Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
MA PROPRIO UN PROVVEDIMENTO DI SALVINI, QUAND’ERA MINISTRO, AVEVA FISSATO A DIECI ANNI LA DURATA MASSIMA DI UN DASPO
Siccome questi del governo mi sono molto simpatici, mi prendo la licenza di dargli un consiglio.
Parlo della scazzottata in autostrada fra tifosi del Napoli e tifosi della Roma, con il conseguente blocco del traffico (tredici chilometri di coda).
Matteo Salvini ha dedicato all’evento uno dei suoi erculei tweet: Daspo a vita! Il Daspo, per chi non lo sapesse, è la misura con cui si impedisce ai tifosi violenti di andare allo stadio.
Però io non ho capito bene: se si picchiano all’autogrill, perché impedirgli di andare allo stadio dovrebbe essere risolutivo? Vabbè, sono le mie solite obiezioni fighette. Ma poi proprio un provvedimento di Salvini, quand’era ministro dell’Interno, aveva fissato a dieci anni la durata massima di un Daspo.
Stabilire che il Daspo possa durare al massimo dieci anni e poi invocare un Daspo a vita mi sembra una roba da trastulloni, proprio un po’ alla Salvini. Lo dico con affetto, eh.
E mi accosto con tenerezza anche al ministro Piantedosi, e alla sua ingiunzione di applicare al caso il massimo della severità. Poi in arresto di teppisti ne sono rimasti soltanto due: la cosa è grave ma mica come imbrattare il muro del Senato.
Poi certo, ci saranno i processi e vedremo, ma gente così energica, così risoluta come quella applicata al governo avrebbe preferito prendere questi soggetti per la collottola e fargli vedere quale aria tira. E qui mi è venuta l’idea e oserei definirla geniale. Ma, caro Salvini e caro Piantedosi, non potremmo sostenere di avere sentito questi tifosi, mentre se le davano di santa ragione, canticchiare della musica techno, e dire che in realtà era un rave party?
(da La Stampa)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
IL PIANO DI RIPRESA E RESILIENZA È DI FATTO GIÀ ARENATO: LA STRUTTURA TECNICA COORDINATA DA CHIARA GORETTI IN PRATICA NON HA REFERENTI. IN ATTESA DELLA GRANDE SOSTITUZIONE, NESSUNO RIESCE A LAVORARE SERENAMENTE
Il cantiere del Pnrr si è fermato. La struttura tecnica coordinata da Chiara Goretti, la “mamma Pnrr”, è congelata. Se si dice, come ha ripetuto la premier, che “sul Pnrr si cambia” è chiaro che la struttura si arresta in attesa della grande sostituzione. Che autorevolezza può avere una coordinatrice che deve sferzare le amministrazioni pubbliche se quella coordinatrice non è certa di restare?
Il ministro che si occupa di Pnrr è il bravissimo Raffaele Fitto. Ma Fitto si occupa anche di Affari europei. Si fa forte l’idea che serva un solo ministro del Pnrr che giri l’Italia. Il profilo è quello di Francesco Lollobrigida.
Giorgia Meloni era convinta che per gestire il Pnrr servisse un ministro speciale. Era dell’opinione che andasse istituito un nuovo ministero interamente dedicato a questo difficile compito. Alla fine ha deciso che ne bastasse uno per due. Nei ministeri si inizia a credere che quella idea tornerà utile se non ora molto presto e che quell’incarico lo possa un giorno ricoprire un ministro operativo come Lollobrigida.
Nel colloquio che hanno avuto Meloni, Fitto e la commissaria von der Leyen, Fitto ha illustrato come intende rimodellare i compiti della governance del Pnrr. Ha anche parlato della necessità di spendere in maniera flessibile le risorse.
Ma siamo sicuri che il problema non sia nostro, interno? Quando Draghi ha nominato l’economista Goretti a capo della segreteria tecnica del Pnrr non le ha solo dato un mandato pieno. Le ha consegnato due numeri di telefono.
Uno era quello del sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli, l’altro era quello di Francesco Giavazzi. Uno, Giavazzi, era l’interlocutore per i dossier economici, l’altro, Garofoli, ogni mattina insieme alla Goretti stanava i ministeri: “Come stanno procedendo i lavori di…”.
Goretti ha solo Fitto, ma non ha mai ricevuto pubblicamente la fiducia del governo. Goretti è mai stata ricevuta dalla premier? Malgrado i comunicati, le lezioni, agli italiani non è entrato in testa che il denaro del Pnrr non è un assegno in bianco. E’ debito comune e in Europa vogliono sapere come sono spesi questi soldi oltre ad aver messo una data di scadenza. Va speso tutto entro il 31 dicembre del 2026. Ecco perché ogni giorno che il governo lascia all’ambiguità è un giorno che l’Italia perde.
Fitto non ama il “machete” di Guido Crosetto e non avrebbe nessuna intenzione di “cacciare” Goretti. Non ha tare ideologiche e non vuole partecipare alla gara delle nomine, all’assedio al direttore generale del Mef, Alessandro Rivera.
E’ una corrida che mentre noi scriviamo continua. Il nome a cui adesso pensa Giorgetti per sostituire Rivera non è più quello di Stefano Scalera, ma quello di Cristiano Cannarsa, amministratore delegato della Consip e per sei anni ad di Sogei. Ha avuto dei colloqui con il ministro. Lo si può confermare.
Dice un ministro del governo: “Quando si vuole sostituire qualcuno non si dice, si fa, altrimenti il risultato è solo indebolire ministri e ministeri”. In un mese abbiamo già nominato tre direttori generali del Tesoro sulla carta. Fitto quando sente la domanda “ma allora chi sostituisce?”, si infuria, e giustamente. E’ troppo intelligente per non sapere che il suo ministero si occupa di Pnrr, ma che il monitoraggio continua a farlo il Mef.
Facciamo un esempio. Bisogna monitorare quanti chilometri di fibra veloce ha installato Open Fiber. Si parla di oltre 6 milioni di unità immobiliari da cablare. Chi sferza e dice: “Facciamo meglio e più veloci?”. Lo ha fatto ultimamente il sottosegretario Butti con delega all’innovazione. Ma Butti è un referente della Goretti? E Goretti è legittimata a chiamare Butti? […] Serve un ministro che come prima cosa, la mattina, alzi il telefono e chieda ai suoi colleghi, i ministri di Interno e Giustizia, perché si oppongono e non condividono le loro informazioni. Mentre si ragiona su quali teste tagliare manca la testa che talloni questi due ministeri.
(da il Foglio)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
AUMENTANO ANCHE I MINISTRI SENZA PORTAFOGLIO
Non un euro in più per lo stipendio del presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dei ministri senza portafogli, ma finanziamenti per aumentare numero di impiegati ed emolumenti per il personale che affianca i sottosegretari alla presidenza del Consiglio e i ministri di cui sopra (che non hanno budget proprio).
È la novità che si legge nel bilancio previsionale 2023 di Palazzo Chigi e che supera, in questa voce di spesa, il budget previsto dal governo di Mario Draghi.
Tre i capitoli coinvolti:
Trattamento economico fondamentale del personale non proveniente da pubblica amministrazione degli uffici di diretta collaborazione del presidente, degli eventuali vicepresidenti e del Sottosegretario di Stato, segretario del Consiglio dei Ministri al netto dell’Irap;
Contributi previdenziali a carico dell’amministrazione sulle competenze accessorie corrisposte al personale di diretta collaborazione;
I fondi Irap (sul primo capitolo).
Il totale è presto fatto, solo guardando agli aumenti: 428.668,00 + 239.489,00 + 28.054,00 arrivano a quasi 700mila euro (696.211).
Nel complesso, per questi collaboratori si spenderanno 5.564.033 euro. Non molti soldi quando si parla di bilancio dello Stato, ovviamente. Ma dopo anni di richieste di rigore, i nuovi fondi dedicati allo staff potrebbero non essere apprezzati dagli elettori di centrodestra. Da palazzo Chigi fanno però sapere che il budget aumentato corrisponde alla presenza di due vicepremier – che con Draghi non c’erano – e di un nuovo ministro senza portafogli (il totale è salito a nove). E in effetti, all’epoca del Conte 1, quando i vicepremier erano due ma i ministri senza portafogli otto, il conto era in linea con quello attuale. Anzi, leggermente più alto. Per la voce principale, quella del totale dei fondi per lo staff relativo a sottosegretari, vicepremier e ministri senza portafogli si spendeva 3.722.909 euro. Oggi siamo a quota 3.273.159.
(da agenzie)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
GLI ORGANI PROVINCIALI DOVEVANO ESSERE ABOLITI DEFINITIVAMENTE, ORA MAGGIORANZA E DEM PUNTANO A RIMETTERLI IN PIEDI CON PIENI POTERI
Tornano le province. Depotenziate dalle legge Delrio del 2014, ai tempi del governo Renzi, ora centrodestra e Pd puntano a rimetterle in piedi con pieni poteri. Sono stati depositati in Senato quattro disegni di legge per il ripristino del sistema di elezione a suffragio universale e diretto delle province. Quello di Forza Italia porta la firma di Licia Ronzulli e di altri dodici senatori azzurri, tra cui Silvio Berlusconi. Poi ci sono i ddl di Marco Silvestroni (FdI), di Massimiliano Romeo (Lega) e Bruno Astorre (Pd).
A giorni la commissione Affari costituzionali inizierà le audizioni e l’esame congiunto dei testi. La relatrice, la leghista Daisy Pirovano, ieri si è concessa una battuta davanti ai colleghi: «Sono emozionata di avere in mano anche un testo del Pd, finalmente anche voi avete capito che quella riforma è stata un errore». L’esito finale, «se si trovasse una proposta equilibrata» come dice Astorre, potrebbe anche essere un testo bipartisan.
Le province furono svuotate delle loro funzioni dalla riforma Delrio, che passò alla Camera tra le proteste del centrodestra. «Golpe! Questo è un golpe! Votiamo compatti no», gridava dai banchi dell’aula Renato Brunetta, allora capogruppo di FI. «Abbiamo detto basta a tremila politici nelle province», esultava invece Renzi: sulle riforme «dobbiamo andare avanti come un rullo compressore».
Mentre Giorgia Meloni ironizzava: «Primo vero prodigio di Renzi, finge di abolire le province e crea 25 mila poltrone in più. Supereroe». Dovevano poi essere definitivamente abolite con la riforma della Costituzione, ma la bocciatura del referendum del 4 dicembre 2016 lasciò le province a fluttuare in una zona grigia.
Ecco che ora le forze politiche provano a inserire la retromarcia. Partendo proprio dall’esito della consultazione popolare che chiuse l’esperienza di Renzi a palazzo Chigi, «quando in modo chiaro la stragrande maggioranza dei cittadini ha bocciato le riforme costituzionali nel loro complesso», scrive Romeo nel ddl che porta la sua firma e che «si prefigge lo scopo di ripristinare la legalità costituzionale».
Il disegno di legge di Forza Italia intende «ridare voce a milioni di elettori che si sono visti rimuovere il loro diritto a votare direttamente il loro presidente della provincia e il consiglio provinciale», spiega Licia Ronzulli. Il testo di FI e quello della Lega hanno in comune anche l’abolizione del ballottaggio nei comuni oltre i 15 mila per i sindaci che al primo turno abbiano preso il 40% dei voti. Il Pd chiede di rivalutare il ruolo e ripristinare le funzioni delle province «molto spesso oggetto di campagne approssimative e fuorvianti, a tratti eccessivamente denigratorie». Astorre auspica «una sorta di ripensamento normativo», necessario per «completare la riforma del Titolo V in senso ancor più autonomistico».
Anche FdI chiede di tornare all’assetto istituzionale pre 2014, cancellando la legge Delrio che «in sostanza si è limitata ad abolire i compensi e l’elezione diretta degli organi provinciali e delle città metropolitane. Questa esperienza negativa deve essere superata – chiedono Silvestroni e altri sei senatori del partito – e la parola deve tornare ai cittadini che dovranno essere di nuovo chiamati a eleggere gli amministratori». Dietrofront, nove anni dopo.
(da La Stampa)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
“TROPPI SLOGAN E TANTI DIETROFRONT SULLA BENZINA, SUL POS, SUI RAPPORTI CON L’EUROPA, SULLE PENSIONI. GOVERNARE NON È FARE CAMPAGNA ELETTORALE”
«Questa Destra è impreparata a governare. E i suoi elettori, la piccola borghesia, le periferie, le corporazioni che non hanno votato sui programmi ma soltanto come onda di opinione, hanno scoperto di essere impreparati alle delusioni della Politica. La benzina che aumenta perché tornano le accise, il carrello della spesa che sfora tutte le previsioni, la povertà che avanza. L’Italia di chi ha votato Giorgia Meloni oggi è questa: politici che devono imparare la complessità proprio mestiere e un pezzo del Paese che teme di essere stato ingannato».
È l’immagine acuta, lucidissima e amara che Giuseppe De Rita, il più grande sociologo italiano, classe 1932, fondatore e a lungo presidente del Censis, disegna di questi primi mesi di legislatura. Definendo questa “doppia impreparazione” la «malattia del corpo sociale della Destra».
Siamo già alla delusione degli elettori di Giorgia Meloni, professor De Rita?
«In parte sì. Gli aumenti pesano seriamente sulla vita delle famiglie. Pensate ai dietrofront sulla benzina, sul Pos, sui rapporti con l’Europa, sulle pensioni. Governare non è fare campagna elettorale, è gestire la complessità. Parola che in questi tempi non piace a nessuno. Del resto anche Meloni non fa più proclami, ha abbassato i toni».
Crede che questa delusione si trasformerà in protesta?
«Non ancora. Perché la rabbia si condensi ci vuole un obiettivo, un’ideologia. E chi ha votato questo governo non è ideologico, è un popolo variegato che ha scelto sull’onda emotiva dei propri interessi. Come era avvenuto sei anni fa per i grillini. Gli italiani di Destra mugugnano davanti alla pompa di benzina, ma non scendono in piazza. Siamo in una stasi depressiva. L’onda emotiva però è una mia preoccupazione».
Si fonda sugli slogan mentre governare è altra cosa?
«Esattamente. Questi partiti di Destra non hanno un apparato, non hanno una scuola di politica. Arrivano al Governo basandosi sui sondaggi e poi devono trattare con il Fondo Monetario Internazionale, devono decidere sulla guerra in Ucraina. Su misure che poi toccano il nervo vivo della società. Ma non è un talk show».
Impareranno a governare?
«Spero di sì. Così come forse i loro elettori impareranno ad aspettare. Con una differenza sostanziale: i primi sono in Parlamento, con uno stipendio assicurato, gli altri fanno i conti con la nuova povertà».
Nostalgia della prima e della seconda repubblica?
«Di certo avevamo politici più preparati. Pensi sia ai comunisti che ai democristiani. Mi sono sorpreso io stesso a rimpiangere partiti che avevano strutture forti, non soltanto leader. L’ultimo in grado affrontare la complessità del governare è stato Draghi. Ma una parte dell’Italia, quella che ha votato questa Destra, voleva parole d’ordine semplici.
Pagare meno tasse o la libertà di non vaccinarsi anche se il Covid continua a fare vittime. Per poi rendersi conto che si trattava, inevitabilmente, di promesse».
Intanto siamo sempre più poveri. Come fosse insomma un brutto risveglio di chi ha votato unicamente sull’onda emotiva?
«Con i proclami mica si fa la legge finanziaria, si convince l’Europa sui nostri conti, si nomina il presidente del Consiglio di Stato o si gestiscono migrazioni epocali. Nella comunicazione politica oggi tutto è declinato come nei talk show, uno contro l’altro che si urlano senza mai produrre un pensiero. Una modalità che sta contagiando addirittura la Chiesa. Non a caso Bergoglio l’ha definito un tragico chiacchiericcio. Però, non è sempre stato così. Anche io, da giovane, negli anni Cinquanta facevo parte di parte di quei giovani che ritenevano bastasse la propria opinione per governare».
De Rita, se i prezzi non calano, se le tasse non scendono, quanto ci metteranno gli italiani ad arrabbiarsi con la Destra che hanno votato?
«Due anni. Tempo massimo. E sarebbe già un record per la politica italiana».
(da La Repubblica)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
ALTRO RINVIO PER LE CONCESSIONI BALNEARI
La parola rinvio non è tabù. Il governo è deciso ad affrontare il tema delle concessioni balneari, che si materializzerà al Senato già dai prossimi giorni con l’esame del decreto Milleproroghe.
E la possibilità di uno spostamento in avanti delle scadenze per le gare viene seriamente presa in considerazione, nonostante le difficoltà formali legate da una parte ai vincoli europei (la riforma della concorrenza è inserita nel Pnrr) dall’altra a quelli nazionali, ovvero alla sentenza del Consiglio di Stato che imporrebbe le procedure competitive entro quest’ anno.
A Palazzo Madama l’iter del provvedimento di fine 2022 inizia oggi nelle due commissioni Affari costituzionali e Bilancio. La questione dei balneari in realtà è doppia. Da una parte ci sono le scadenze per le gare, sulle quali una parte della maggioranza ha già annunciato la volontà di dilatare i tempi. Dall’altra parte gli aumenti dei canoni che sono scattati dal primo gennaio in via amministrativa, con un adeguamento che supera il 25 per cento e che ovviamente non è piaciuto alle associazioni di categoria.
A proporre apertamente uno slittamento è Forza Italia con Maurizio Gasparri. Il nodo sarà approfondito nei prossimi giorni a Palazzo Chigi, in parallelo con i lavori parlamentari. La soluzione che si prospetta e che comunque deve essere ancora approfondita è il rinvio di un anno di tutti i termini: quello fissato al 31 dicembre di quest’ anno per lo svolgimento ordinario delle gare e quello di fine 2024 entro il quale si devono concludere le procedure anche nei Comuni che abbiano avuto oggettive e dimostrate difficoltà tecniche: questi dodici mesi di tolleranza erano già stati accettati dal precedente governo e inseriti nella legge 118 sulla concorrenza.
(da il Messaggero)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
IL BLITZ ERA FALLITO SULLA LEGGE DI BILANCIO, ORA I SOVRANISTI CI RIPROVANO
Il blitz era fallito all’ultimo minuto per la protesta delle opposizioni e per la volontà della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, di approvare la legge di Bilancio prima di Natale.
Ma il condono penale sui reati tributari ora rispunta nei progetti del governo: la norma, rivelata dal Fatto il 20 dicembre, sarà inserita nella delega fiscale che l’esecutivo approverà tra fine gennaio e inizio febbraio.
L’autore è il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, di Fratelli d’Italia, che si sta coordinando con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, e con il viceministro della Giustizia di Forza Italia, Francesco Paolo Sisto, estensore dell’emendamento che stava per essere depositato in legge di Bilancio.
Leo ritiene che, per essere completo, il suo pacchetto fiscale debba contenere anche una parte penale. Il decreto, che sarà approvato in Consiglio dei ministri tra fine gennaio e inizio febbraio, sarà ispirato al principio della “tregua fiscale”: paghi tutto il dovuto, in cambio di una sanatoria penale. L’obiettivo, dunque, è fare gettito e recuperare tutto il recuperabile. Nel governo, inoltre, l’idea è che ci sia una “sproporzione” tra le sanzioni italiane e quelle degli altri Paesi.
La norma quindi prevederà l’estinzione del processo per alcune fattispecie del testo unico dei reati tributari (il decreto legislativo 74 del 2000) tra cui l’omesso versamento delle ritenute, l’omesso versamento Iva e l’indebita compensazione: tutti reati che attengono alla riscossione e per i quali può avere un senso rinunciare al processo a fronte del pagamento del dovuto. Ma nel testo dovrebbe entrare anche la sanatoria per il reato di dichiarazione infedele (chi consapevolmente dichiara meno del previsto per pagare meno tasse) che è l’evasione vera e propria ed è punita fino a quattro anni e mezzo di carcere. In cambio della sanatoria, però, il cittadino dovrà pagare tutto: in caso di rateizzazione il processo viene sospeso dopo la prima rata e si estingue una volta concluso il pagamento. Non è ancora chiaro se la prescrizione continuerà a correre lo stesso. Nell’emendamento originario era previsto che fosse così, ma bisognerà aspettare il nuovo testo per capirne di più. Non ci dovrebbe essere, invece, l’omessa dichiarazione inserita prima di Natale da Sisto e Leo, ma poi cancellata con un tratto di penna da Giorgetti.
Il governo ha anche già pronto il motivo per giustificare il colpo di spugna sulla dichiarazione infedele: essendo un reato “automatico” (i pm devono aprire d’ufficio un fascicolo) si eviterebbe l’ingolfamento dei tribunali, è la linea degli ideatori. Già oggi, spiegano fonti della maggioranza, l’inchiesta spesso parte ma viene archiviata dopo che l’evasore ha pagato il dovuto. E quindi l’obiettivo è quello di eliminare il problema alla radice.
La decisione di inserire la dichiarazione infedele nel pacchetto fiscale però è una giravolta rispetto a quello che Meloni ha detto durante la conferenza stampa di fine anno rispondendo a una domanda del Fatto: “Nei casi di chi dichiara e non versa, che è diversa da quella di chi vuole fregare lo Stato, è giusto che chi aderisce a un patto con lo Stato e paga il dovuto con una maggiorazione veda risolto il suo contenzioso”. Da queste parole, quindi, sembrava che il governo si fermasse ai reati di riscossione senza inserire la dichiarazione infedele. Che invece, alla fine, dovrebbe essere inserita tra i reati sanati.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
UN PAESE IN CUI NON SI E’ IN GRADO DI GARANTIRE LA SICUREZZA DEI MEDICI IN UN OSPEDALE
«Lascerò la professione medica». Con queste parole, la specializzando di Chirurgia generale Adelaide Andriani, aggredita sabato scorso all’ospedale Gervasutta di Udine mentre era di turno come guardia medica, ha confermato di non aver più intenzione di continuare a fare il medico.
«Ci stavo pensando da tempo. Questo episodio è stata l’occasione per decidere di fare altro», ha detto la giovane dopo un incontro con il vicegovernatore del Friuli Venezia-Giulia, Riccardo Riccardi, che ha riportato le dichiarazioni di Andriani e riferito di aver avuto un colloquio oltre che con la 28enne anche con la collega Giada Aveni, intervenuta in difesa della specializzanda aggredita.
Il vicegovernatore ha inoltre precisato che «le due dottoresse stanno bene. Hanno parlato con noi di quello che è accaduto e di come hanno vissuto questa brutta esperienza». Non sono dunque bastate le promesse del Ministro della Salute Orazio Schillaci che in mattinata aveva annunciato provvedimenti in arrivo
Dopo tre aggressioni subite, infatti, Adelaide Andriani ha preso la sua decisione: lasciare per sempre la professione.
La vicenda
Era stata la collega della 28enne, Giada Aveni, a denunciare l’aggressione sui social con tanto di foto e video ritraenti i segni sul corpo di Adelaide Andriani. «Non è possibile che un medico nell’esercizio delle proprie funzioni venga aggredito per aver invitato un paziente, dopo avergli prestato le cure ritenute opportune, a recarsi in pronto soccorso nel suo interesse», si leggeva nel lungo post su Instagram.
La giovane, secondo i racconti delle due dottoresse, è stata aggredita dall’accompagnatore di un paziente all’esterno della Guardia Medica dell’ospedale Gervasutta, a Udine. A far perdere le staffe all’uomo sarebbe stato il consiglio delle stesse di portare il paziente ferito alla gamba in Pronto Soccorso. «Mi ha messo le mani al collo e per qualche istante non sono riuscita a respirare, sentivo che l’aria non passava. Ho pensato: adesso muoio soffocata», ha riferito Andriani ai carabinieri. Sarebbe riuscita a liberarsi dalla stretta grazie all’intervento della sua collega, ma l’uomo è scappato prima dell’arrivo delle forze dell’ordine.
(da Open)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
GLI EFFETTI DELLA RIFORMA CARTABIA
Non si è fatto un solo giorno di carcere in custodia preventiva, anche se è poi risultato colpevole di violenza sessuale ai danni di una ragazzina di undici anni e ora, dopo aver ottenuto una riduzione di oltre due anni, potrà scontare la pena a casa.
Un veneziano deve ringraziare l’applicazione della riforma Cartabia se, nonostante la gravità del reato, potrà godere di questa scorciatoia giudiziaria che gli evita di varcare le porte di Santa Maria Maggiore. E un cittadino ghanese, ormai abitante in Italia, si avvia verso l’archiviazione, sempre sulla base della stessa riforma penale, per l’accusa di violenza sessuale su una dodicenne con cui ha avuto rapporti dopo averla convinta ad andare con lui nella cantina di un palazzo.
L’uomo, infatti, non è reperibile e quindi se entro il 19 giugno non verrà rintracciato per la notifica dell’atto di citazione, la causa sarà archiviata, in modo provvisorio, per tornare fuori dagli armadi (e dalle statistiche) solo in caso di identificazione della residenza dell’uomo. Darsi uccel di bosco conviene, anche perché la prescrizione non viene interrotta.
Due vicende molto simili trovano nelle pieghe della legge una giustificazione perché non si finisca in carcere o non si arrivi neanche alla condanna.
Il processo che si è celebrato in Corte d’appello a Venezia vedeva imputato un uomo già condannato dal Tribunale lagunare a 6 anni di reclusione per violenza sessuale, ai danni della figlia undicenne della compagna. Quando i fatti vennero scoperti e denunciati (la bellezza di 12 anni fa) il magistrato inquirente non ritenne vi fossero le condizioni per chiedere la misura cautelare. Così l’imputato è rimasto sempre a piede libero. Il primo grado fu subito appellato. Adesso è arrivato il secondo giudizio, appena tre giorni dopo l’entrata in vigore della riforma Cartabia. E l’imputato ne ha subito approfittato due volte.
L’avvocato Enzo Di Stasi ha anticipato il dibattimento raggiungendo l’accordo con il sostituto procuratore generale su quello che viene definito il “concordato con rinuncia ai motivi di appello”. Nei fatti è un patteggiamento in corso di procedura, con rinuncia alla Cassazione, che in questo caso ha portato a una pena di 3 anni e 8 mesi. Fino a dicembre il legislatore aveva vietato questo beneficio per alcuni dei reati più abietti: prostituzione minorile, pedopornografia, turismo sessuale minorile, spettacoli pornografici con minorenni, violenza sessuale, violenza sessuale ottenuta con somministrazione di narcotici, atti sessuali con minorenne, violenza sessuale di gruppo. L’esclusione è sparita anche nei confronti di coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza. L’imputato veneziano ha poi ottenuto un secondo beneficio. Visto che la pena è rimasta sotto il limite dei quattro anni, ha potuto chiedere al giudice la trasformazione della detenzione in carcere negli arresti domiciliari. Morale: in una cella non ci finirà più.
Sempre a Nord-est, ma a Pordenone e ancora una volta per un reato sessuale ai danni di una ragazzina, si è registrato il rinvio di un’udienza davanti al gup per l’impossibilità di notificare l’avviso di fissazione del procedimento. L’imputato è un 29enne ghanese che è al corrente del procedimento, visto che due anni fa aveva nominato un difensore di fiducia. Poi si è trasferito e nessuno è riuscito a rintracciarlo. In base alle nuove norme, il giudice ha dato cinque mesi di tempo alla polizia giudiziaria per trovarlo. Ma se dovesse rimanere uccel di bosco, diventerà non processabile e il giudice pronuncerà una sentenza di non luogo a procedere. Con il vecchio sistema, il processo sarebbe rimasto sospeso, bloccando però il timer della prescrizione, che invece ora ha già cominciato a correre. L’avvocato Alessandro Magaraci ha dovuto spiegare al padre della ragazzina, costituitosi parte civile, che si va verso una sentenza senza condanna. “In questa riforma – ha commentato il legale – vi è uno sbilanciamento a favore dell’imputato, con il risultato che una parte offesa rischia di non avere giustizia se uno si dà alla macchia. Aveva ragione il papà della vittima, avrebbero dovuto applicargli una misura cautelare”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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