ZECCHE E CAMICIE NERE, LA PARODIA DELLA POLITICA DIVENTATA AVANSPETTACOLO
LE PAROLE FETICCIO DI STAGIONI LONTANE… SALVINI RIDICOLO: VUOLE CHIUDERE I CENTRI SOCIALI CHE HA FREQUENTATO PRIMA DI INTERPRETARE LA PARTE DEL SEDICENTE “PATRIOTA”
Zecche rosse e camicie nere se le sarebbero volute dare di santa ragione a Bologna, o forse no, forse tutte e due le falangi speravano nell’interposizione della polizia, come poi è avvenuto (per fortuna). E alla politica, alla politica che cavalca l’onda degli scontri riesumando il vocabolario dei Settanta – zecche rosse è di Matteo Salvini, camicie nere del sindaco Matteo Lepore – si vorrebbe fare una sola domanda: ma non ne abbiamo avuto abbastanza? La sceneggiata muscolare messa in campo dagli opposti movimentismi a Bologna, a una settimana dal voto, è una parodia di guerra civile dalla quale gli adulti dovrebbero prendere le distanze in blocco, usando appunto il linguaggio degli adulti e non le parole-feticcio di stagioni lontane, riabilitate come sistemi sbrigativi per segnalare una posizione di principio.
Possono fare di meglio. Dovrebbero fare di meglio, e non per una generica prudenza ma per rispetto delle nostre orecchie e anche dei problemi dei bolognesi, degli emiliani, dei romagnoli che stanno decidendo a che santo votarsi per i prossimi cinque anni. Rivestono cariche importanti, viaggiano in auto blu con scorta, hanno potere, dispongono nomine, regolamenti e leggi: sentirli parlare come gli adolescenti in eskimo e bomber di mezzo secolo fa, le zecche e i neri di quando zecche e neri se le davano davvero, risulta ridicolo ma anche inquietante.
Viene da chiedersi se questo sia il bipolarismo 2.0 che ci aspetta, il mondo nuovo in sintonia con il dibattito pubblico americano, cane pazzo, tiranno, mangiagatti, stupratore, spazzatura, comunista, devi andare all’inferno.
La differenza che sfugge è che in America le parole, fino ad ora, sono rimaste parole: gattare e cani pazzi non si sono mai ammazzati tra di loro. Da noi l’esperienza del passato ci dice che possono diventare fatti, fatti pericolosi, e persino chi non ci è passato per diretta esperienza dovrebbe avere una voce interna che lo sconsiglia all’uso dell’eccesso verbale contro il nemico. Invece no, tutto è cancellato, col paradosso che il protagonista senjor di questa storia, Matteo Salvini, nei suoi trascorsi fu zecca rossa e frequentò uno di quei covi di zecche rosse (il Leoncavallo) di cui adesso la Lega chiede la chiusura, e ne parlò pure bene come luogo di discussione e confronto.
Magari è solo perché siamo anziani, ma tutto ciò che vediamo in questo dibattito appare una finzione. Finto il proclama «Riprendiamoci Bologna» di CasaPound e della nuovissima Rete dei Patrioti: ma cosa possono e vogliono riprendersi che non sono nemmeno candidati? Finto lo sdegno di chi condanna i centri sociali, perché era ovvia e annunciata la loro mobilitazione. Finta la tesi «il corteo andava spostato altrove» perché ovunque avessero sfilato quelli ci sarebbe stata una contro-manifestazione di quegli altri. Finti, soprattutto, gli stati d’animo esibiti dalle due fazioni: i neri che rivendicano il diritto a manifestare come se non lo avessero, come se fossimo nel ’77 delle piazze interdette alla destra e non nel 2024 del governo della destra, e i rossi che reagiscono come se fossimo nel ’67 del golpe in Grecia, o nel ’73 del golpe in Cile, e l’affacciarsi in pubblico di certe formazioni segnalasse un progetto di rovesciamento armato delle istituzioni.
Di vero, alla fine, c’è solo l’ennesima campagna in cui entrambe le parti cercano di portare lo scontro zecche rosse-fascisti al centro della scena, giudicando la cosa conveniente per mobilitare l’elettorato di riferimento e difendere i rispettivi interessi nella imminente sfida delle Regionali. Vedremo domenica prossima se sarà servito, e in quali proporzioni.
(da La Stampa)
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