Gennaio 21st, 2023 Riccardo Fucile
LE PAROLE SBAGLIATE AL MOMENTO SBAGLIATO, VISTO CHE L’ARRESTO DI MESSINA DENARO STA FACENDO EMERGERE UNA FITTISSIMA RETE DI COMPLICITÀ, ANCHE POLITICHE, CHE HANNO PERMESSO LA LATITANZA DEL BOSS… E INFATTI SU INTERNET È PARTITO SUBITO LO SPERNACCHIAMENTO
Secondo il ministro dell’Interno, il livello politico della mafia è cosa passata. E niente, mi fermo qui: una battuta migliore è oggettivamente impossibile.
“Il livello politico della mafia è storia passata”, dice Matteo Piantedosi. Parole, quelle pronunciate dal ministro dell’Interno ieri sera intervistato da Corrado Formigli a “Piazzapulita”, che hanno subito scatenato il web proprio mentre le indagini della Procura di Palermo sull’arresto di Matteo Messina Denaro stanno facendo emergere una fittissima rete di complicità, a cominciare dalla massoneria, che ha reso possibile la trentennale latitanza del boss facendolo sentire così sicuro da commettere erroti che lo hanno portato nella rete dei carabinieri del Ros.
Errori e complicità che lo stesso ministro dell’Interno ammette, escludendo però qualsiasi connivenza a livello politico: un ambito, quello della cosiddetta zona grigia, ancora tutto da esplorare dagli inquirenti,
“Credo che questa sia una storia più del passato, questo lo dico veramente con considerazioni trasversali a qualsiasi forza politica del momento”, la risposta di Piantedosi a proposito dell’ipotesi di un livello politico nella mafia attuale. “Credo che le lezioni del passato siano state sufficienti al sistema politico nazionale, per cui non ci sono elementi”.
(da agenzie)
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Gennaio 21st, 2023 Riccardo Fucile
“È NECESSARIO UN USO PIÙ ACCORTO DEL RAPPORTO CON I MEDIA E SOPRATTUTTO UN’AZIONE ORDINATA DI GOVERNO”
La macchina di governo non va, o almeno non va come Meloni vorrebbe che andasse. È vero che la legislatura è iniziata in modo anomalo, che l’esecutivo non ha avuto nemmeno il tempo di giurare e si è trovato a dover varare in poche settimane la Finanziaria. Che insomma non c’è stato nemmeno il tempo del rodaggio: la concitazione degli eventi ha costretto Palazzo Chigi a prendere decisioni non facili, adottando provvedimenti urgenti e costringendolo in alcuni casi a fare retromarcia.
Ma dopo l’abbrivio dei primi mesi l’alibi non regge più e peraltro la premier — ossessionata dall’idea della perfezione — non intende usarlo come scudo. Perciò vuole «cambiare modello», immaginando — racconta una fonte molto autorevole — «meccanismi idonei per un maggiore coordinamento» tra i ministri. E anche lei si è messa in discussione, siccome «abbiamo dato all’esterno la sensazione che voglia fare tutto da sola. Non è così, ma è così che appare».
Ecco la riflessione che ha spinto l’altro ieri Meloni in Consiglio dei ministri a invitare la sua squadra di governo a ridurre l’uso dei decreti legge e privilegiare l’adozione dei disegni di legge.
Non è un problema di contrasti all’interno dell’esecutivo e nemmeno di relazioni con gli alleati che provano a intralciare il passo. Dietro la scelta tecnica c’è un tema politico: se l’obiettivo di Meloni è consolidarsi a palazzo Chigi (e nel Paese), va intanto smentita con i fatti e gli atti quell’immagine naif che sta accompagnando la narrazione del suo gabinetto dall’esordio.
E allora è necessario un uso più accorto del rapporto con i media — tema sul quale la premier si è già fatta sentire con alcuni ministri — e soprattutto «un’azione ordinata di governo», come sottolinea uno dei suoi maggiori rappresentanti. Traduzione dal politichese: evitare la confusione.
Quanto sia delicato il tornante lo si intuisce dalla crisi del rapporto tra Forza Italia e Lega, già incrinato nei giorni della formazione del governo. Staccati nei sondaggi e alla ricerca di consensi, i due partiti hanno preso a farsi la guerra, al punto che in Lombardia l’assessore azzurro Rizzi è passato all’ultimo momento con il Carroccio. Che l’ha subito candidato.
Un vero e proprio affronto. «Salvini — dice uno dei maggiorenti forzisti — aveva garantito che non sarebbe successo. Berlusconi se l’è segnata al dito».
Tanto che il Cavaliere in questi giorni non ha mai dato il suo endorsement alla riforma dell’Autonomia. È la fine dell’asse su cui aveva puntato un pezzo di Forza Italia. È l’anticipo di un definitivo mutamento della coalizione. Anche per questo Meloni deve organizzare meglio il suo governo. Perciò vuole «cambiare modello».
(da il Corriere della Sera)
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Gennaio 21st, 2023 Riccardo Fucile
POLETTI È PASSATO ALLA STORIA IN QUANTO BIOGRAFO DI MATTEO SALVINI, CHE LO PREMIÒ CON LA CONDUZIONE DI “UNO MATTINA”… GLI SPOSINI HANNO INVITATO A PRANZO UN RISTRETTO GRUPPO DI AMICI E FAMILIARI AL RISTORANTE OLIO DI ORIGGIO, CON L’OBBLIGO TASSATIVO DI NON SCATTARE E POSTARE FOTOGRAFIE… IL MARITO È PUBBLICAMENTE UN SOSTENITORE DELLE BATTAGLIE LGBTQ
Roberto Poletti, giornalista e conduttore televisivo, nonché biografo di Matteo Salvini, è convolato a giuste nozze. O meglio a “giusta unione civile”.
L’ex conduttore di Uno Mattina si è unito infatti civilmente lo scorso 8 ottobre al suo storico compagno e convivente Francesco Naccari.
Lui è un giovane dirigente delle FMN Group a Milano di origini calabresi e, a differenza del neo marito, è pubblicamente un sostenitore delle battaglie a favore dei riconoscimenti dei diritti della comunità Lgbtq e qualcos’altro.
Poletti invece in passato si è espresso quantomeno criticamente nei confronti degli stessi temi, a partire dal Ddl Zan contro l’omotransfobia. Ma in amore, si sa, gli opposti si attraggono.
Dopo il rito civile gli sposini hanno invitato a pranzo un ristrettissimo gruppo di amici e familiari. Si sono attovagliati al ristorante Olio di Origgio (Varese) con l’obbligo di non scattare e postare foto (viva la verità!).
Ma la fede al dito di Poletti in tv racconta di una verità firmata in un registro comunale. E vale più di mille foto postate. Perché, in fondo, la verità non è mai una ipotesi.
Roberto Poletti è un ex parlamentare. È stato eletto come deputato indipendente nel 2006 con i Verdi. Era così tanto Verde che alla fine ha preferito la Lega, ed è approdato a Radio Padania e Telelombardia.
Poletti è stato poi nominato direttore di ‘Milano 2015’, il canale sul digitale terrestre sostenuto dall’associazione ‘Milano Fuori dal Comune’ (onlus vicina alla Moratti nata per la campagna elettorale).
Poi c’è il Poletti consulente di Davide Boni (ex presidente del Consiglio Regionale in Lombardia), il posto in ATM (azienda dei trasporti milanese) con un emolumento, dicono, di tutto rispetto. E nel 2015 il grande il best-seller: “Salvini&Salvini – Il Matteo-Pensiero dall’A alla Z”.
Per Poletti il successo è arrivato da inviato e opinionista in Mediaset per i programmi para-sovranisti di Rete 4, e poi il grande salto in Rai come conduttore di Uno Mattina estate e Uno mattina versione invernale, con una ultima parentesi come inviato e opinionista alla Vita in Diretta di Alberto Matano.
Oggi è tornato in Mediaset come opinionista di Pomeriggio cinque condotto da Barbara D’Urso.
(da Dagospia)
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Gennaio 21st, 2023 Riccardo Fucile
L’IRAN NON RICONOSCE L’ANNESSIONE DELLA RUSSIA DEI TERRITORI UCRAINI, PUTIN SEMPRE PIU’ ISOLATO
Si apre una falla nell’asse che sembrava di ferro: quella tra Teheran e Mosca. Una falla che racconta più cose, tutte importanti. Racconta di una Federazione Russa che a undici mesi dall’inizio della guerra d’aggressione all’Ucraina sta subendo sconfitte militari alle quali si accompagna un crescente isolamento internazionale.
Il primo a entrare in crisi è stato l’asse con la Cina. Ora la stessa sorte sembra toccare a quello con l’Iran. Certo, siamo ancora lontani da una rottura, ma se si pensa che solo fino a qualche settimana fa gli analisti internazionali ragionavano sul patto di ferro, militare e politico, tra Mosca e Teheran, la presa di distanza di oggi è un segnale importante che va monitorato con l’attenzione che merita.
L’Iran non riconosce l’annessione della Russia dei territori ucraini di Lugansk, Donetsk e Crimea. Lo ha sottolineato il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian in un’intervista al canale turco Trt World. «Riconosciamo la sovranità e l’integrità territoriale dei Paesi nel quadro del diritto internazionale e per questo, nonostante gli ottimi rapporti tra Teheran e Mosca, non abbiamo riconosciuto la separazione della Crimea dall’Ucraina. Non abbiamo riconosciuto la separazione di Lugansk e Donetsk dall’Ucraina perché insistiamo sul nostro principio coerente in politica estera. Quando diciamo che la guerra non è la soluzione in Ucraina, lo intendiamo e lo crediamo come una politica fondamentale e ci basiamo su questo», ha detto il ministro iraniano. «La posizione della Repubblica islamica dell’Iran è stata chiara sin dall’inizio di questa guerra ed è stata reiterata al più alto livello. Ci opponiamo alla guerra e siamo concentrati sulle soluzioni politiche. Inoltre consideriamo gli atti provocatori della Nato e alcuni dei Paesi occidentali come la principale causa dietro a questa guerra», ha affermato Amir-Abdollahian.
«Abbiamo fatto un grande sforzo per mediare tra Kiev e Mosca a livello di ministri degli Esteri e presidenti, e speriamo che presto ci sarà la pace in Ucraina e la guerra sarà conclusa».
Non sono dichiarazioni di circostanza. Tutt’altro. Ed è importante, confidano a Globalist fonti diplomatiche che ben conoscono il dossier Ucraina, che l’intervista in questione del ministro degli Esteri iraniano sia stata concessa ad una televisione turca. Non è una scelta casuale. Il presidente della Turchia, Recep Tayyp Erdogan, da tempo cerca di accreditarsi, con qualche successo, come il più credibile mediatore tra Mosca e Kiev. Ed è altrettanto significativo che il capo della diplomazia iraniana abbia ripreso un concetto caro ad Ankara come a Pechino: quello dell’integrità territoriale che non può essere messa in discussione da guerre d’aggressione.
D’altro canto, quello lanciato dall’Iran con l’intervista del ministro degli Esteri, uomo considerato molto vicino alla Guida suprema della Repubblica islamica, l’ayatollah ali Khamenei, è un messaggio che ha due destinazioni: il Cremlino e la Casa Bianca. Alle prese con una protesta popolare che dura ormai da quattro mesi e che neanche una feroce repressione è riuscita a placare, il regime teocratico-militare iraniano lancia segnali all’amministrazione Biden. La fine delle sanzioni, o comunque un loro allentamento, in cambio di una presa di distanze, in divenire, da parte di Teheran nei confronti di Mosca. Non si può parlare ancora di una svolta, ma certo può esserne l’inizio.
(da Globalist)
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Gennaio 21st, 2023 Riccardo Fucile
SECONDO LE CHAT DEGLI INDAGATI, SAREBBE STATO UN FEDELISSIMO DELLA SANTANCHÈ, CHE L’AVREBBE ADDIRITTURA DEFINITO “IL MIO CANDIDATO”… LA SUA VERSIONE: “GIOVANNI DONZELLI SAPEVA DELL’ACCORDO” – IL DEBITO CON IL FISCO DA DUE MILIONI E L’INVITO AL MATRIMONIO A DUE UOMINI ESPONENTI DELLE FAMIGLIE DELLA LOCRIDE CONDANNATI PER ESTORSIONE
Spulciando le carte giudiziarie dell’inchiesta della procura di Milano su alcuni fedelissimi della Meloni come l’eurodeputato Carlo Fidanza e il deputato Giangiacomo Calovini si capisce perché, in queste ore, negli uffici di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi e nella sede nazionale di Fratelli d’Italia si respiri aria pesante.
Ora, al netto delle responsabilità penali tutte da dimostrare (Fidanza è già stato archiviato per l’inchiesta della lobby nera) altri documenti inediti dell’inchiesta rischiano di creare altri grattacapi politici e reputazionali al cerchio magico della premier. In primis al ministro del Turismo Daniela Santanché e a big del partito come Giovanni Donzelli.
Al centro dell’affaire c’è infatti un medico calabrese finora quasi sconosciuto alle cronache, l’urologo calabrese Arci. Che nel 2018, riesce ad entrare a Palazzo Loggia ai danni del suo collega di partito Calovini, primo dei non eletti. Ma chi è Arci?
Secondo le chat degli indagati, un sodale politico della Santanché. Dopo la sua elezione Fidanza scrive infatti a Calovini: «Comunque la “Santa” al telefono con (Isabella) Rauti si è “bullata” del risultato di Acri, “il mio candidato”». Calovini risponde: «Beh ovvio, ognuno dirà che è il suo fino a quando succederà qualche casino, e allora sarà il candidato di nessuno…lui comunque ha detto che risponde a Ignazio (La Russa, attualmente presidente del Senato, ndr).
Ieri la Santanché, citata nelle carte come la dirigente che ha tentato di convincere Acri a non dimettersi per lasciare il campo a Calovini, ha spiegato a chi vi scrive che nulla sapeva dell’accordo che i pm milanesi considerano frutto di corruzione. Aggiungendo che Acri non è affatto un suo uomo, e che lo chiamò solo «come coordinatrice del partito in Lombardia».
Sia come sia, il profilo di Acri non è banale. Secondo le carte di alcuni procedimenti penali e i commenti dei suoi stessi colleghi di partito, il dottore emigrato a Brescia avrebbe frequentazioni borderline. La Finanza segnala per esempio come Calovini invii a una sua amica degli screenshot delle carte giudiziarie di un procedimento penale della procura di Brescia del 2019.
Interrogatori in cui un investigatore e il pubblico ministero fanno cenno ad Acri durante un’udienza del processo contro terzi. I documenti fanno riferimento al matrimonio di Acri con una donna russa, avvenuto il primo luglio del 2017 in una chiesetta a Paderno Franciacorta.
L’evento «viene attenzionato» dalle forze dell’ordine, e un investigatore spiega: «Acri tramite Stefano Tripodi invita Massimo Sorrentino, che non potrà partecipare. Riscontrammo anche la presenza di Saverio Tripodi, Gaetano Fortunio e Mario Attilio Macrì» Se i Fortunio sono una famiglia celebre della Locride («Gaetano era l’unico dei Fortunio libero in quel momento libero»), dice l’investigatore che testimonia, Massimo Sorrentino, titolare della pizzeria a Brescia “I tre monelli”, qualche mese fa è stato condannato in appello a 10 anni di carcere per estorsione, ricettazione e incendio. Il pm aveva chiesto anche l’aggravante del metodo mafioso, ma i giudici non l’hanno accolta
Leggendo il fascicolo si scopre poi che i dirigenti di Fratelli d’Italia sapevano pure che il suo gettone in consiglio comunale veniva regolarmente pignorato dal fisco. Questo, scrive la Gdf, perché «è in essere un atto pignorativo sui redditi percepiti da Acri da parte dell’Agenzia delle entrate». I debiti con il fisco del «candidato della Santanché» ammontano nel 2022 alla bellezza di oltre due milioni di euro.
«Queste so cose vecchie» dice l’ex consigliere «Colpa del mio commercialista, che poi è stato radiato. Adesso il mio avvocato sta facendo le nuove pratiche per risolvere tutto. Una maxi evasione? Guardi, il fatto è venuto fuori quando mi volevano dare un’onorificenza. Quella di Cavaliere della Repubblica. Facendo i controlli preventivi sul mio nome, si sono accese tutte le lucine degli alert, tipo albero di Natale. Risultava non avevo pagato un sacco di cose, ma non per colpa mia».
FRATELLI COLTELLI
La vicenda di Acri sorprende perché dentro il partito, almeno nel 2021, in molti conoscevano bene il suo profilo. Qualcuno lo definiva addirittura «un mafius’». Oppure uno – come dice Calovini in una chat – che fa accordi «con qualche membro della criminalità organizzata».
Com’è possibile dunque che i dirigenti di Fratelli d’Italia abbiano deciso di fare una trattativa politica con Acri per convincerlo a dimettersi, tanto da incontrarlo due volte in via della Scrofa e a proporre poi l’assunzione di suo figlio al Parlamento europeo? Chi conosceva a Roma i dettagli di quelli che gli indagati chiamano “Operazione Acri”?
Il medico calabrese dà a Domani la sua versione. Ricorda che a Brescia era stato già in passato consigliere nelle file del Pdl, e che era stato richiamato dai meloniani (ma non dice da chi) per le elezioni del 2018. «FdI era a livello di prefisso telefonico, sul 3 per cento, e mi dissero le solite cose: “Guarda che c’è bisogno di una faccia pulita, un persona conosciuta”. Così sono stato eletto di nuovo, poi però mi sono rotto le balle perché le promesse poi non venivano esaudite», spiega.
Poi Acri per chiarire l’assenza di illeciti nell’operazione-dimissioni fa il nome di Giovanni Donzelli, deputato e responsabile nazionale di Fdi: «Le mie dimissioni erano frutto di un accordo politico. Per me contano ancora le vecchie maniere. Noi ci diamo la mano, ed è la parola che conta. Noi (lui e Calovini ndr) siamo andati a via della Scrofa a parlare con i dirigenti nazionali, ed eravamo tutti d’accordo. Allora, mi dite da dove verrebbe l’anomalia dello scandalo? La corruzione dov’è? Sono accordi politici normali. Donzelli ha detto “va bene”.
L’assunzione di mio figlio da parte di Fidanza? Non ne accennai in quell’occasione, era una cosa mia. Ai dirigenti del partito dissi: “Guarda che deve essere questo, questo, questo e quest’altro”. A me interessava fare o il console per la Russia in Sicilia, o diventare consigliere regionale. Meglio ancora deputato. Con questa mossa della procura però mi hanno fatto fuori. Comunque Donzelli è stato messo al corrente di quello che dovevamo fare».
(da Domani)
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Gennaio 21st, 2023 Riccardo Fucile
“ERA SOLO UN VIOLENTO. INGAGGIÒ LA GUERRA STUPIDA CONTRO LO STATO E AD APPROFITTARNE FU LA ‘NDRANGHETA, CHE OGGI È LEADER DELL’IMPORTAZIONE DI COCAINA IN EUROPA”, MESSINA DENARO L’AVEVA CAPITO
“Riina era un cretino. Era solo un violento. Per essere un capo non devi essere violento, devi essere intelligente”. Lo ha detto il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, intervenuto in Senato presso la Sala Caduti di Nassirya alla presentazione del portale ‘Scelgo la vita’.
E mentre Cosa nostra ingaggiò, con lo stragismo, la “guerra stupida contro lo Stato” ad approfittarne fu la ‘Ndrangheta, al punto, ha ricordato, che ad oggi “è leader nell’importazione di cocaina in Europa”.
Cosa Nostra non è finita ma anzi riparte dalla stagione di Messina Denaro, soprattutto con un’attenzione diversa agli affari. Si parla molto di suoi investimenti nelle energie rinnovabili. Lo raccontò Totò Riina in una memorabile intercettazione nel carcere di Milano: «A me dispiace dirlo, questo signor Messina… Questo che fa il latitante, che fa questi pali eolici, i pali della luce… Se la potrebbe mettere nel c. la luce, ci farebbe più figura».
Il boss credeva nel lusso. Camicie firmate. Orologio da 36 mila euro al polso. Etichette prestigiose del vino di Marsala nel portafoglio investimento, come per l’olio di qualità e l’ottimo vino catarratto. Messina Denaro aveva capito il valore dei marchi doc. E l’importanza della grande distribuzione.
Tanto che sarebbe un uomo da 5 miliardi di euro, manovrati grazie ai prestanome. Quanto siamo lontani dai «viddani» di Corleone, uomini di campagna, soddisfatti di pane e ricotta, nascosti in casolari sperduti tra le campagne. Secondo un pentito, Messina Denaro si sarebbe comprato persino un palazzo a Venezia, con vista sui canali, grazie a un prestanome. Cose inimmaginabili per i vecchi capi di Cosa Nostra.
Quindi dopo di lui verrà una mafia imprenditrice, svincolata dall’edilizia e dal movimento terra. La mafia che riparte da Messina Denaro, dunque, egemonizza il territorio ma ragiona sui suoi sentimenti. Non si esalta nello scontro per lo scontro. Usa la violenza solo quando serve. E diffida della politica.
Resta il nodo di fondo: come sarà la mafia siciliana del futuro? Forse mutuerà l’organizzazione orizzontale della ‘ndrangheta, che riserva al vertice solo ruoli di coordinamento. Messina Denaro qualche anno fa strinse un patto con i capi della ‘ndrangheta in Piemonte per «lavorare insieme e diventare un’unica famiglia». È quanto emerge nel processo Carminius-Fenice. Sarebbe una notevole rivoluzione per Cosa Nostra, abituata a dominare e ora non più.
(da La Stampa)
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Gennaio 21st, 2023 Riccardo Fucile
DALL’EURODEPUTATO DELLA LEGA CIOCCA AD ANTONIO TAJANI
C’è un dato che salta subito all’occhio nella richiesta di archiviazione dell’indagine della Procura di Milano a seguito dell’inchiesta Lobby nera pubblicata da Fanpage. I magistrati, infatti, nel verificare le fonti di finanziamento dei candidati di centrodestra, hanno riscontrato due bonifici provenienti da Unicusano, l’università telematica privata, a cui la Guardia di Finanza di Roma ha da poco sequestrato beni per 20 milioni di euro.
Come si evince dalla lettura dei registri sulla trasparenza dei finanziamenti ai partiti e dalle indagini prodotte dalla Procura di Milano e da quella di Roma, Unicusano avrebbe più volte nel corso degli ultimi anni corrisposto cospicue somme di denaro a esponenti di Forza Italia e Lega, oltre ai partiti Alternativa Popolare e Impegno civico.
Stando alle risultanze investigative della Procura di Milano, l’università telematica, tramite un conto alimentato dai pagamenti delle rette dei suoi iscritti, ha disposto due versamenti in favore di due politici particolarmente in vista del centrodestra: l’eurodeputato leghista Angelo Ciocca e l’allora presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, ora vicepremier, ministro degli Esteri e coordinatore di Forza Italia.
Il primo bonifico risale al 2 maggio 2019 ed è di 100 mila euro in favore del mandatario elettorale di Antonio Tajani, adesso capofila di Forza Italia nel governo Meloni. Il secondo, del 6 maggio del 2019, di 80 mila euro, è verso il conto del mandatario elettorale di Angelo Ciocca, esponente di peso della Lega in Europa.
A presiedere l’Unicusano è Stefano Bandecchi, coordinatore nazionale di Alternativa Popolare, il partito con cui fino a qualche giorno fa si diceva pronto a correre per sostenere Francesco Rocca, il candidato del centrodestra per la presidenza della regione Lazio. Stando a quanto emerge dalla lettura dei registri sulla trasparenza dei finanziamenti ai partiti, l’imprenditore, ora indagato dalla Procura di Roma, tramite le due principali sue società, l’Università degli studi Niccolò Cusano, e la Società delle scienze umane S.r.l., ha disposto una lunga serie di finanziamenti, non solo a candidati politici, ma anche ai partiti.
Fra questi soggetti politici, destinatari dei soldi delle società, c’è proprio Alternativa Popolare, finanziata nel 2022 con la somma complessiva di 100 mila euro, disposti in due tranche da 50 mila, provenienti dai conti dell’Università e della Società delle scienze umane, la società cappello di tutte le altre riconducibili a Bandecchi, e che di fatto ha dato vita allo stesso ateneo. Nel settembre del 2022, inoltre, in piena campagna elettorale per le elezioni politiche, dal conto corrente dell’ateneo parte un bonifico di 30 mila euro verso Impegno Civico, la nuova sigla politica scelta dall’ex ministro degli Esteri Luigi Di Maio.
La storia dei bonifici per finanziare uomini e partiti politici attraverso i fondi provenienti dall’Università non è una novità. Dal 2019 al 2022, le società di Stefano Bandecchi hanno utilizzato 470 mila euro provenienti in maniera diretta e indiretta dalle casse dell’ateneo per sostenere partiti e uomini politici vicini al loro fondatore. Il primo finanziamento a un partito da parte di una società di Bandecchi indicato dal portale della trasparenza del Parlamento, risale al 23 ottobre 2019 verso Forza Italia, quando tramite la Società delle scienze umane dispose un versamento di 20 mila euro. Forza Italia, sempre dalla stessa società, ricevette altri due finanziamenti, nel 2020 e nel 2021, di 40 mila e 95 mila euro. Il partito fondato da Silvio Berlusconi è anche lo stesso con cui nel 2005 Bandecchi si era candidato alle elezioni regionali nel Lazio.
(da Fanpage)
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Gennaio 21st, 2023 Riccardo Fucile
È LA PRIMA VOLTA CHE SUCCEDE DOPO QUATTRO ANNI DI AUMENTI COSTANTI. COLPA DELL’INFLAZIONE E DEL CAROVITA, OLTRE CHE DEI COSTI DI GESTIONE DEI CONTI… E INTANTO CRESCONO ANCHE I DEBITI PRIVATI
Con l’inflazione e il carovita aumentano i debiti delle famiglie italiane. In particolare si registra un incremento dei prestiti per il consumo e una tenuta dei finanziamenti personali.
E’ quanto emerge da una analisi della Federazione autonoma bancari italiani (Fabi) sugli effetti dell’inflazione e del carovita sulle famiglie italiane. Nel complesso l’ammontare dei prestiti per entrambe le categorie a fine 2022 si è attestato a 256 miliardi di euro, in crescita rispetto a gennaio dello stesso anno (+1,5 %) e superando la tendenza al costante aumento dal 2017, pari all’1,2%.
L’inflazione e il carovita invertono la tendenza al risparmio degli italiani e portano ad una erosione dei conti correnti delle famiglie. E’ quanto emerge da una ricerca della Federazione autonoma bancari italiani (Fabi).
Dopo quattro anni di costanti aumenti, nel 2022 il saldo totale dei conti correnti delle famiglie è diminuito di quasi 20 miliardi di euro. Da agosto a novembre si è registrato, infatti, un calo di 18 miliardi da 1.177 miliardi a 1.159 miliardi, con una riduzione dell’1,5%. Già a giugno, rispetto a maggio, c’era stata una prima diminuzione di 10 miliardi.
La vistosa inversione di tendenza sulla capacità di accumulo dei correntisti, evidenzia l’analisi della Fabi, arriva dopo un lungo periodo di incremento dei saldi dei depositi bancari: a fine 2017 l’ammontare complessivo era a quota 967 miliardi, a fine 2018 a quota 990 miliardi (+23 miliardi), a fine 2019 a 1.044 miliardi (+54 miliardi), a fine 2020 a 1.110 miliardi (+66 miliardi) e a fine 2021 a 1.144 miliardi (+34 miliardi).
I dati evidenziano quasi cinque anni di risparmi (da dicembre 2017), ma con un preoccupante cambio di rotta alla fine del 2022: i conti degli italiani sono sempre cresciuti e hanno superato quota 1.000 miliardi, con una tendenza all’accumulo che ha oltrepassato i 212 miliardi di euro (somma del risparmio accumulato dal 2017 al maggio 2022).
La variazione annuale è stata sempre positiva e con un bilancio totale di 1.044 miliardi a fine 2019, a 1.110 miliardi a fine 2020, a 1.144 miliardi a fine 2021 e a 1.179 miliardi a maggio 2022. Se nei primi sette mesi del 2022 la liquidità accumulata dalle famiglie ha quasi sfiorato i 1.180 miliardi di euro, con una crescita – seppur più lenta rispetto al passato – dello 0,9% da inizio anno, i dati dei quattro mesi successivi confermano i timori, ormai accertati, di un “crollo di potere di acquisto – evidenzia la Fabi – che costringe gli italiani ad attingere alle loro riserve per far fronte ai maggiori costi”.Da luglio a novembre, il totale dei conti correnti è calato di quasi 20 miliardi di euro. Il valore complessivo era di 1.178 miliardi di euro a luglio e di 1.159 miliardi di euro a fine novembre, con una riduzione di quasi due punti percentuali (-1,53%) e che dimostra che il prezzo della crisi comincia ad essere tutto nelle tasche degli italiani.
(da Ansa)
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Gennaio 21st, 2023 Riccardo Fucile
CON LUI IL PAESE SI RISVEGLIA NEL PASSATO
Neppure concentrando le loro forze, i vari De Magistris, Woodcock, Ingroia e via indietreggiando sino all’insuperabile Di Pietro, avrebbero saputo inventarlo meglio – e forse sarebbe giusto dire peggio – di così. Carlo Nordio suona infatti la carica come se fosse il ministro di Astio e Giustizia: “la democrazia dimezzata”, “il Parlamento supino”, “il pasticcio colossale”, “voi vedete mafia dappertutto”.
Come se scrivesse il capitolo finale del suo libro “Giustizia ultimo atto”, Nordio si intesta dunque “la rivoluzione copernicana” e si trasforma nel Giustiziere della Giustizia.
Ed è come se davvero diventasse quel Charles Bronson al quale tanto somiglia fisicamente e del quale, è vero, c’è qualcosa in ciascuno di noi quando ci ricordiamo per esempio, della ministra Federica Guidi che dice al marito “mollami, tu mi tratti come una sguattera del Guatemala” o delle intercettazioni di quella disgraziata inchiesta denominata Vallettopoli quando il Pm di potenza John Henry Woodcock, divenne megafono di vizi privati, gestore di una videospazzatura a base di donnine, droga, yacht e transessuali.
A nessuno piace che la propria vita privata finisca sui giornali, ma che goduria quando ci finisce quella degli altri, si tratti di Vittorio Emanuele o di Fabrizio Corona oppure di Silvio Sircana o ancora di Piero Fassino.
Le intercettazioni secondo Nordio
Ebbene, anche quando denunzia giustamente l’inutile invadenza delle intercettazioni, il linguaggio mette subito Nordio dalla parte del torto. Davvero mercoledì scorso in Parlamento, la sua faccia sembrava quella incaica da immigrato lituano del giustiziere della notte che, virilone e spietato, trattava la magistratura come una bestia da addomesticare, usava il disprezzo e il dileggio, era il duro che emette la sentenza ed esegue la condanna, il borghese piccolo piccolo disegnato da Cerami per Alberto Sordi che in preda a nevrosi spericolate si mette a sparare. Infatti, mettendo le dita nella presa elettrica, è arrivato a “sparare” che le intercettazioni sono controproducenti perché “al telefono il vero delinquente non parla mai e se lo fa, dando per scontato di essere sotto controllo, racconta un sacco di fandonie per depistare gli investigatori”. Tutti sanno che Matteo Messina Denaro, che di telefoni ne aveva due, è stato intercettato e catturato mentre Nordio, ormai cattivo per bontà, è diventato il ministro della Giustizia come lo vuole Marco Travaglio, il perfetto contraltare dei manettari e dei giustizialisti, il loro uguale e contrario.
Un salto nel passato
Ma così, grazie a Nordio, l’Italia precipita nel passato, si risveglia trent’anni fa in piena apocalisse, in pieno giudizio universale: giustizialisti contro garantisti, giudici contro politici. Con la differenza che oggi le posizioni si spostano e si rimescolano in ciascuno di noi perché la storia è stata lunga e siamo stati tutti un poco bianchi con il sindaco di Lodi Simone Uggetti, molto maltrattato dai Pm, ma siamo sempre neri contro i mafiosi e contro i corrotti perché in fondo in Italia non c’ è nulla di più valoroso e di più pulito della spazzatura, visto che quel che di importante è accaduto lo abbiamo appreso dalla spazzatura: dalla spada di latta del generale De Lorenzo al bunga bunga di Stato del cavaliere Berlusconi. In un paese dove tutto era falso e paludato, era posticcio e imbellettato, la verità spesso si trovava nella spazzatura. Così dalla spazzatura di Tangentopoli fiorì Di Pietro e nella spazzatura del “questo io lo sfascio” sfiorì Di Pietro. Rovistando nel sacco dell’immondizia abbiamo illuminato la morte di Giuliano e il delitto Montesi; l’emblematico Pasolini è morto nell’immondizia; la P2 era un grattacielo di immondizie. Nell’immondizia abbiamo trovato il caffè di Pisciotta ma anche il bacio di Andreotti. E nella spazzatura si innalzarono come grandezze le miserie di Maradona e di Pantani.
Dunque, si calmi, per favore, signor ministro, l’Italia è andata avanti, ma lei sembra ibernato. Anche la trattativa stato-mafia è stata spazzata via dai giudici di merito. E l’antimafia di Palermo ha perso quella faccia da “la storia siamo noi “. Oggi i procuratori De Lucia e Guido sembrano garantisti e liberali di Bloomsbury. Metta a confronto l’arresto di Totò Riina, esposto e trascinato nella gogna, sotto la regia di Caselli con quello di Matteo Messina Denaro che senza manette è stato accompagnato e curato persino da una gentile carabiniera.
E per l’omicidio di Yara, ancora nel 2011, Bossetti fu arrestato in diretta, perfetto colpevole ben prima del giudizio perché si faceva le lampade e aveva le sopracciglia ossigenate. E invece l’anno scorso, al Montarone, quando crollò la cabina e il reato era l’orribile strage colposa, il Gip non convalidò il fermo e infatti nessuno si ricorda com’erano fatti quegli imputati sottratti dal garbo del Diritto al destino di capri espiatori. E a Torino, senza insultare nessuno, Armando Spataro, quand’era capo della procura, vale a dire sino alla fine del 2018, rese esemplare l’uso delle intercettazioni.
Il rancore ottunde l’intelligenza e può diventare persino ideologia politica come dimostrarono gli allora ministri Matteo Salvini, agli Interni, e Alfonso Bonafede, alla Giustizia, che si precipitarono a Ciampino per accogliere quel Cesare Battisti con il quale furono solidali di ghigno e di grugno: quello si atteggiava a vittima, mentre loro due si atteggiavano a boia.
Rancore problema italiano
É vero che il rancore è un grande problema italiano. Ma proprio la recentissima autobiografia di Nordio, affascinante perché scritta come l’autobiografia di una nazione, dimostra che con il rancore non si amministra giustizia. Nordio racconta di essere stato “convocato dai probiviri dell’Anm, che non è un organo istituzionale, ma un semplice sindacato” per rendere conto di certi suoi scritti critici: “potevo anche mandarli al diavolo ed è quello che feci: risposi pubblicamente al Tg1 che si trattava di un metodo stalinista, che non ci sarei andato neanche dipinto, e che se mi avessero espulso avrei risparmiato la quota annuale devolvendola da buon gattaro alla protezione animali”. Ma si vendicarono e, quando arrivò la dovuta promozione a magistrato di Cassazione “fui promosso con l’astensione di nove membri, caso rarissimo nella magistratura. Mi fu suggerito di fare ricorso o almeno di attivarmi affinché quelle valutazioni critiche non fossero inserite nel mio fascicolo personale, ma risposi che al contrario ne ero ben lieto perché quelle astensioni erano solo sibili di rancore, per me un elemento di orgoglio”.
Eccoli “i sibili di rancore” esibiti come “orgoglio”. Attaccato come un ragno al filo di quel rancore Nordio non cerca, come tutti noi, il punto di equilibro tra l’uso lecito delle intercettazioni e l’inutile violazione della vita degli altri, tra il dovere delle indagini e il diritto alla riservatezza ma ci trascina in un’Italia che non esiste più. E leggendo il suo libro lo capisco bene quando arrivo al nome di Elena Paciotti, che oggi ha 82 anni, ed è ovviamente in pensione: “Tempo dopo un giornalista chiese alla dottoressa Elena Paciotti, allora presidente del sindacato e successivamente eletta nelle liste del Pds al Parlamento europeo, che fine avesse fatto la vicenda Nordio. La collega rispose con soave indifferenza che il problema non gli interessava più. Nondum matura est. Ci avevano provato”.
Ecco, si può rivelare la verità su noi stessi anche così, acchiappando memorie che ancora fluttuano dense di scontri. E come la signora del film “Good by Lenin”, che si addormenta nella Berlino comunista e si risveglia nella Berlino senza muro, ma nessuno le dice nulla, il passato diventa il presente. Carlo Nordio si batte contro il morto e intanto uccide il vivo.
(da La Repubblica)
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