebbero alla fetta più grossa. Fuori dal sacco rimangono ancora tutti i principali provvedimenti legati all’ambiente, dopo i rospi ingoiati su Tap e trivelle, come l’acqua pubblica e le politiche dei rifiuti zero.
Senza contare il salario minimo, già ampiamente annunciata come prossima battaglia campale dei Di Maio boys.
Uno stop arriverebbe anche sulle riforme portate avanti da Riccardo Fraccaro su referendum e taglio dei parlamentari, e su qualunque possibilità di mettere mano al conflitto d’interesse.
Perchè lo spazio per gli stellati di tornare al governo sarebbe esilissimo.
La strada della crisi prevede un recupero dell’identità e un serrate i ranghi per disperdere l’emorragia dei sondaggi.
Ma molti buoi sono ormai scappati dalla stalla, e il rischio di trovarsi un centrodestra a valanga che può far spallucce a chicchessia in caso di ritorno alle urne è concreto.
In questo clima strano e complesso, e dalla war room di Di Maio che si predica maggior prudenza. Anche perchè la Lega rimarrebbe orfana della sola flat tax. Che con alleati diversi sarebbe sicuramente più a portata di mano.
Ma sul cui costo pesano come macigni le clausole sull’Iva da disinnescare il prossimo autunno e l’imprevedibile reazione dei mercati in caso di avvitamento della situazione.
Certo è che entrambi i contraenti dell’accordo fondativo gialloverde la loro fetta consistente di torta l’hanno messa nel cassetto.
Citiamo in ordine sparso: sicurezza, immigrazione, legittima difesa, quota100, riforma dello sport, in casa del Carroccio; reddito di cittadinanza, anticorruzione e prescrizione, decreto dignità e riforma dei contratti, taglio delle pensioni d’oro e dei vitalizi, tutela dei truffati delle banche dalle parti dei 5 stelle.
Senza contare che il timing sarebbe perfetto per andare a votare con le europee.
Perchè procrastinando ci si scontrerebbe di nuovo con le obiezioni della difficoltà di votare in concomitanza con l’estate o a ridosso della manovra, fotogrammi di un fil già visto durante la lunga crisi del 2018.
E che il tema Tav è la pistola fumante per entrambi da sbandierare davanti ai rispettivi elettorati e cercare di uscirne il più puliti possibile.
Momento ideale vista anche la lenzuolata di nomine che hanno portato a casa i due vicepremier in pochissimi mesi.
Elencarle in fila è impressionante: Cassa depositi e prestiti, Consob, Rai, Ferrovie dello stato, Anas, Agenzia delle entrate, Agenzia del demanio, Anpal, Snam, Fincantieri, Inps, Inail.
E che, fatto salvo per Sace, i prossimi pezzi da novanta – Leonardo e Poste — arriveranno solo nel 2020.
Un’era geologica, considerando i tempi che viviamo, in cui la politica tritura tutto alla velocità di una fetta di pane e nutella pubblicata su Instagram.
Sulla bilancia i pro e i contro si soppesano e si compulsano, con i 5 stelle preoccupati di essere investiti dagli eventi nel pieno della riorganizzazione, quando ancora la regola del doppio mandato non è stata demolita, e che nella formulazione prospettata (quella che escluderebbe la sommatoria per i consiglieri comunali) spazzerebbe comunque via un’intera classe dirigente.
A partire dal capo. “In più non consideri una cosa”, ammicca sornione un leghista poco fuori dal Palazzo. Cosa? “Che il decretone non è ancora diventato legge. Se si va alla crisi sai quanto ci divertiamo?”.
(da “Huffingtonpost”)
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