RENZI AL BIVIO SUL PRESIDENTE: UN AVATAR O UN SUO PARI?
SARA’ CAPACE IL PREMIER DI CONDIVIDERE IL SUO POTERE?
All’inizio c’era qualcosa che potremmo chiamare il “lodo Putin”: eleggere Presidente della Repubblica un Medvedev qualunque, che permetta al Premier di controllare anche il Colle, oltre che Palazzo Chigi.
E poi chissà , magari scambiare posto a tempo dovuto?
Ammetto, l’espressione “lodo Putin” non ha mai attraversato le labbra del Primo Ministro. Ma nei fatti è la migliore definizione di quello che è stato, fin dal primo momento, il rapporto con il potere dell’attuale Premier.
Significativo che l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica coincida con il primo anniversario del governo. A febbraio di un anno fa Matteo Renzi sfondava le porte delle stanze romane con una manovra che lasciava senza fiato.
I suoi avversari ma anche molti dei suoi seguaci: appena nominato segretario del partito, con una valanga di consensi, otteneva da Giorgio Napolitano la poltrona di Palazzo Chigi, tradendo le rassicurazioni date ad Enrico Letta, e quelle date ai suoi elettori delle primarie, cui aveva promesso la fine di manovre di potere, la trasparenza nei rapporti fra cittadini e potere, nonchè la fine di governi senza legittimazione popolare, cioè non eletti.
Per quel che vale, tra i supporter che Renzi ha perso quel giorno ci sono anche io.
Fu quello un momento molto opaco della nostra storia pubblica, una occasione persa per rimettere sul binario un treno istituzionale che da parecchio aveva perso la sua rotta e continuava a macinare eccezioni alla regola, accrocchi, soluzioni trovate caso per caso – la fine extraparlamentare del berlusconismo, il governo tecnico Monti promosso e subito abbandonato, il pubblico abbattimento ( “come un cavallo azzoppato” ha ricordato l’interessato recentemente ) del leader Pd Bersani che aveva comunque vinto le elezioni, sostituito con il suo vice Letta, a sua volta presto abbandonato, fino alla vergognosa eliminazione su pubblica piazza, ma per mano nascosta, di ogni candidato alla presidenza della Repubblica e la nuova emergenza di un secondo mandato per Napolitano.
Dobbiamo proprio ricominciare da lì, direte? Certo.
Perchè di quel periodo, a dispetto di tante dichiarazioni, rimangono oscuri passaggi e motivazioni (come poi rimproverare ai cittadini la sfiducia nelle istituzioni? ).
E perchè è in quel momento che, invece di sanarsi, si è creata una nuova anomalia italiana; invece di interrompere la deriva eccezionalista di quel percorso, si è creato in quella occasione un leader che dell’eccezionalismo fa oggi la sua cifra.
Un anno dopo possiamo azzardare qualche risposta sulle ragioni che spinsero Matteo Renzi a fare la sua accelerazione su Palazzo Chigi.
Oggi abbiamo di lui una conoscenza migliore, e sappiamo che questo fenomenale leader non è un uomo che crede nella paziente costruzione di filiere, di luoghi di aggregazione sociale, di egemonie culturali. Niente Gramsci da quelle parti.
L’ex sindaco di Firenze è un uomo di gestione, di amministrazione nel senso più alto, un uomo del fare della cosa pubblica, la cui maggiore efficacia si espleta proprio nel massimo controllo delle leve di questa cosa pubblica.
In altre parole, Matteo Renzi è davvero il primo Sindaco d’Italia – pensa che il potere forte, individuale e decisionista sia lo strumento più importante per governare. Pensa a una equazione perfetta tra massimo potere del leader e massima efficacia.
In questo senso, si capisce ora bene perchè un anno fa sbarcò a Palazzo Chigi senza attendere: era ed è sua profonda convinzione che solo operando da una posizione di potere avrebbe potuto “agire”, cambiare l’Italia come voleva.
E se questo implicava un compromesso iniziale per fare il Premier, una messa con cui conquistare Parigi, Matteo Renzi scelse allora di considerare che valesse la pena.
Nulla di male in questo approccio. La politica è in generale sinonimo di potere.
Nella nostra storia recente da Craxi a D’Alema a Berlusconi, sono più i leader tentati da questo schema, di quelli che hanno provato a percorrere il sentiero della condivisione.
Nel caso di Renzi, l’inclinazione “decisionista” ha acquisito forza grazie anche a una richiesta popolare di azione e cambiamento – e infatti di tutti I leader nominati è quello che finora ha segnato più successi nell’accumulo di potere: con in corso una riforma in senso monocamerale del Parlamento, una riforma elettorale , e la trasformazione di fatto di Palazzo Chigi in un premierato forte, somma delle cariche di segretario del partito di Maggioranza, e di titolare di un Governo in cui i Ministri sono poco più di suoi avatar.
Insomma, di messe per Parigi Renzi ne ha trovato più di una in questo anno e direi che continua a trovarne.
Tutto bene, dunque? E perchè scriverne oggi, all’inizio della elezione del nuovo Presidente della Repubblica?
Semplice: perchè il progetto di ridefinizione dei poteri che Renzi ha avviato un anno fa, si conclude solo con la elezione del nuovo Presidente.
Non a caso c’e stata da parte sua fin dall’inizio una lunga preparazione al “lodo Putin” – con tutte le sbandierate intenzioni su una donna al Quirinale, o un grande direttore di orchestra, o un grande architetto.
Solo la esistenza di un Presidente che non gli faccia ombra , potrebbe infatti oggi lasciare al Premier l’agibilità di potere totale che sta inseguendo.
I modi del voto, e la personalità che verra’ scelta per il Colle, saranno dunque dirimenti. Porteranno il progetto renziano da una parte o dall’altra. Ne accentueranno il controllo sulle istituzioni o ne costituiranno il bilanciamento, ne ricostituiranno una dialettica interna.
Fin qui la posta in gioco. Il terreno di questo gioco tuttavia ha già cominciato a definirsi.
Nelle ultime settimane si sono accumulati i messaggi al Premier. E non solo da parte dei grandi elettori in Parlamento.
Da destra e da sinistra, dalle zone più scontente della politica a quelle più autorevoli, incluso una buona parte del mondo imprenditoriale favorevole a Renzi, si sente chiedere una personalità in grado di guidare il paese con “autorevolezza” ed “autonomia” in questo difficile momento.
Vale per tutti il discorso di dimissioni di Napolitano: la sostenuta sottolineatura della crisi economica, della necessita’ di tenere insieme il paese e’ stata in controluce l’enfatizzazione anche di forti istituzioni nel paese.
Ed e’ stato ancora Napolitano a tracciare non pochi giorni fa la strada da seguire per la scelta del suo successore, invitando ad evitare sia una scelta ” di pancia” sia una scelta “estetica”, cioè di pura immagine – di fatto così eliminando sia le tentazioni dell’antipolitica alla M5s, sia quella delle belle ma deboli figure proposte da Renzi. Persino una figura “tecnica” e’ stata considerate dal Colle troppo debole per un ruolo estremamente politico quale quello del Colle.
L’invito che arriva a Renzi è dunque molto chiaro: gli si chiede da molte parti un Presidente che non sia semplicemente una sua proiezione, ma un suo pari.
Accoglierà queste voci, il Premier? O le considererà un’ennesima trappola che gli prepara il caro vecchio establishment del paese?
Un ennesimo ostacolo dei gufi che non vogliono cambiare?
A questo incrocio suonerà fra pochi giorni la campanella d’inizio della elezione. Vedremo cosa Renzi sceglierà – perchè ne ha tutta la forza politica di numeri e di manovra- , e la sua scelta varrà per tutti noi.
Dove vada la mia preferenza, è chiaro da come ho cercato di raccontare in questa testata (che rimane uno spazio aperto a tutte le idee e voci) il primo anno dell’era renziana. Renzi e’ un politico di razza, arrivato sulla scena del nostro paese con una causa buonissima – rinnovare tutto. Ma la sua visione del potere e’ tale da essere un rischio per tutti, a cominciare da lui.
Nelle difficili circostanze raccontate così bene da Napolitano una guida solitaria, per quanto carismatica e potente sia, non basta.
L’efficacia di governo non nasce solo dalla capacità di un leader di prendere decisioni, ma da fatto che queste decisioni siano giuste.
E la forza delle decisioni non viene dai decreti, ma da quel sistema di equilibrio e controlli fra vari poteri istituzionali e sociali, la comparazione fra punti di vista, valori, e interessi, che ha sempre garantito che si arrivi a decisioni informate, anche quando non condivise.
La ragione per cui la democrazia occidentale è stata forte, anche dentro questa sua crisi strutturale, e’ esattamente la sua articolazione interna. In questo senso, rimane la migliore salvaguardia per tutti. Incluso di chi e’ nel punto più alto del potere.
Lucia Annunziata
(da “Huffingtonpost“)
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