Marzo 7th, 2017 Riccardo Fucile
IL POST DI UNA ESPONENTE LEGHISTA APRE LA SEQUENZA… “CARICO LA CARABINA E MI APPOSTO”… MA LA POLIZIA QUANDO PENSA DI ARRESTARE QUESTI DELINQUENTI? CI DEVE SCAPPARE IL MORTO?
La visita dell’ex ministra Cècile Kyenge, oggi parlamentare europea, a Medesano, in provincia di
Parma, è stata accompagnata da una sfilza di insulti su facebook.
A scatenare gli utenti sul social network un post apparso sulla pagina della leghista Silvana Parti, parente della segretaria del Carroccio a Fidenza Samantha Parri.
Kyenge era già stata oggetto di pesanti offese quando Fabio Rainieri, ex parlamentare della Lega Nord e attuale vicepresidente dell’assemblea legislativa emiliano-romagnola, pubblicò sul proprio profilo facebook una foto dell’allora ministra per l’Integrazione con il volto ritoccato in modo da apparire una scimmia.
Accusato di diffamazione con l’aggravante della discriminazione razziale, i giudici l’hanno condannato a un anno e tre mesi e a un risarcimento di 150 mila euro.
“Buon giorno Padania, finalmente oggi qui a Medesano arriva l’onorevole Kyenge, personaggio utile? A cosa?” scrive la Parti.
A quel punto, in risposta, iniziano numerosi commenti denigratori e violenti nei confronti della deputata.
“A rompere i coglioni”, “a salutare i migranti attuali e futuri”; “onorevole de che?”; “gli ho fatto la spesa, ho preso tanta frutta” scrivono alcuni haters seguiti da altri che definiscono la Kyenge “personaggio diversamente bianco”.
C’è chi arriva a postare: “Carico la carabina e mi apposto, chi mi rimborsa le munizioni?”, frase che genera risposte dal tono: “Non dovresti far fatica trovare il rimborso spesa”, “io ti pago di più”.
E si continua: “Non è desiderata da nessuno, mandatela al suo paese, Medesano sarebbe felice”; “devono decidere quanti extra mettere, vedrete”; “c’è lo zoo?”; “oggi le abbiamo comprato un casco di banane”; e ancora: “Per quanto mi riguarda ritengo che l’abbronzata non meriti il 50% del carburante per arrivare a Medesano. Non ho nulla – argomenta l’autore – contro i diversamente bianchi, anche se, culturalmente (e non solo), ci sono anni luce di diversità tra noi e loro”.
E ora, dopo i nuovi e pesantissimi insulti razzisti sul web indirizzati all’ex ministra e attuale parlamentare europea il sindaco di Medesano Riccardo Ghidini ha annunciato che denuncerà i responsabili alla magistratura: “La nostra comunità è solidale e non sarà infangata da un piccolo gruppo – ha sottolineato – Valuteremo le mosse opportune per tutelarci da tutto questo”.
Intanto nella vicina Fidenza è ancora polemica politica dopo gli insulti rivolti al sindaco Andrea Massari in occasione della visita dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi a novembre 2016.
“Mi viene augurato un ‘cancro letale’, vengo chiamato ‘la merda cittadina’, ‘handicappato’, qualcuno invita alla ricerca di un cecchino, un professore che insegna a Fidenza rivela dalla sua pagina fb — seguita anche dai suoi studenti — di aver pensato di ‘prendere una spranga e spaccare la testa a sta merda’.
E il Consiglio comunale di Fidenza – scrive Massari del Pd – invece di “riunirsi per prendere una posizione condivisa, per dire no ai manganellatori da tastiera, da qualunque parte provengano” viene convocato dalle minoranze per “cercare di processarmi ribaltando la realtà , per dire che sto cercando — teoria che ho già sentito — di intimidire i cittadini che hanno offeso e insultato, chiamandoli a rispondere di parole che a mio modo di vedere non possono far parte del dizionario di una comunità solidale come la nostra”.
“Trovo incredibile e surreale – conclude – che di fronte alle montagne di odio che sono state smosse, il problema diventi chi denuncia le minacce e le vittime siano coloro che mi hanno augurato di morire in un modo atroce. Trovo incredibile fino a che punto possono condurre le opposizioni il loro livore e la loro cattiveria politica”.
(da “La Repubblica”)
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Marzo 7th, 2017 Riccardo Fucile
GIORNALISTI SOTTO RICATTO: O ACCETTANO I MONOLOGHI O I SIGNORINI NON PARTECIPANO ALLA TRASMISSIONE… RAI, MEDIASET E LA7 FACCIANO IL LORO MESTIERE, QUESTO NON E’ GIORNALISMO
In principio era il Verbo e il Verbo era presso Beppe e il Verbo era il Blog.
Il Blog vietava ai parlamentari del MoVimento 5 Stelle di andare in televisione (e ancora oggi il codice di comportamento lo sconsiglia) e per questo il senatore Marino Mastrangeli fu il primo cittadino-portavoce espulso per essere andato “troppo” in televisione.
Era il 2013 e i tempi sono cambiati, ora gli esponenti del 5 Stelle vanno regolarmente in televisione ma ci vanno alle loro condizioni, ovvero evitando il dibattito.
È noto infatti che per i talk show e le trasmissioni televisive di approfondimento politico ci sia un solo modo per avere l’intervista di Alessandro Di Battista o Luigi Di Maio: il faccia a faccia con il conduttore.
Interviste apparecchiate le ha chiamate ieri Stefano Esposito, senatore del Partito Democratico, durante una puntata di Tagadà trasmissione de La 7 dove era andato in onda l’ennesimo monologo senza contraddittorio di Luigi Di Maio.
Così come sul Blog e su Facebook lo Staff e Grillo non hanno mai risposto agli utenti allo stesso modo i cittadini-portavoce scelgono accuratamente con chi parlare, o meglio, con chi non parlare in modo da evitare il confronto.
In questo modo ad esempio Di Maio può parlare per giorni dei pericoli e dei rischi del progetto dello Stadio della Roma oppure spiegarci che le opere pubbliche si faranno lo stesso senza che il giornalista o l’intervistatore metta in dubbio quello che dice.
E dal momento che non c’è il contraddittorio e Di Maio non è costretto a confrontarsi con una posizione alternativa alla sua il messaggio che passa è che l’esponente pentastellato stia dicendo tutte cose giuste e corrette.
Anzi, che le cose vere le dicano solo i politici del 5 Stelle perchè sono gli unici che non vengono interrotti quando parlano.
Più che interviste sono videomessaggi e bisogna dare atto al MoVimento di essere riuscito grazie ai continui lamenti sulle “televisioni che sono contro il MoVimento 5 Stelle” a costringere i conduttori televisivi a piegarsi alle loro condizioni.
Questa situazione è frutto di una scelta precisa dello staff della Comunicazione ed era stata denunciata già da Paolo Becchi, il professore ed ex ideologo dei pentastellati che aveva spiegato che sono i giornalisti a permettere ai 5 Stelle di sottrarsi al confronto organizzando interviste “su misura” per i cittadini-portavoce:
Non è vero che le televisioni sono contro il M5S; la verità è che loro vanno e scelgono con chi confrontarsi, mentre i conduttori glielo permettono. E cercano di evitare gli ospiti che potrebbero metterli in difficoltà . Io non me la prendo con il direttore del programma ma con il fatto che c’è chi si fa le regole del gioco su misura; dovrebbero accettarsi di confrontarsi con tutti. Come mai siamo arrivati al punto che se Becchi è invitato in un programma televisivo l’Ufficio di comunicazione dice ‘Noi veniamo ma a patto che ritiriate Becchi’? Questo è il dato di fatto.
Che sia in studio o con un collegamento esterno il parlamentare del M5S dialoga solo con il conduttore e non con gli altri ospiti se questi sono esponenti politici di altri partiti.
Ci sono rare eccezioni, ad esempio qualche giorno fa Giulia Sarti era ospite a Bersaglio Mobile di Enrico Mentana che evidentemente è riuscito ad imporsi sulle regole della Comunicazione del MoVimento e in studio a fianco della Sarti c’era anche David Ermini del Partito Democratico.
Ma si tratta appunto di un’eccezione, perchè — e basta guardare i video estratti dai talk show e caricati sul canale YouTube M5SParlamento — per rendersi conto che la stragrande maggioranza degli interventi televisivi dei parlamentari a 5 Stelle — soprattutto quelli di Di Battista e di Di Maio — sono in solitaria.
Che si tratti di Agorà , di Matrix, della Gabbia. di Carta Bianca o di Piazza Pulita i pentastellati sono sempre da soli e al massimo oltre a quelle del conduttore rispondono a domande poste dai giornalisti invitati in studio.
Questo sottrarsi al confronto politico in televisione serve ovviamente a marcare la differenza con i “politici di professione” e a non rischiare di farsi cogliere in fallo su alcuni temi.
Il politico a 5 Stelle non viene mai contestato, non è costretto ad alzare la voce e a strepitare come abbiamo visto fare ad altri parlamentari durante accesi — e spesso poco onorevoli — litigi televisivi.
Di fatto il MoVimento utilizza la televisione come se fosse lo spazio del Blog, anzi, grazie a questo escamotage le interviste possono tranquillamente essere utilizzate come video di propaganda già fatti e finiti.
Non c’è bisogno di affaticarsi a fare tagli, gli elettori che li vedono tramite la Cosa o i vari canali di disseminazione pentastellati non devono sentire le obiezioni di altri esponenti politici ma sentono solo la versione “a 5 Stelle” di un dato fatto o di una certa questione: il canale ufficiale dei deputati del MoVimento ha 136.266 iscritti e 52.037.533 di visualizzazioni).
In buona sostanza i 5 Stelle sono riusciti a creare attorno a loro un vuoto, un intercapedine che li separa dagli altri esponenti politici.
Deputati e Senatori con i quali giocoforza si confrontano quotidianamente in Aula e in Commissione ma evidentemente non è “opportuno” riproporre quei dialoghi al pubblico televisivo.
Non essendo riusciti ad aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno (o avendo visto che non era poi così conveniente) i pentastellati hanno creato una bolla televisiva all’interno della quale esistono solo loro.
Per il partito che aveva iniziato la sua avventura politica con le dirette in streaming delle trattative con Bersani e Renzi si tratta di un bel cambiamento.
Risulta agevole a quel punto utilizzare quei titoli acchiappa click come “Alessandro Di Battista ASFALTA il PD” o altre amenità del genere.
Se il PD (o l’altra parte politica) non appare e non può obiettare significa che è stato ridotto al silenzio dalle argomentazioni pentastellate quando in realtà il silenzio è stato creato artificialmente per far sentire una sola voce.
Quando non è fisicamente presente in studio Alessandro Di Battista preferisce collegarsi con un gruppo di attivisti alle spalle, per far vedere che lui è ggente e che sta in mezzo al popolo (arrivando a vette di interpretazione gentista come il finto sfogo “io voglio votare”).
Di Maio invece, che da sempre ha scelto un profilo più istituzionale, invece si collega dal suo ufficio di Vicepresidente della Camera quasi per invitare telespettatori e attivisti a vedere che sta lavorando per loro all’interno del Palazzo.
Una scelta non casuale perchè Di Battista e Di Maio sono complementari e rappresentano le due anime del MoVimento: quella più movimentista e sognatrice e quella più pacata e riflessiva. Due anime però che scompaiono all’unisono quando il M5S è nei guai avvalendosi della facoltà di non rispondere.
I 5 Stelle sono stati bravi, bisogna ammetterlo, perchè sono riusciti a sfruttare il desiderio dei giornalisti di avere qualcosa di apparentemente impossibile da ottenere per imporre le loro condizioni sulla presenza televisiva dei loro esponenti di spicco. Ma al tempo stesso, tra interviste concordate con giornalisti e ospiti graditi il M5S si sta comportando come quei politici che rifiutano il confronto e parlano solo attraverso comunicati ufficiali.
I giornalisti però hanno le loro responsabilità perchè i monologhi a 5 Stelle possono andare bene per uno spettacolo teatrale o uno show su Netflix ma non giovano al dibattito politico.
Qualcuno deve far presente ai pentastellati che fare politica è accettare il confronto con gli altri, perchè oggi a farne le spese sono gli esponenti dei partiti politici, domani potrebbero essere i giornalisti e chiunque venga identificato come nemico o non degno di prendere parte al confronto.
Del resto stiamo parlando del partito dove alcuni esponenti si vantavano di non stringere la mano agli avversari politici.
(da “NextQuotidiano“)
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Marzo 7th, 2017 Riccardo Fucile
CONTESTATO IL RUOLO DEL VICESINDACO LUCA BERGAMO CHE PIAZZA LE SUE CONOSCENZE
Ci sono troppi ex Partito Democratico scelti dalla Giunta Raggi. 
Dopo il caso di Luca Montuori, che ha rivendicato il suo passato di veltroniano in un’intervista alla vigilia della sua nomina come assessore all’urbanistica, il MoVimento 5 Stelle comincia a vedere come il fumo negli occhi il vicesindaco Luca Bergamo, di cui lo stesso Montuori era caposegreteria, ritenendolo responsabile dell’«invasione».
Racconta oggi il Messaggero che un nuovo punto di contrasto è stata la scelta dei membri del CdA del Teatro di Roma:
Va così in porto tra diversi malumori interni l’operazione voluta da Bergamo. L’antipasto della tensione grillina sull’autonomia del vicesindaco c’è stato qualche ora prima con i due membri scelti dal Campidoglio per il Consiglio di amministrazione del Teatro di Roma.
Lo scontro in commissione con le critiche della grilline Monica Montella e Gemma Guerrini che si sono astenute sul parere alla nomina dei due componenti — Emanuele Bevilacqua e Cristina Da Milano — scelti dal Comune per la squadra di una delle più importanti realtà culturali della Capitale.
Profili scelti con un bando pubblico. Eppure la Da Milano non era affatto sconosciuta al vicesindaco che ha vagliato i curricula sottoponendoli poi alla Raggi.
Esperta di marketing culturale, si era candidata con la lista civica di Sabrina Alfonsi nel I Municipio, con tanto di post a favore di Bergamo.
Ecco perchè le due consigliere grilline hanno sgranatogli occhi. Tanto che la Montella al termine della riunione, trai corridoi, ha commentato: «E poi siamo noi quelli del cambiamento…».
Ed è sempre il quotidiano romano a fare ironia sull’«impero bergamasco» che Luca Bergamo starebbe costruendo: a dicembre i galloni di vicesindaco tolti a Daniele Frongia, le nomine “amiche” nei cda (Biblioteche e teatri di Roma), il tour in diretta Facebook con Beppe Grillo (e Raggi) al Valle, la dichiarazione congiunta con Mauro Baldissoni sullo stadio della Roma (accordo poi bloccato per l’irritazione dei grillini) e adesso il nuovo assessore all’Urbanistica, che era il suo capo segreteria nonchè antico compagno.
Egemonia culturale, direbbe qualcuno.
(da “NextQuotidiano“)
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Marzo 7th, 2017 Riccardo Fucile
L’IMPIANTO, A DIFFERENZA DI QUELLO DELLA JUVENTUS, NON SARA’ DELLA SOCIETA’ DI CALCIO, MA DEGLI AMERICANI DI NEEP ROMA HOLDING
“Famo ‘sto stadio!”, aveva sollecitato con veemenza in diretta televisiva l’allenatore dell’As Roma, Luciano Spalletti, all’inizio di febbraio.
A supportarlo, poco dopo, nonostante i dissapori tra i due risalenti all’anno scorso, era arrivato il “Pupone” Francesco Totti, che aveva vergato su Facebook: “Al fianco del mister e della società : vogliamo il nostro Colosseo moderno, una struttura all’avanguardia per i nostri tifosi e per tutti gli sportivi! #FamoStoStadio”.
A rincarare la dose era stato poi il presidente della Roma nonchè capofila degli azionisti americani, James Pallotta, che aveva sentenziato che in caso di mancata costruzione dello stadio di proprietà a Tor di Valle “sarebbe una catastrofe per il futuro dell’As Roma, del calcio italiano, della città di Roma e francamente per i futuri investimenti in Italia”.
Il clima si è fatto più disteso poi il 26 febbraio, quando, in serata, la sindaca di Roma, Virginia Raggi, ha annunciato di avere raggiunto un accordo con l’As Roma e il costruttore Luca Parnasi, proprietario dei terreni su cui sorgerà la struttura sportiva.
Ma perchè alla Roma e al suo presidente e proprietario Pallotta sta così tanto a cuore lo stadio di proprietà ?
E chi sarà a possedere l’impianto?
La squadra di calcio, come nel caso della Juventus, o i suoi principali azionisti, gli americani riuniti sotto il cappello della Neep Roma Holding (che mentre attendono lo stadio continuano a sborsare denaro per il club giallorosso)?
La relazione finanziaria semestrale al 31 dicembre 2016 dell’As Roma fornisce qualche spunto utile per provare a rispondere a queste domande.
“In data 16 maggio 2016 — si legge innanzi tutto nel documento — è stata perfezionata un’operazione volta al finanziamento dei costi preliminari di sviluppo connessi al progetto ‘Stadio della Roma’ mediante la sottoscrizione di un contratto di finanziamento, per un ammontare massimo pari a 30 milioni, con Goldman Sachs International”.
Quindi, per finanziare il progetto, la società giallorossa si è rivolta a Goldman Sachs. In altri termini, alla banca americana con cui abitualmente lavora Pallotta e che già è la principale finanziatrice dell’As Roma.
Sempre a Goldman Sachs, infatti, è da ricondurre gran parte dell’esposizione bancaria del club calcistico. E’ vero che dalla relazione semestrale emergono circa 158 milioni (144,8 in scadenza oltre i 12 mesi più 13,3 entro l’anno) di prestiti con Unicredit, risalenti al contratto siglato nel febbraio del 2015, ma è altrettanto vero che la banca guidata da Jean Pierre Mustier risulta essersi interamente “coperta” proprio con Goldman Sachs, che secondo alcune ricostruzioni potrebbe avere piazzato parte di questo debito anche presso altri investitori, come per esempio fondi hedge. L’esposizione della Roma da 158 milioni sarebbe quindi, in ultima analisi, in capo alla banca statunitense.
Ed è proprio con questo argomento che dal quartier generale di Trigoria respingono con forza le ipotesi, circolate in ambienti finanziari, che nei mesi scorsi Unicredit, complice la nuova gestione targata Mustier (l’ad, non amante del calcio, ha già interrotto la sponsorizzazione della Champions League) abbia chiesto il rientro dei debiti al club.
E così Goldman Sachs finanzierà ora anche la costruzione dello stadio.
Nel dettaglio, si legge ancora nella relazione semestrale, “As Roma, Neep Roma Holding, azionista di maggioranza della società , Stadio Tdv (StadCo), società deputata alla gestione e al finanziamento del progetto ‘Stadio della Roma’, il cui capitale sociale è interamente detenuto da Neep, e As Roma Spv llc, azionista di maggioranza di Neep, sono state coinvolte a vario titolo nell’operazione nell’ambito della quale è stato sottoscritto un contratto di finanziamento per un ammontare massimo pari a 30 milioni tra (i) Goldman Sachs International (…) e (ii) StadCo, in qualità di beneficiario”.
Obiettivo dell’operazione è “finanziare quest’ultima al fine di sostenere determinati costi preliminari di sviluppo connessi al progetto ‘Stadio della Roma’”. Quindi, beneficiaria del finanziamento da 30 milioni è la società Stadio Tdv, che è interamente controllata non già dalla Roma ma dai suoi azionisti americani (Neep).
Il prestito per lo stadio è corredato da tutta una tela di accordi laterali che rendono l’operazione ancora più complessa.
Tanto per cominciare, la Roma “ha sottoscritto, congiuntamente alle altre società interessate, un contratto di finanziamento infragruppo ai sensi del quale metterà a disposizione di StadCo una linea di credito rotativa”.
Tale finanziamento infragruppo “funge da garanzia” al rimborso di quello contratto verso Goldman Sachs da StadCo “nel caso in cui quest’ultima non fosse in grado di rimborsarlo autonomamente e non come fonte primaria di rimborso dello stesso”.
Ma non è ancora finita, perchè, “ai sensi del finanziamento infragruppo”, la Roma e le società riconducibili ai soci americani (Neep e As Roma Spv) “hanno sottoscritto un contratto di garanzia in base al quale (i) Neep pagherà alla società giallorossa ogni ammontare dovuto da quest’ultima a StadCo in base al finanziamento infragruppo, per un massimo pari a circa 32 milioni; e (ii) TopCo (cioè As Roma Spv, ndr) indennizzerà Neep per un massimo pari a circa 32 milioni”.
Quindi, riassumendo e tentando di semplificare: Goldman Sachs finanzia per 30 milioni la società posseduta dai soci americani guidati da Pallotta, Stadio Tdv. Se quest’ultima non riuscisse a rimborsare autonomamente la banca statunitense, l’As Roma pagherebbe il debito, ma sarebbe a sua volta “risarcita” fino a 32 milioni dagli azionisti americani. Che quindi, se la loro società Stadio Tdv non riuscisse a restituire a Goldman Sachs il denaro per la costruzione dello stadio, sarebbero gli ultimi della catena a dovere aprire il portafogli.
(da “BusinessInsider“)
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Marzo 7th, 2017 Riccardo Fucile
GIRI DI COCAINA DENTRO E FUORI LO STADIO, POI I RAID INCAPPUCCIATI… DENUNCIATO ANCHE IL FIGLIO DEL PROCURATORE CAPO DI BRESCIA
I “bomboni” e le torce sparate contro la polizia intervenuta per fermare un assalto a un pullman di
tifosi interisti. Le cariche in pieno centro, in mezzo allo shopping del sabato pomeriggio, come non si erano mai viste prima a Bergamo.
Gli scontri di quel 16 gennaio 2016 al termine di Atalanta-Inter erano rimasti impressi nella memoria di chi c’era: ma tutto il resto, o meglio il “contorno” – lo spaccio sistematico di cocaina prima e durante le partite, gli scontri scatenati sotto effetto delle sostanze, le rapine, i tentativi di estorsione e le spedizioni punitive per recuperare i crediti delle attività di spaccio – è un mondo che viene a galla adesso, almeno da un punto di vista investigativo.
La Squadra Mobile di Bergamo e lo Sco della polizia di Stato ci hanno lavorato su per un anno e mezzo: il risultato, per ora, sono venti persone arrestate, quasi tutti ultrà atalantini.
Tra gli indagati anche il figlio del procuratore capo di Brescia Tommaso Buonanno. Francesco Buonanno ha avuto la misura cautelare dell’obbligo di firma disposta dal gip. Il figlio del magistrato dovrà presentarsi il sabato e la domenica in questura a Bergamo per firmare.
In mattinata le forze dell’ordine hanno effettuato una perquisizione a casa del figlio del magistrato: è accusato di detenzione e spaccio di droga. Ma lo spaccio era “una attività sistematica per una parte degli ultras nei confronti dei supporter”, ha spiegato il direttore dello Sco, Alessandro Giuliano. Tra i 42 indagati figura anche Claudio “Bocia” Galimberti, leader della curva atalantina lontano dagli stadi perchè oggetto di nove Daspo.
Dalle indagini emerge quello che, secondo gli investigatori, era diventato una sorta di modus operandi adottato dalle frange più estreme della Curva Nord: caricarsi di coca prima di incappucciarsi e entrare in azione all’esterno dello stadio per cercare lo scontro con le tifoserie avversarie.
Gli scontri dopo Atalanta-Inter del 16 gennaio di un anno fa sono stati uno dei casi più eclatanti. Stando all’indagine denominata “Mai una gioia” (dal titolo di uno striscione esposto in curva dagli ultrà , anche una loro frase abituale), c’era dunque un giro di spaccio nell’ambiente della tifoseria organizzata nerazzurra. Alcuni dei soggetti fermati sarebbero stati anche protagonisti di rapine.
La polizia ha stretto il cerchio intorno a un gruppo di italiani, a un cittadino albanese e un serbo, in prevalenza ultras dell’Atalanta, dediti alla cessione di ingenti quantitativi di droga, anche tra i tifosi della tifoseria stessa.
Tra gli indagati figurano anche un 73enne e 63enne. Le misure cautelari firmate dal giudice delle indagini preliminari (i reati di cui si parla sono resistenza a pubblico ufficiale, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, rapina) riguardano dunque una ventina di persone:
11 finiranno in carcere, le altre 9 saranno sottoposte ad altri provvedimenti, tra arresti domiciliari e obblighi di firma. I particolari dell’inchiesta verranno spiegati nel dettaglio dal procuratore della Repubblica di Bergamo, Walter Mapelli, dal sostituto Gianluigi Dettori e dal questore Girolamo Fabiano, con i dirigenti dello Sco.
Si torna dunque a parlare degli ultrà dell’Atalanta, e ancora una volta per casi di cronaca nera e giudiziaria.
Uno spartiacque, in questa lunga storia di tifo e violenze, era stato il maxi processo a carico di 143 persone (tra cui anche alcuni ultrà del Catania) per una scia di episodi tra i quali l’assalto alla Berghem Fest di Alzano Lombardo ad agosto 2010: bombe carta lanciate durante la manifestazione della Lega Nord per protestare contro l’introduzione della tessera del tifoso voluta dall’allora ministro dell’Interno, Roberto Maroni.
Il maxi processo agli ultrà , procedimento inedito per Bergamo, si era chiuso in primo grado con condanne per 47 anni, 10 mesi, 10 gg di carcere e 30 mila euro di multe, nel complesso, a 50 supporter atalantini (37 quelli assolti).
L’imputato numero 1 era proprio Claudio “Bocia” Galimberti. Per lui il pm Carmen Pugliese aveva chiesto una pena di sei anni: il giudice Maria Luisa Mazzola l’ha dimezzata (tre anni). La sentenza di appello, a novembre 2016, ha confermato nel complesso il verdetto di primo grado ma ha ridotto di un mese le pene ai tifosi che hanno partecipato all’assalto di Alzano Lombardo perchè il reato di radunata sediziosa è stato considerato prescritto (anche la pena inflitta a Galimberti è stata scontata a 2 anni e 11 mesi).
Gli ultrà e il loro capo, dunque. Quel “Bocia” che, nonostante i Daspo, secondo la Digos continua a essere il leader indiscusso della curva atalantina. Tra le misure applicate a Galimberti anche la sorveglianza speciale (riservata solitamente ai mafiosi): la sera del 5 settembre 2015, fresco di notifica di un nuovo Daspo quinquennale, mentre allo stadio Comunale l’Atalanta giocava per il trofeo Bortolotti, il Bocia si presentò in questura spalleggiato da un centinaio di ultrà .
A quanto pare non fu solo un sit-in di protesta: stando alle accuse Galimberti – già protagonista in passato di un’aggressione ai danni del giornalista de l’Eco di Bergamo, Stefano Serpellini – entrò in questura arrabbiatissimo, minacciando e insultando il dirigente della Digos, Giovanni Di Biase.
Comportamento che gli costò una denuncia per minacce aggravate e oltraggio a pubblico ufficiale.
(da “La Repubblica“)
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Marzo 7th, 2017 Riccardo Fucile
NELLE 65 FONDAZIONI POLITICHE LA TRASPARENZA E’ UN OPTIONAL: IL 93,3% NON RENDE ACCESSIBILE L’ELENCO DEI SOCI E DEI DONATORI
Nella informativa degli investigatori del NOE, nell’ambito dell’inchiesta Consip, è spuntato anche il nome del senatore Gaetano Quagliariello che fece un finanziamento di 50 mila euro alla Fondazione Magna Carta, della quale il senatore di Idea è presidente.
Lui stesso ha chiarito che si tratta di un contributo, tracciato, del 2016: «Fondi destinati a un progetto editoriale, per il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, La Verità ».
La società della moglie di Romeo nel 2014 ha donato 60 mila euro alla Fondazione Open (motore del fundraising di Renzi).
Il Corriere della Sera in un articolo a firma di Dino Martirano oggi racconta il proliferare delle fondazioni, ovvero di quegli enti dotati di un patrimonio destinato a determinati scopi: «possono essere culturali o politici, religiosi o scientifici, in ogni caso devono essere esplicitati nell’atto costitutivo e nello statuto (insieme a nome, sede, patrimonio). Negli ultimi anni, dopo il taglio del finanziamento pubblico ai partiti, è lievitato il numero delle fondazioni politiche: se ne contano 65».
Nelle 65 fondazioni politiche (tante ne ha censite Openpolis), il cui numero è lievitato dopo l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, la trasparenza è un optional: il 93,33% della fondazioni omette, con la scusa della privacy, di rendere accessibile l’elenco dei soci e dei donatori.
Poca trasparenza, dunque, anche se poi i 60 mila euro donati nel 2014 dalla società della moglie di Romeo alla Fondazione Open (il motore del fundraising di Matteo Renzi) erano stati oggetto di un’intervista dell’allora sindaco di Firenze: «Io quel finanziamento non l’avrei accettato…».
Ma quei soldi andavano restituiti? «Non so, chiedetelo alla Fondazione», tagliò corto Renzi.
Per il resto, il biglietto da visita di Open ce l’ha in tasca il presidente, l’avvocato Alberto Bianchi, che oltre a essere consigliere d’amministrazione dell’Enel è «arbitro» nelle controversie che investono la Consip.
(da “NextQuotidiano”)
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Marzo 7th, 2017 Riccardo Fucile
LA SCISSIONE E L’INCHIESTA CONSIP INDUCONO A VOTARE ALLA SCADENZA NATURALE DEL MANDATO
Matteo Renzi ha cambiato idea sul voto a settembre. Dopo aver provocatoriamente proposto di aprire
le urne ad aprile e poi aver indicato in più occasioni la via delle elezioni anticipate per chiudere la legislatura, adesso l’ex presidente del Consiglio si è rassegnato a vedere nel 2018 come data per il voto.
Lo fa tornando a proporre una commissione d’inchiesta con dodici mesi d’indagine all’orizzonte per le banche che dovrebbe indagare per i prossimi dodici mesi sui tanti scandali e scandaletti finanziari che hanno travolto il sistema del credito popolare in questi anni e minato la credibilità del suo governo con la faccenda del bail in e quella di Banca Etruria.
Ma soprattutto lo si evince dall’articolo che Maria Teresa Meli pubblica oggi sul Corriere della Sera.
Un articolo nel quale si mettono in fila tutti i momenti in cui Matteo Renzi cambia atteggiamento nei confronti del governo di Gentiloni elogiandolo per le sue uscite televisive e si segnala che la scissione e il caso Consip stanno mettendo in difficoltà il Partito Democratico, tra l’altro oggi attaccato con accuse di “furbizia e spregiudicatezza” nell’editoriale che Antonio Polito ha firmato per lo stesso giornale:
E infatti nella sua e-news lo spiega chiaramente, in un capitolo intitolato ironicamente «Pubblicità progresso»: «Gentiloni ha fatto un ottimo intervento a Domenica in, evidenziando, tra le altre cose, come l’obiettivo da perseguire tutti insieme sia continuare l’opera di riduzione delle tasse. Noi ci siamo».
Dunque Renzi vuole «cambiare verso» al destino del Pd, fossilizzato nelle polemiche interne e mediaticamente azzoppato dal caso Consip.
Ancora ieri girava voce di un litigio con la Boschi che lo avrebbe criticato per l’eccesso di difesa nei confronti di Lotti. Litigio smentito (peraltro Boschi è stata la prima, l’altro giorno, a rilanciare il post del ministro dello Sport) e che però la dice lunga sul clima di veleni che circonda il Pd, dove i seminatori di zizzania ormai abbondano. A tutto questo Renzi dice «basta». E si appresta a una nuova battaglia per rilanciare la commissione d’inchiesta sulle banche.
Renzi ha cambiato verso, quindi, ed è impossibile non notare che nel frattempo sia scomparsa dall’orizzonte della politica la legge elettorale: ai primi di febbraio il Partito Democratico pareva orientato a votare la proposta del MoVimento 5 Stelle sull’estensione dell’Italicum, che avrebbe avvantaggiato i grillini nella contesa.
Ora, nonostante siano da tempo arrivate le motivazioni della Corte Costituzionale sulla bocciatura della sua legge elettorale, tutto tace e nulla si muove.
Il motivo è facile da comprendere: una volta approvata la legge la corsa alle urne si accelererebbe. Ma qui nessuno ha fretta.
Anche perchè c’è da scalare la montagna dei sondaggi, che nelle ultime settimane hanno visto un calo del Partito democratico e certificato il sorpasso dei grillini nel totale delle preferenze per il voto alla Camera.
È evidente che alla decisione di Renzi non sono estranei poi i motivi di opportunità . Anche se è chiaro che l’inchiesta Consip, per quanto è emerso finora, contiene molti punti deboli che potrebbero affossarla ben più della fuga di notizie misteriosa che ha messo in allerta gli indagati e sulla quale c’è ancora molta oscurità , il rischio (soprattutto mediatico) di affrontare una campagna elettorale parlando degli atti dei magistrati è consistente.
Mentre è da escludere che la lettera aperta di Sala e Chiamparino in cui il sindaco di Milano e il governatore del Piemonte gli chiedono di abbandonare i “gruppi ristretti” e di avere maggiore “capacità inclusiva” avrà un qualche risultato, se non altro perchè Matteo Renzi in tv ha difeso a spada tratta il suo braccio destro Lotti e ha tagliato i ponti con gli scissionisti del PD che oggi i due vorrebbero in qualche modo recuperare.
Anche perchè un’alleanza preelettorale potrebbe essere presa in considerazione soltanto nel caso in cui si cambiasse la legge e si facesse spazio alle coalizioni. Una cosa che per adesso non sembra essere in programma.
Quindi per adesso lo sguardo rimane al 30 aprile, quando si terranno le primarie per eleggere il segretario del Pd e dove l’ex premier dovrebbe avere gioco facile nel garantirsi una riconferma che non è mai stata messa in discussione dai numeri.
Anche se, secondo le regole, se nessuno dei candidati supera il 50% dei voti, toccherà ai delegati dell’Assemblea scegliere il nuovo leader e questo potrebbe, incidentalmente, dare qualche pensiero a Renzi in caso di (improbabilissima) alleanza tra Michele Emiliano e Andrea Orlando.
Ma il margine di voti per adesso lo tranquillizza e gli fornisce la possibilità di prepararsi alle elezioni del 2018.
Dove si gioca non solo la presidenza del consiglio ma anche il suo avvenire politico.
(da “NextQuotidiano”)
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Marzo 7th, 2017 Riccardo Fucile
QUESTA ACCOZZAGLIA DI FURBETTI DOVREBBE ESSERE L’ALTERNATIVA ALLE LEADERSHIP EUROPEE?
La badante della vecchia madre del leader ultraconservatore polacco Jaroslaw Kaczynski, spacciata per assistente parlamentare e pagata con i soldi dei contribuenti europei, non deve sentirsi sola.
Le fanno compagnia i finti assistenti del Front National di Marine Le Pen, le finte fondazioni dello Ukip, le finte “ricerche” commissionate dai deputati grillini.
Tutto, naturalmente, pagato con i soldi dell’Unione europea tanto esecrata.
Non mancano certo di coerenza i populisti eurofobi del Parlamento di Strasburgo: più detestano la Ue, più si mettono d’impegno a derubarla e a truffarla. E ora sono chiamati a restituire centinaia di migliaia di euro.
Le verifiche e le indagini, che l’ex presidente del Parlamento Martin Schulz ha meritoriamente inasprito, sulla correttezza dei bilanci dei gruppi politici hanno portato alla luce una vasta schiera di euro-furbetti.
C’è da augurarsi che il suo successore, Antonio Tajani, eletto da una maggioranza di centro-destra, prosegua nell’opera di controllo e di risanamento con altrettanta solerzia.
Ma probabilmente non è un caso che chi ha maggiormente abusato dei fondi messi a disposizione dai contribuenti europei venga proprio dalle file dei movimenti anti-Ue. Sono quegli stessi movimenti che contestano la rappresentatività democratica del Parlamento europeo.
Sono gli stessi che combattono le regole dell’Unione come se fossero il prodotto di una struttura burocratica e delegittimata.
Sono l’esercito dei sovranisti a sovranità limitata, che guardano a Putin o a Trump come a possibili liberatori dal “giogo” di Bruxelles.
Che orgoglio possono avere nell’assolvere al meglio un mandato parlamentare che disprezzano?
Quali vincoli morali possono sentire verso istituzioni che vorrebbero abbattere?
Quale rispetto possono provare verso i propri elettori di cui interpretano solo la rabbia, senza un sogno e senza un progetto?
Le piccole e grandi storie di ordinario malaffare probabilmente non serviranno a fermare l’ondata populista che minaccia di travolgere mezzo continente.
Le radici dello scontento sono profonde, spesso legittime, e l’infima qualità della classe politica anti-europea non le rende meno reali.
Ma certo, se il progetto europeo richiede una leadership migliore di quella che si ritrova, non c’è dubbio che meriterebbe, anche, nemici meno impresentabili di questa accozzaglia di furbetti.
(da “La Repubblica“)
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Marzo 7th, 2017 Riccardo Fucile
I FINTI ASSISTENTI DI LE PEN, LA BADANTE DELLA MADRE DI KACZYNSKI, I CONTRATTI ILLECITI DELLA MOGLIE DI FARAGE… CI SONO ANCHE CASI ITALIANI: IL LEGHISTA BORGHEZIO, LARA COMI, DUE GRILLINE E UN PD
Sono loro, i grandi partiti europei che vogliono abbattere l’Unione, al centro delle inchieste per frode ai
danni delle casse del Parlamento di Strasburgo: abusano sistematicamente dei soldi Ue per portare a termine i loro disegni politici in patria. Frodi sistemiche, organizzate a livello centrale, come quelle del Front National di Marine Le Pen, dello Ukip di Nigel Farage o del partito Diritto e giustizia del polacco Jaroslaw Kaczynski.
Assumono collaboratori con i soldi di Strasburgo ma li impiegano in patria per lavorare al partito.
Ci sono anche casi italiani, di singoli eurodeputati del Movimento 5 Stelle, Forza Italia, Lega ed ex Pd.
In questo caso senza un disegno di sistema, organizzato dalle forze politiche di appartenenza, ma episodi isolati.
La mappa delle frodi all’Europarlamento tracciata da Repubblica può partire in Francia, con un nuovo e inedito filone di indagini sul Front National di Marine Le Pen.
Già nella bufera per i casi legati agli assistenti pagati da Strasburgo ma al lavoro in Francia della candidata all’Eliseo, ora la forza politica che vuole portare Parigi fuori dall’Europa è al centro di un nuovo caso: le autorità europee e transalpine indagano sui contratti degli assistenti di altri big come Louis Aliot, compagno di Marine Le Pen, e Florian Philippot, braccio destro della leader, o del padre, il fondatore dell’Fn Jean-Marie.
Si passa allo Ukip di Nigel Farage, che a breve dovrà restituire circa un milione di euro al Parlamento Ue per i contratti di una serie di assistenti — tra cui la moglie Kirsten – che lavoravano per il partito pur essendo stipendiati da Strasburgo.
E poi ancora, le fondazioni dello Ukip, che prendevano fondi Ue per sostenere la politica europea del movimento ma che invece hanno usato i soldi per la campagna del referendum dello scorso giugno su Brexit.
Per finire con il caso di Jaroslaw Kaczynski, dominus politico del governo polacco guidato da Beata Szydlo che usava la signora Bozena Mieszka-Stefanowska, assistente del deputato Tomasz Poreba e quindi pagata da Strasburgo, come badante della madre scomparsa nel 2013.
Uno dei casi che riguardano il partito Diritto e giustizia che dovranno essere rimborsati all’Europarlamento.
Tra i dossier italiani quello di Lara Comi, deputata di Forza Italia che ha assunto la madre come assistente parlamentare e ora dovrà restituire i 126 mila euro percepiti dalla signora, Luisa Costa, dal 2009 al 2010.
Al centro di un’inchiesta ancora in corso e i cui esiti non sono ancora decisi due eurodeputate grilline: Daniela Aiuto e Laura Agea.
La prima è nel mirino per avere chiesto il rimborso, diverse migliaia di euro, per una mezza dozzina di ricerche che le sarebbero dovute servire per svolgere il mandato europeo ma che in realtà sono state copiate da siti come Wikipedia.
La seconda ha assunto come assistente un imprenditore, sospettato di non avere il tempo di svolgere il lavoro relativo la mandato europeo dalla deputata ma al massimo, nella veste di attivista del Movimento, di seguirla nella politica locale.
Al centro di un’inchiesta anche un collaboratore del leghista Mario Borghezio, Massimiliano Bastoni, assunto come assistente parlamentare del leghista Mario Borghezio nella legislatura europea 2009-2014. In questo caso l’illecito risiede nella doppia attività di Bastoni, che oltre a essere assistente accreditato del leghista, dunque con obbligo a prestare la propria attività tra Bruxelles e Strasburgo, era anche consigliere municipale a Milano. L’OLAF ha quantificato un danno erariale di 35mila euro per i viaggi che Bastoni si faceva rimborsare tra Bruxelles e Milano per prendere parte alle sedute del consiglio comunale.
Poi ci sono il viceministro Riccardo Nencini (ex europarlamentare al quale Strasburgo aveva chiesto indietro 455 mila euro ma ha scampato il rimborso grazie alla prescrizione) e il deputato eletto con il Pd, ora Mdp, Antonio Panzeri, che ha fatto ricorso alla Corte di giustizia europea di fronte alla richiesta di restituire 83 mila euro.
Quelli italiani sono casi isolati e spalmati su tre legislature, con la stragrande maggioranza dei 73 parlamentari eletti ogni cinque anni che rispetta alla lettera le regole.
(da “La Repubblica”)
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