Gennaio 28th, 2023 Riccardo Fucile
FONTANA SARÀ COMMISSARIATO. DAI FRATELLI D’ITALIA? MACCHÉ: DAI FRATELLI LA RUSSA! ROMANO POTREBBE DIVENTARE ADDIRITTURA VICEPRESIDENTE, E FORSE PURE ASSESSORE ALLA SANITÀ
I perfidi dicono già l’avvocato dovrà reinventarsi “notaio”: semplice ratificatore, cioè, di decisioni prese da altri.
Gli altri, nella fattispecie, sono i Fratelli d’Italia del nord. Lui è Attilio Fontana, presidente della Lombardia certo ormai della riconferma alla guida della regione, ma certo pure di dovere appoggiarsi, per governare, a un partito che non è il suo.
Matteo Salvini, del resto, il mezzo collasso nel giardino di casa del leghismo che fu, lo ha messo in conto. Sa che il trend è quello che è: e alla sera del 13 febbraio, quando inizierà lo scrutinio, dovrà fare buon viso a cattivo gioco.
Ha iniziato già, in effetti. Rivendicando, cioè, come in Lombardia “resterà il nostro presidente, l’Attilio”. Solo che se la subalternità alla destra meloniana è per certi versi nella logica delle cose a Roma e nel Lazio, lassù in Padania, sotto la Madonnina, quella di Fontana rischia di essere una vittoria amara. “Perché sarà un presidente commissariato dai meloniani”, se la ridono nel Comitato nord i bossiani ribelli.
Il Carroccio, che nel 2018 elesse trenta consiglieri, ne riporterà, se davvero si attesterà intorno al 12-13 per cento come pare, non più di dodici. FdI, che nel 2018 ebbe appena tre rappresentanti, assedierà il palazzo con una falange di ventisette, forse ventotto soldati. E la composizione della giunta ne conseguirà.
E sì che per Fontana potrebbe perfino andare peggio. Perché il suo vice in pectore, stando alle previsioni della vigilia, è quel Marco Alparone con cui l’Attilio ha un rapporto di consolidata intesa. Cosa che, invece, non si può dire di Romano La Russa. E non solo per via dei bracci mezzi tesi nei raduni dei nostalgici.
Il fatto è che Romano, che “fratello” d’Italia lo è a tutti gli effetti, proprio al fratello, presidente del Senato, fa diretto riferimento. Lo fa per la composizione delle liste (“Ignazio mi ha detto”, “Ignazio non vuole”, “Ora sento Ignazio”) e spesso anche nei vertici di maggioranza, quando scavalca, o aggira, l’autorità dell’altra generalessa lombarda di Donna Giorgia, e cioè Daniela Santanchè.
Potrebbe insomma essere lui, il La Russa meno noto, a contendere proprio ad Alparone i gradi di vicepresidente – e forse, si dice, quelli di assessore alla Sanità, magari alimentando la voce per cui, essendo il fratello di Alparone un dirigente regionale nel campo sanitario, si rischierebbe il conflitto d’interessi.
(da il Foglio)
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Gennaio 28th, 2023 Riccardo Fucile
LO STRALCIO VALE 18 MILIARDI, UN REGALO AGLI EVASORI SERIALI CHE NON PAGANO MAI E ASPETTANO SOLO IL CONDONO…IL MAGAZZINO DEI CREDITI NON RISCOSSI AMMONTA A 1.100 MILIARDI DI EURO
Lo stralcio delle cartelle esattoriali sotto i mille euro, notificate tra il 2000 e il 2015, scatterà il 31 marzo e riguarderà circa 7 milioni di contribuenti, per un valore di 18 miliardi di euro.
Le cartelle interessate sono complessivamente 27 milioni, perciò molti di questi cittadini che usufruiranno della cancellazione hanno più di una cartella a carico. La sanatoria varata dal governo in manovra sicuramente dà una mano a quei contribuenti che davvero fanno fatica a mettersi in regola con la riscossione, ma la domanda che nasce spontanea è questa: il contribuente che in quindici anni ha collezionato 10 o 15 cartelle (se non di più), è un soggetto che non ce la fa a pagare o un evasore seriale che non vuole aprire il portafogli e aspetta solo il prossimo condono?
Tra queste 27 milioni di mini cartelle non sono conteggiate le multe degli enti locali o delle casse previdenziali private, che hanno tempo fino al 31 dicembre per decidere se cancellare solo gli interessi e le spese per le procedure esecutive e di notifica, o far pagare tutto, come prescrive la legge di Bilancio.
Per quanto riguarda le multe stradali, ad esempio, le grandi città hanno quasi tutte deciso di chiedere ai cittadini di versare l’intero importo stabilito inizialmente dall’atto.
Il dibattito se considerare lo stralcio un regalo agli evasori o un intervento per rendere più efficiente il sistema fiscale italiano vede fazioni opposte. Sta di fatto che il magazzino dei crediti non riscossi ammonta a 1.100 miliardi di euro.
La Corte dei Conti, con una delibera adottata recentemente, sostiene che non è più rinviabile una riforma del sistema di riscossione coattiva dei tributi, dei contributi e delle entrate locali.
(da “la Stampa”)
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Gennaio 28th, 2023 Riccardo Fucile
QUANDO LA CASALINGA E IL VINAIO DI MOSCA TROVERANNO IL “NEMICO” ZELENSKY, DALLA PROPAGANDA UFFICIALE DESCRITTO “A CAPO DI UNA BANDA DROGATI E NEONAZISTI E SATANISTI”, AL POSTO DI TOTO CUTUGNO, DI PUPO E DEI RICCHI E POVERI, SARÀ FORSE A TUTTI CHIARO CHE QUALCOSA PER PUTIN È GIÀ PERDUTO
Zelensky al Festival di Sanremo è un durissimo colpo al cuore della casalinga di Vladivostok. Al di là d’ogni considerazione prosaica e delle mille obiezioni politiche e di opportunità che giungono dalla “quinta colonna” filo-russa vivamente attiva nel nostro Paese, l’evento prossimo, sebbene da remoto, ha valore tutt’altro che irrilevante.
Una pugnalata al silenzio domestico ufficiale della Russia putiniana, pronta ad abbattere virtualmente la stessa aura poliziesca presidenziale. Una risposta notevole sferrata, sia detto con retorica tinteggiata di glamour, a tutti gli aggressori, non soltanto in armi, dello Stato sovrano d’Ucraina.
Ben oltre ogni semplice atto di propaganda, il gesto assume anzi valore politico straordinario, unico, oltreché, va da sé, spettacolare, mediatico. Da Sanremo, lo spettro in mimetica di Zelensky apparirà appunto alla casalinga di Vladivostok, al tassista di San Pietroburgo, alla callista di Ekaterinburg, alla influencer di Smolensk, ai macellai di Groznyj.
Il Festival di Sanremo, dai giorni di Breznev e dell’Urss da molti incredibilmente rimpianta, storia nota, vale milioni di telespettatori in Russia. Quando le pupille della già citata casalinga di Vladivostok e del risaputo vinaio di Mosca troveranno d’improvviso il “nemico” Zelensky, dalla propaganda ufficiale descritto “a capo di una banda drogati e neonazisti”, e ancora “satanisti”, al posto di Toto Cutugno, del mio carissimo amico Pupo, dei rimanenti Ricchi e Poveri sarà forse a tutti chiaro che la battaglia è cosa seria, qualcosa per Putin è già perduto.
Non occorre ricordare che in Russia, proprio il Festival di Sanremo, è ragione di culto, il suo sipario canoro nel tempo ha offerto occasioni di remake feticistici, amabile parodia della lontana e amata Italia da evocare a un pubblico di telespettatori post-sovietici.
Con Ivan Urgant che nelle vesti del “bravo presentatore” italiano Giovanni Urganti portava in scena un cast di cantanti russi dai nomi italianizzati che, leggo testualmente, si alternavano “sul palco esibendosi con una serie di hit riadattate in italiano: Elard Giarahov diventa Dario Giaracci, Dead Blonde è Bionda Morta, My Michelle & Jeva Pol’na sono Mia Michela & Eva Pollini, Manizha è Manigi. E persino Valerij Leontjev, uno degli artisti pop più famosi in Russia, trasformato in Valerio Leonci”. Kermesse stroboscopica, stile anni ’80.
Apprezzabilmente, Ivan Urgant-Giovanni Urganti, lo scorso anno si è schierato contro la guerra d’aggressione all’Ucraina, e per questa ragione prontamente radiato dalla televisione pubblica russa. Zelensky, dal palco infiorato dell’Ariston, ne colmerà il vuoto in palinsesto.
(da Dagospia)
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Gennaio 28th, 2023 Riccardo Fucile
PAVEL E’ PER IL PIENO SOSTEGNO ALL’UCRAINA E HA UN PASSATO NELLA NATO
L’ex generale Petr Pavel ha vinto il ballottaggio delle presidenziali nella Repubblica ceca contro Andrj Babis. Pavel ha ottenuto il 56.45% contro il 43,54% incassato dall suo avversario, quando ormai si è arrivati all’80% delle schede scrutinate. Una volta in carica, sostituirà il presidente in uscita Milos Zeman, vicino alla Russia di Putin prima di un cambio di rotta con la guerra in Ucraina.
Pavel e l’ex primi ministro Andrej Babis si sono fronteggiati nel faccia a faccia del secondo turno dopo che nessuno degli otto candidati in lizza aveva raggiunto la maggioranza assoluta nella prima tornata, a inizio settembre 2022.
I sondaggi davano già in vantaggio Pavel, indipendente, finito in testa già al primo turno e sostenuto anche da altri ex concorrenti nel voto risolutivo del 27 gennaio. Il neo presidente, 61 anni e un passato alla guida del comitato militare della Nato, si è giocato la carta dell’outsider alle urne. Fra le sue battaglie è spiccato l’appoggio pieno al sostegno militare e umanitario all’Ucraina nella guerra contro la Russia.
Babis, miliardario 68enne, ha già ricoperto la carica di primo ministro, finendo all’opposizione quando il su partito centrista Ano («Sì», in ceco) ha perso le elezioni generali del 2021. Era sostenuto da Zeman, primo presidente eletto con voto popolare, con il quale condivide una visione euroscettiche e l’abitudine di usare una retorica anti-migranti.
(da agenzie)
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Gennaio 28th, 2023 Riccardo Fucile
RAMPELLI, COMMISSARIATO DA DONNA GIORGIA, PUNTA A “CONTROLLARE” ALMENO 5-6 CONSIGLIERI NEL LAZIO PER AVERE LA GOLDEN SHARE SULLA PROSSIMA AMMINISTRAZIONE DI CENTRODESTRA
«Il giorno di San Valentino lo festeggeremo tutti insieme alla Pisana». Francesco Rocca, candidato del centrodestra alle elezioni regionali del Lazio, ha trovato questa frase a effetto che evidentemente gli è piaciuta assai, visto che la ripete da giorni in tutte le occasioni.
Il sogno di ritrovarsi martedì 14 febbraio alla guida di una Regione sottratta al centrosinistra e di festeggiare nella sede del consiglio regionale (la Pisana, appunto) è a portata di mano ma neanche troppo. «Tutti i sondaggi ci danno in vantaggio, neanche uno ci ha mai dato al secondo posto», ripete da settimane nelle riunioni riservate.
C’è una nota dolente, anzi due. La prima: nonostante il vento a favore del governo Meloni, il centrodestra di Rocca — rispetto alle elezioni politiche del 25 settembre — sembra aver perso terreno; la seconda: si tratta di un vantaggio che non chiude la partita, anzi. Soprattutto visto che, sulla sua strada, Rocca ha davanti a sé ben due confronti tv aperti con gli altri candidati, il primo dei quali sarà moderato da Bruno Vespa. La posta in gioco «Una sconfitta nel Lazio non è immaginabile.
Ma, se succedesse l’imponderabile, è ovvio che ci sarebbero ripercussioni sul governo», ragiona a microfoni spenti un componente dell’esecutivo.
Sarebbe possibile che, dopo settimane di tormenti su benzina e intercettazioni, una sconfitta imprevista passi come se nulla fosse? No, non è possibile.
Il dilemma di Giorgia Meloni — cioè se entrare o meno in prima persona nella contesa — è stato risolto: la faccia sì, ma quella di tutti.
E così, domenica 5 febbraio, all’auditorium della Conciliazione a Roma, parlerà davanti a Rocca con Matteo Salvini e Silvio Berlusconi (forse in collegamento). Un modo come un altro per ribadire che si vince o si perde tutti insieme. Un modo come un altro per mostrare la faccia compatta di una maggioranza che deve assumersi responsabilità collettive, a cominciare dal testo sull’autonomia regionale che lo stesso Rocca ha criticato a più riprese. I problemi sono tanti ma non tutti i guai vengono per nuocere.
Sulla contesa interna a Fratelli d’Italia, con la maggioranza meloniana impegnata in una guerra fredda contro i Gabbiani di Fabio Rampelli, il candidato governatore è più tranquillo. «Faranno a gara a sfidarsi sulle preferenze», gli ha detto un collaboratore. «E sono tutte cose che faranno guadagnare voti alla coalizione».
(da Corriere della Sera)
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Gennaio 28th, 2023 Riccardo Fucile
“RAPPRESENTA COLORO CHE DIFENDONO PRIVILEGI E FAVORISCONO LA CRESCITA DELLE DISEGUAGLIANZE”… “DI DESTRA SOCIALE NON HA NULLA, CRITICAVA IL NEOLIBERISMO PER POI APPRODARE A QUELLO PIU’ ESTREMO”
Marco Revelli, a te che studi da mezzo secolo la storia sociale della sinistra ecco una domanda complessa che richiede una risposta semplice.
«Oddio, quale?»
Cos’è oggi, secondo te, la carta dei valori dei Progressisti? E soprattutto: in cosa questi valori ancora oggi si distinguono da quelli della destra?
(Sospiro e sorriso). «Ehhh… la domanda è davvero complessa, ma provo a raccogliere la tua sfida. La semplicità che tu chiedi, fra l’altro è alle nostre spalle».
Cosa vuoi dire?
«Che la sinistra, ma sarebbe meglio dire “le” sinistre, nel Novecento, sono state una potentissima fucina di sintesi e di slogan perfetti. Ma per risponderti, fra le tante parole d’ordine, vorrei tornare a illuminare una triade che da anni non sento nominare più».
Quale?
«La destra, nel bene o nel male, gira da almeno cento anni intorno al trittico “Dio, Patria e Famiglia”. Che, se ci pensi, va bene da Mussolini alla Meloni…».
Ah ah ah. E la sinistra?
«Ha ballato per intere stagioni intorno a una bellissima terna di priorità: “Pane, Lavoro e Pace”. Mi raccomando, mettici le maiuscole».
Curioso che questa triade sia stata dimenticata, perché è ancora molto attuale.
«Che sia attuale non c’è dubbio: ma prova oggi a declinare la parola “Pace” sul caso ucraino, ed ecco che ti ritrovi un pezzo di classe dirigente moderata che insorge o accampa distinguo».
Non è curioso che la destra, con tutte le sue mutazioni, abbia meno difficoltà della sinistra a stabilire una linea di continuità con la propria storia ideale?
«Vero. Anche questa è una bella suggestione, che però richiede una risposta più lunga. Quante pagine abbiamo a disposizione?».
Marco Revelli: sociologo, storico, editorialista, carne e sangue nella storia intellettuale della sinistra italiana. La persona più indicata, come si vede dalle prime battute per rispondere alle grandi questioni che dopo la vittoria del centrodestra del 25 settembre sono sul tavolo.
Abbiamo spazio e tempo.
«E allora ecco il tema: nel Novecento – grazie alla semina di Marx ed Engels, e di decine di pensatori – la sinistra era diventa una filosofia della storia in cui una solida idea di progresso illuminava il cammino di una lotta dura, che però prometteva un cammino di emancipazione e uguaglianza».
C’era una fede laica, ma quasi messianica a sostenere questo percorso!
«Certamente. Però c’era anche uno strepitoso raccolto di vittorie a deporre a favore di chi proponeva questo lungo viaggio: conquiste, diritti, rappresentanza elettorale crescente, elementi di welfare, benessere diffuso».
Ed ecco che dalla carboneria dell’Ottocento, e dalle borghesie cadette e illuminate del 1848, si passa ai partiti di massa del Novecento.
«Per un secolo il racconto è stato perfetto: un’avanzata inesorabile sul percorso, rettilineo del tempo, che produceva enormi salti nel benessere delle persone: penso ai cicli vincenti del dopoguerra, negli anni Quaranta e Cinquanta e – anche in Italia – alla grande stagione delle conquiste economiche e civili, prodotta dalle lotte degli Sessanta».
Cos’altro c’era?
«Un patto importante, di cui ora, a ben vedere, non esiste più memoria». Cioè?
«Classi dirigenti responsabili, e oserei dire integerrime di fronte ai loro sostenitori e compagni».
Quali?
«Quelle della lotta eroica contro lo sfruttamento nei primi anni del secolo scorso, quella di chi subito dopo si era forgiato in clandestinità opponendosi al fascismo, quella della “scelta di vita” che portava i figli della borghesia ad abbracciare la causa degli ultimi. Tutto questo, intendo soprattutto il legame di garanzia e di fiducia, a parte casi singoli, sembra oggi svanito».
Però la differenza tra destra e sinistra non è evaporata…
«La destra, se devo semplificare, è stata – sotto mille camuffamenti – una idea di difesa delle forme sociali costruite intorno al privilegio e alla conservazione. La sinistra, invece, prometteva progresso, rivoluzione sociale e diritti».
Cosa ha messo in crisi questo racconto?
«In primo luogo un macrofenomeno: la globalizzazione. La concorrenza planetaria della forma lavoro a basso costo, come primo effetto, ha smontato una ad una le garanzie sociali e i poteri di controllo costruiti dalla socialdemocrazia».
E poi?
«La globalizzazione, e anche la rivoluzione digitale, hanno rotto il legame di solidarietà degli ultimi mettendo i poveri del mondo in concorrenza gli uni contro gli altri».
Come è accaduto?
«Le grandi garanzie degli anni Cinquanta e degli anni Settanta sono saltate perché saltavano i rapporti di forza costruiti dentro gli Stati-nazione».
E infine?
«Una ideologia di destra, il neoliberismo, ha imposto una sua egemonia culturale. Tornano a crescere le disuguaglianze, si smontano le garanzie sociali, e nel nostro piccolo mi preme ricordare che il Jobs Act lo fa Renzi, non Berlusconi».
Ti preme?
«Sì, perché le garanzie vengono abbattute da uno che era presidente del Consiglio e insieme segretario del Pd. Lì si rompe il legame di fiducia profondo. E – se ci pensi – se la globalizzazione mette in discussione il pane, il neoliberismo di sinistra combatte il lavoro, nella forma che avevano conosciuto nel Novecento: ecco la precarietà e il nuovo sfruttamento».
Perché lo fa Renzi?
«Ehhhhh…. Sai che la migliore risposta a questa domanda l’ha data Agnelli: “Ci vuole un governo di sinistra per fare politiche di destra”».
Anche la destra si è divisa tra un’anima sociale d una liberista.
«Ma la destra non ha grandi problemi di coerenza con se stessa: la destra è pragmatica, e naturalmente gerarchica. Su tutto prevale sempre il leader».
E poi?
«Ha sofferto meno della sinistra le conseguenze della globalizzazione. Pensa alla lotta contro il Reddito di cittadinanza. La destra aderisce facilmente a qualsiasi fatto che sancisca la differenza tra i forti e i deboli».
Però la Meloni si è imposta con una critica del neoliberismo forse più radicale di quella delle classi dirigenti di sinistra.
«Sai, io non mi dimentico che Mussolini nella sua vita ha detto tutto e il contrario di tutto: pacifista e interventista, repubblicano acceso e monarchico osservante, con i latifondisti e gli agrari prima, ma poi repubblichino e insieme sociale nella Rsi».
Usi Mussolini per spiegare la Meloni?
«Non ti ha stupito il modo repentino in cui è passata dai panni di oppositrice a quelli di erede di Draghi?».
Cosa vuoi dire?
«Che io non la sottovaluto: penso che la sua nuova destra stia realizzando un Italia una rivoluzione conservatrice che a nessuno era riuscita».
Perché la destra sociale in passato era elitaria mentre lei è popolare.
«Uno degli aspetti proteiformi delle tante destre populiste che ho studiato, da Trump a Orbàn, dalla Le Pen a Bolsonaro è la capacità di mutare».
E poi che altro?
«La debolezza delle classi dirigenti della sinistra ha permesso a questa nuova destra di imporre una nuova forma egemonica».
Perché la Meloni ripete che non tocca i diritti?
«Perché gli italiani non vogliono perdere quello che hanno. I diritti non sono, come pensano i liberali, una proiezione delle libertà assoluta dell’individuo, ma un riconoscimento dei principi egualitari nell’altro. Ecco perché la sinistra continua a presidiarli».
Mi dicevi di “Dio, Patria e Famiglia”. La Meloni è questo?
«Ti stupisce? Nel dna della propria cultura politica Fratelli d’Italia ha il fascismo».
Sarebbe meglio dire il Msi.
«Chi si è iscritto al Msi ha aderito ad una storia che, nel tempo della repubblica, era in continuità con un ventennio. Per me, se vuoi, è una scelta più grave di chi diventò fascista perché era cresciuto sotto una dittatura».
Loro dicono: «Siamo nati dopo».
«Per me non è un attenuante ma una aggravante».
E gli attuali gruppi dirigenti della sinistra?
«Per loro non è un problema».
Addirittura?
«Sono stati a guardare per un anno la resistibile ascesa di Fratelli d’Italia. Sapevano che bastava poco per fermarli, ma non hanno mosso un dito».
La Meloni durerà vent’anni?
«Questo è un Paese volubile. Se le bollette e la benzina continuano a crescere gli italiani potrebbero incazzarsi. I cicli dei leader, da Monti a Draghi, sono stati brevissimi».
La Meloni ha la determinazione che alla sinistra manca.
«Ha dalla sua quella che Gobetti chiamava “l’autobiografia della nazione”».
E la sinistra ha qualcosa in più?
«Una bellissima immagine che rubo a Bobbio: “La capacità di indignarsi di fronte allo scandalo delle disuguaglianze”. Aggiungilo a quelle tre bellissime parole e hai tutto».
(da TPI)
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Gennaio 28th, 2023 Riccardo Fucile
NELLA SUA SQUADRA HA ARRUOLATO VECCHI COLLEGHI E FIGURE VICINE ALLA LEGA
Sin dal suo insediamento il ministro Giuseppe Valditara ha voluto chiarire perché il governo abbia fortemente voluto aggiungere la parola «merito» alla denominazione del dicastero dell’Istruzione.
«Il merito – ha spiegato il ministro in una nota – è anzitutto un valore costituzionale, chiaramente affermato e declinato dall’articolo 34 della Costituzione . Favorire il merito significa dare alle scuole infrastrutture e dotazioni di qualità, valorizzare gli operatori scolastici, sintonizzarsi con il mondo del lavoro, agire sulle competenze, fornire gli strumenti per sviluppare un percorso di crescita individuale e collettivo».
Nessun dubbio sull’esigenza che la scuola italiana abbia bisogno di tutto questo. Il dubbio, semmai, è capire quale criterio di «merito» abbia seguito lo stesso Valditara nella selezione del suo staff.
A scorrere l’elenco di collaboratori e consulenti, infatti, si trovano senz’altro accademici, ma anche colleghi, amici e personalità vicine al partito (la Lega) che ha premuto affinché fosse Valditara a rivestire il ruolo di ministro.
Un esempio su tutti? Alessandro Amadori.
Per chi non lo conoscesse, parliamo di un noto sondaggista e saggista che da poche settimane affianca Valditara in qualità di stretto collaboratore del ministro occupandosi in particolare di «promozione di progetti di miglioramento dei processi di apprendimento individuale e collettivo nel sistema scolastico, di progetti di partenariato, collaborazione e cooperazione internazionale in ambito formativo ed educativo, con particolare riferimento ai Paesi dell’Africa e ai relativi sistemi scolastici nazionali».
Un incarico così composito da essere difficile anche solo ricordarlo. Non a caso, gli vale un compenso da ben 80mila euro lordi annui. La curiosità, però, è che Amadori e Valditara si conoscono da tempo.
Insieme, tanto per dire, hanno scritto un libro pubblicato da Piemme nel settembre 2022, a ridosso delle elezioni politiche. Titolo: “È l’Italia che vogliamo. Manifesto della Lega per governare il Paese”. Prefazione di Matteo Salvini.
C’è da sorprendersi? Probabilmente no, se consideriamo che Amadori è stato anche consigliere di Salvini a Palazzo Chigi (oltre ad essere ministro dell’Interno, il segretario della Lega era pure vicepremier) durante il governo Conte1. Quando si dice il merito.
E di merito senza dubbio si parla anche per l’incarico affidato a Vincenzo Vespri, professore di matematica di indubbio valore. Anche lui però non è nuovo a contatti leghisti. Come quando, nel 2021, era presente all’inaugurazione della sede del Carroccio di Cascina, in provincia di Pisa, insieme, tra gli altri, all’eurodeputata Susanna Ceccardi e alla deputata Donatella Legnaioli.
Per l’occasione Vespri si cimentò anche in uno spettacolo dedicato Dante e Galileo, insieme alla stessa Ceccardi. Così, quantomeno, scrivevano allora i giornali locali: «Dopo le letture dall’Inferno, del regista e attore Andrea Buscemi e di Susanna Ceccardi, il professor Vincenzo Vespri, ordinario di Analisi Matematica presso l’Università di Firenze, illustrerà quali poco conosciuti legami esistano tra il padre della scienza moderna e l’autore della Divina Commedia».
Non male per Vespri che oggi è chiamato ad occuparsi di «attività di sviluppo, potenziamento e innovazione delle metodologie didattiche nell’ambito delle materie Steam (Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Arte e Matematica, ndr)» per un compenso di 20mila euro.
Ma non è finita qui. Tra gli altri collaboratori, tanto per dire, spicca anche il professor Vincenzo Mannino che si occupa dei «rapporti istituzionali del ministro». Bene. Il nome di Mannino compare anche nel lungo elenco dei membri del think-tank “Lettera 150”, nato in tempo di Covid da un appello di circa 150 professori universitari, appunto, «in favore della rapida predisposizione di un piano di fuoriuscita in condizioni di sicurezza dal blocco del Paese per contrastare l’epidemia da Covid-19», come si legge sul sito.
Esattamente le posizioni che al tempo esprimeva la Lega. E chi è il coordinatore? Valditara, of course. Altro membro del think-tank è Mario Comba, professore a Torino esattamente come il ministro. Altra casualità, pure Comba è collaboratore con l’arduo compito (per 60mila euro) di «semplificazione, project financing e rapporti con gli enti locali nelle materie di competenza del ministero dell’Istruzione».
Nell’elenco dei sottoscrittori c’è pure Giuseppe Bretagna, professore a Bergamo, anche lui finito nello staff di Valditara, per occuparsi di «percorsi efficaci di orientamento degli studenti».
Un’autorevole squadra di fedelissimi, dunque. A cui si aggiungono, al solito, altri collaboratori che si occupano della segreteria e della comunicazione. E anche a riguardo le curiosità non mancano.
Per dire: dal 17 novembre dello scorso anno ad occuparsi di «promozione e coordinamento dei rapporti tra il ministero dell’Istruzione e le realtà scolastiche del territorio» è Giacomo Barattini che, tra le altre cose, è stato assessore in quota Forza Italia al Comune di Altamura, in provincia di Bari. E forse è anche per questo che pare lavori fianco a fianco del sottosegretario (leghista anche lui) Rossano Sasso con cui condivide, essendo l’onorevole barese, la regione di provenienza.
Singolare, poi, il caso di Berardino Zaino, che lavorava all’Istruzione già con l’ex ministro Patrizio Bianchi: confermato nello staff col ruolo di fare analisi e proposte «di semplificazione organizzativa-gestionale nel rapporto tra i diversi livelli di governo» (per 25mila euro annui), è stato in passato dirigente nazionale dei Giovani democratici (il movimento giovanile del Pd) e molto vicino a Matteo Renzi, tanto da creare al tempo del referendum sulla riforma Boschi un comitato per il Sì in Irpinia, sua terra natìa.
Insomma, un team studiato a pennello per circondarsi di persone che, a detta di Valditara, sicuramente se lo meritano. Ma c’è un ultimo piccolissimo tassello. Ciò che sembra, infatti, è che il ministro dell’Istruzione, oltre a circondarsi di esperti di fiducia (sua e, a quanto pare, almeno per alcuni pure della Lega), tenga particolarmente anche alla comunicazione.
Non a caso nello staff c’è chi si occupa specificatamente – e giustamente – del «monitoraggio delle agenzie di stampa, la stesura e l’invio di comunicati stampa», chi invece della «gestione» e del «monitoraggio dei social network relativi alle attività istituzionali del ministro», chi infine pure della «produzione di prodotti video» (compenso annuo: 24mila euro). Tanto per non farsi mancare nulla. Ed essere certi di raccontare il «merito» in tutte le sue sfaccettature.
(da TPI)
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Gennaio 28th, 2023 Riccardo Fucile
LO STORICO PENTITO DI MAFIA: “IL COVO RIPULITO PRIMA DELL’ARRIVO DEI CARABINIERI”
L’arresto del boss Matteo Messina Denaro “è stata una messa in scena” e il covo “è stato sapientemente ripulito prima dell’arrivo dei carabinieri”, tanto è vero che alla fine “gli investigatori hanno trovato solo quello che lui voleva si trovasse, cioè poca roba. Mica hanno trovato l’agenda rossa di Paolo Borsellino…”.
La cattura del capomafia? “Il risultato di un accordo”. Ne è convinto lo storico pentito di mafia Gaspare Mutolo, ex picciotto di Cosa nostra, che in una intervista esclusiva all’Adnkronos parla degli sviluppi dell’arresto della ex primula rossa Matteo Messina Denaro.
Ventidue omicidi, guardaspalle del boss palermitano Rosario Riccobono, killer ed autista del capo dei capi corleonese, il sanguinario Totò Riina, Gaspare Mutolo, nel 1991 decise di collaborare con i giudici Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino dopo. Dalla sua residenza segreta, dove vive sotto protezione, Gaspare Mutolo parla di Messina Denaro e del futuro di Cosa nostra. Mutolo si dice “stupito” anche delle modalità di arresto del boss.
“A parte la mia esperienza personale e il mio arresto- spiega – ma quando arrestano boss c’è tutto un altro clima. Armi alla mano, confusione. Qui invece è accaduto tutto in ‘tranquillitudine’ (tranquillità ndr), e questo fa pensare”. “La cattura è avvenuta con una calma che sembrava una pacificazione, io ricordo che nelle catture di questi latitanti, c’è sempre stato un movimento particolare. Mentre per Messina Denaro e per lo spessore criminale che lo ha contraddistinto in quanto imputato nelle stragi e non solo, è sembrata più che altro una messa in scena. Basta vedere le immagini in tv. Insomma, una cattura programmata, per il quieto vivere di quel momento”.
Ma cosa intende Mutolo quando parla di quieto vivere? “I Carabinieri erano tranquilli forse perché c’era un accordo. Le spiego: un personaggio del genere cammina solo con la ‘scorta’, con i guardaspalle. Mentre lui era solo con una sola persona accanto. Questo mi lascia un po’ perplesso. Insomma, per me è stata una cattura programmata, perché ci sono altri interessi. Ricordiamo i messaggi mandati dal carcere da Giuseppe Graviano su Berlusconi”.
“A me non è sembrato l’arresto di un mafioso – dice ancora Gaspare Mutolo- mentre lui era uno dei mafiosi più pericolosi al mondo”.
E poi, parla della “possibilità di una trattativa”. “C’è stata, e ci sarà sempre una trattativa tra Stato e mafia – spiega il collaboratore di giustizia – In questo arresto non ho visto turbolenza, come in altri arresti, c’era tranquillità, lo ripeto. Non c’era alcuna sorpresa. Anche l’esultanza dei carabinieri non era evidente. Finora i carabinieri o i poliziotti sono sempre intervenuti in maniera diversa. Questa mi è sembrata una passeggiata, non un arresto di un boss”.
Poi, Gaspare Mutolo parla dei covi ritrovati a Campobello di Mazara, nel trapanese. “Vede, non hanno trovato documenti importanti nell’ultimo covo – dice – ieri hanno trovato una pistola calibro 38, ma non quello che hanno sperato come l’agenda del povero giudice Paolo Borsellino. Quindi, hanno fatto sparire tutto”.
Perché? “Non hanno trovato nulla perché forse c’era questo accordo, che Messina Denaro si doveva consegnare e lui avrà fatto sparire tutto. Qualsiasi persona ha qualcosa di compromettente a casa, figuriamoci Messina Denaro. Noi sappiamo che Messina Denaro fa parte della massoneria, della mafia, ha compiuto tutte le stragi e le cose orrende accadute in Italia, ma sicuramente non troveranno niente perché lui si è consegnato”.
E aggiunge: “Hanno fatto trovare quello che lui ha voluto fare trovare, come il viagra, i soldi, gli scontrini, i libri su Putin e Hitler, ma non c’era un documento serio, perché lui era in contatto con i maggiori industriali della Sicilia e dell’Italiia”.
Per Gaspare Mutolo “tutti a Campobello di Mazara sapevano che fosse lui, almeno l’80 per cento delle persone lo sapeva”. E spiega il motivo: “Io, quando sono stato latitante e stavo a 300 metri da casa mia, in zona lo sapevano tutti. Figuriamoci se non lo sapevano i vicini di Messina Denaro…”.
Ma ora cosa succede in Cosa nostra? “Secondo me non succede niente. Qualcuno apprezzerà il suo gesto di resa per fare capire al governo che la mafia è cambiata, ricordiamoci che lui ha pochi anni di vita”.
Per Mutolo Messina Denaro “si è sacrificato, se lui è davvero ammalato cosi gravemente sono convinto che si sia fatto arrestare per lasciare un ricordo”.
Quale? “Che si è sacrificato per un gesto d’amore. In cambio, il governo dovrebbe dare qualcosa, come un intervento sull’ergastolo ostativo ad esempio o sul 41 bis, insomma tutto quello che c’era nel famoso papello di Riina”.
Anche se nei giorni scorsi, ha confermato la linea dura nella lotta alla mafia? “A volte uno può cambiare idea, per ora il Governo dice che non cambierà niente, bisogna aspettare. Bisogna avere pazienza. Il tentativo è quello di cambiare completamente le cose”. Poi ricorda che “lo Stato è stato a due passi dallo sconfiggere la mafia, nel ’92 e nel ’93, poi piano piano hanno fatto marcia indietro”.
“Con questo gesto Messina Denaro può aiutare molti mafiosi in carcere”, dice il collaboratore.
Ma oggi la mafia quanto è forte? “E’ sempre forte, è più forte di prima, ormai non spara, lo fa solo in momenti eclatanti ma se deve fare qualche azione, ci sono tanti modi per eliminare una persona”. E dice che “non è più la mafia ignorante di una volta, si è emancipata, i figli dei mafiosi sono andati a scuola si sono laureati, perché il mafioso è sempre in cerca di soldi. Il denaro è il demonio, il male dell’umanità”
Che tipo di boss era Messina Denaro, viste le sue letture? “Beh, anche Luciano Liggio era un grande lettore, anche se lui leggeva Sofocle a Aristotele…”, dice Gaspare Mutolo. E aggiunge: “Io ho fatto tanti peccati nella mia vita, io sto cancellando tutto con la pittura, io ho cambiato vita collaboro da 30 anni,la mia vita è dipingere”. Alla domanda se Messina Denaro assomigli a Mutolo, si inalbera: “Ma cosa dice? Quello assomiglia a gente com Riina o Bagarella non a me. Io a un certo punto della mia vita ho capito che la mafia aveva cambiato pelle e ho collaborato”. Prima “la mafia aveva dei valori, non uccideva bambini o donne incinta. Dopo sì e io sono andato via”.
Per Gaspare Mutolo Messina Denaro ha “ancora milioni di euro a disposizione ma saranno in qualche paradiso fiscale. Li avrà affidati qualche industriale oltre ai familiari…”.
(da adnkronos)
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Gennaio 28th, 2023 Riccardo Fucile
IN RAI I MELONIANI ORA ROSICANO… L’OTTANTENNE GIORNALISTA HA SPODESTATO ROSSI, GIULI & C.
Molti rosicano. E di brutto. Si sentono scavalcati. “Ma come, una vita di militanza, poi arriva lui e in un batter di ciglio diventa il più ascoltato da Giorgia?”, sono le voci che si levano dal variegato universo dei giornalisti Rai tendenti a destra. Che non sono pochi.
Nicola Rao, Angelo Mellone, Paolo Corsini, Paolo Petrecca, Pierluigi Diaco, Angelo Polimeno Bottai, solo per dirne alcuni, ma nelle redazioni ci sono interi eserciti, schierati a falange.
Che ora rimuginano tutti appassionatamente contro Bruno Vespa, diventato il principale consigliere politico di Giorgia Meloni.
I suoi suggerimenti, d’altronde, grondano settimanalmente anche dai suoi editoriali sul Qn. Ruolo che prima si dividevano ex aequo l’ex consigliere Giampaolo Rossi e il giornalista Alessandro Giuli, ora entrambi fuori dall’azienda: il primo sempre sul punto di rientrare e il secondo nominato alla guida del Maxxi.
E così, con Gennaro Sangiuliano pure uscito per fare il ministro, s’è inserito Vespa, facendo imbufalire i destrorsi Rai che reclamano ruoli, posti, visibilità.
“Se non sfruttiamo il momento adesso, allora quando?”, si chiedono i meloniani, parafrasando Pirandello. E invece sembra che la premier, di fronte a questuanti di ogni genere e grado, abbia preferito l’usato sicuro del buon vecchio Bruno. Ormai diventato così potente da decidere da solo anche l’ospitata di Zelensky a Sanremo.
La bollinatura di Palazzo Chigi è arrivata con la scelta dell’ad Carlo Fuortes – ora gioco forza assai sensibile ai “desiderata” meloniani – di affidargli una striscia informativa in prima serata subito dopo il Tg1 delle 20, lo spazio che un tempo fu del Fatto di Enzo Biagi.
In una fascia, l’access prime time, di enorme ascolto. Così, giusto per sparare un missile terra-aria tra i piedi del Tg2 Post (tanto ormai Sangiuliano non c’è più) e soprattutto di Marco Damilano, conduttore di altra striscia su Rai3.
“Serve un riequilibrio a destra: se Damilano legge la giornata con le lenti del Pd, su Rai1 serve una narrazione vicina alla maggioranza”, spiega un’autorevole fonte di Viale Mazzini. Da zero a due strisce in pochi mesi, quando la medesima opportunità fu negata (da Mario Orfeo) a Milena Gabanelli, motivo per cui lasciò la Rai nel 2017.
E dunque
Vespa sia, nonostante conduca già tre serate a settimana di Porta a Porta, il suo programma storico, in onda dal 22 gennaio 1996. Col conduttore abilissimo a sfuggire al famigerato tetto dei 240 mila euro introdotto alla fine del 2016. Quando l’allora dg Antonio Campo Dall’Orto bussò alla sua porta per rimodulare lo stipendio da 1 milione e 900 mila l’anno, si trovò davanti alla seguente obiezione: “Ma quale giornalista, io sono un artista! Porta a Porta non fa solo informazione, ma intrattenimento. E poi io non sono dipendente, ma esterno”.
Dopo essersi licenziato, infatti, dal 2001 Vespa versa i contributi non più all’Inpgi, ma all’Enpals, l’ente dei lavoratori dello spettacolo. Nonostante le obiezioni dell’Usigrai secondo cui il suo è un programma giornalistico, tanto che da lì son passati diversi cronisti che poi hanno fatto causa all’azienda (con testimonianze a favore proprio di Vespa).
Non è l’unico: Giovanni Floris fece lo stesso con Ballarò, passando da interno a esterno per guadagnare di più. Dopo diversi tagli, il contratto di Vespa è stato poi ridotto a 1 milione e 200 e ora a 1 milione. “Un’azienda che affida a un solo soggetto la conduzione di tutto l’approfondimento di Raiuno dà l’impressione di non avere altra scelta. Non vorremmo che Vespa diventasse un genere”, fa notare il sindacato. E con la striscia si darà pure la linea da solo: ci rivedremo tra un paio d’ore a Porta a Porta.
(da Il Fatto Quotidiano)
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