Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
NEL DOCUMENTO PREVISTA “LA STERILIZZAZIONE DELLE ENTRATE DELLO STATO DA IMPOSTE SU ENERGIA E CARBURANTI E AUTOMATICA RIDUZIONE DI IVA E ACCISE”
“Io non ho promesso in questa campagna elettorale che avrei tagliato le accise sulla benzina”, ha detto Giorgia Meloni nel video pubblicato oggi in cui la presidente del Consiglio difende la scelta dell’esecutivo di non ripristinare il taglio varato dal governo Draghi.
“Gira un video del 2019 in cui io chiedevo di tagliare le accise sulla benzina. Sono ancora convinta che sarebbe ottima cosa tagliarle, ma dal 2019 ad oggi il mondo è cambiato, stiamo affrontando una situazione emergenziale che ci impone di fare alcune scelte”, ha aggiunto ancora Meloni.
Appena quattro mesi fa però di riduzione delle accise parlava chiaramente proprio il programma elettorale di Fratelli d’Italia, il partito guidato da Giorgia Meloni.
Tre le misure caldeggiate dall’allora solo candidata alla guida del governo in tema di energia, a pagina 26, si parla di “sterilizzazione delle entrate dello Stato da imposte su energia e carburanti e automatica riduzione di Iva e accise”
(da La Repubblica)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
PRONTO ALLO SCONTRO CON FDI DOPO 20 MILIARDI DI EURO PERSI NEGLI ANNI
Le resistenze interne alla maggioranza non sono poche, ma il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, è intenzionato a fare uscire totalmente il ministero dell’Economia dal capitale di Ita Airways, la compagnia aerea rinata sulle ennesime ceneri di Alitalia. Il nuovo dpcm pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 2 gennaio scorso sembra disegnato su questa eventualità, oltre che per il solo acquirente restato in campo (Lufthansa). È possibile un ingresso in più tappe con la sottoscrizione iniziale di una quota ancora di minoranza attraverso aumenti di capitale di Ita dedicati al nuovo azionista, che comunque secondo il dpcm dovrà essere una compagnia aerea destinata alla fine della procedura ad essere almeno azionista di maggioranza assoluta.
Se Giorgetti non vuole vedere più tracce di Alitalia e della sua eredità dalle parti del Tesoro, qualche mal di pancia contro questo piano c’è all’interno della maggioranza, soprattutto in Fratelli di Italia. Non è un mistero che a Fabio Rampelli non piaccia affatto la prospettiva Lufthansa, contro cui si batte da almeno un anno.
Ma non pochi suoi colleghi di partito e trasversalmente anche di maggioranza sognano ancora una compagnia di bandiera saldamente controllata dallo Stato italiano. A loro Giorgetti ha risposto molto diretto in privato: “sognare la compagnia di bandiera? Meglio sognare la bandiera. Che è una cosa seria”.
Una voragine da 20 miliardi
Se si leggono i numeri non si fatica a dare ragione al ministro dell’Economia. Open ha calcolato il costo complessivo di Alitalia e delle sue eredi (da Cai a Ita) in 76 anni di storia. Unico dato non ancora ufficiale è quello della perdita di Ita nel 2022 che si basa su stime degli analisti specializzati: 460 milioni di euro. Tutti gli altri sono ormai a consuntivo. Per calcolarli abbiamo utilizzato dove disponibili i bilanci delle stesse società (Alitalia, Lai, Cai, Ita o per i primi decenni quelli Iri in cui erano consolidati i conti), oltre che ai rapporti di R&S di Mediobanca che ha riclassificato quasi tutti i bilanci fino in anni molto recenti. Abbiamo convertito in euro i risultati di bilancio 1947-1999 (dal 2000 sono tutti in euro) e applicato il coefficiente di rivalutazione monetaria in modo da avere tutti i dati in euro del 2022. Il risultato finale è impressionante: la “compagnia di bandiera” italiana è costata in 76 anni 20.364.829.669 euro fra perdite nette di bilancio, interventi socio-assistenziali dello Stato e varie liquidazioni delle “ceneri” della compagnia aerea.
Non è stato un affare per nessuno
Degli oltre 20,3 miliardi di costo poco più del 10%, e cioè esattamente 2.331.395.187 euro, è stato sopportato dagli azionisti privati soprattutto nel periodo non fortunato di Cai, quando lo Stato ha scelto di privatizzare, pur rientrando per un buon periodo attraverso Poste italiane che aveva il 18% della nuova compagnia. I costi diretti per i contribuenti italiani in questi 76 anni sono dunque stati in euro di oggi 18.033.434.669 euro. Le perdite nette di bilancio sono ammontate a 11 miliardi e 864 milioni di euro. Di queste 9 miliardi e 533 milioni di euro attualizzati hanno riguardato le casse dello Stato. A questa somma vanno aggiunti i 2,3 miliardi attualizzati di costi sociali sopportati dalle finanze pubbliche per la gestione dei dipendenti Alitalia e società controllate (Cig, prepensionamenti, etc). Poi 3,3 miliardi di interventi aggiuntivi dello Stato italiano per risolvere problemi alla compagnia nei suoi vari vestiti. E infine 2,9 miliardi di costo non ancora definitivo (qualcosina può ancora tornare a casa) che vengono dalle gestioni commissariali per il fallimento di precedenti scatole societarie.
In perdita 44 anni, quasi sempre dal 2000 in poi
Dei 76 bilanci di Alitalia nei suoi vari vestiti ben 44 sono risultati in perdita, mentre 31 sono stati in utile, talvolta molto risicato e uno solo -quello del 1971- in perfetto pareggio. Gli anni d’oro sono però tutti sepolti nella memoria. Dal 1990 ad oggi sono terminati 33 anni sociali (ultimo di Ita solo con previsione ufficiosa): 29 in perdita e 4 in utile. Dall’anno 2000 ad oggi la contabilità è stata in euro e si sono chiusi 23 anni sociali: 22 anni sono risultati in perdita e uno solo – il 2002 – si è chiuso con un utile che ad euro di oggi ammonterebbe a 121 milioni di euro esclusivamente grazie a una maxi penale pagata da Klm che in euro di oggi ammonterebbe a 199,65 milioni di euro. Senza quella entrata straordinaria in seguito ad arbitrato sul contratto esistente tutti i bilanci di Alitalia ed eredi nell’era dell’euro sarebbero stati in perdita. Nessuna altra compagnia aerea nel mondo sarebbe riuscita a stare in piedi senza fallire per 23 anni con risultati sempre pesantemente negativi.
Gli anni d’oro e l’Olimpiade di Roma
Alitalia è stata fondata a Roma dall’Iri il 16 settembre 1946 con il nome di Alitalia-Aerolinee Internazionali Italiane, ma il suo primo volo che ne ha segnato l’operatività è stato il 5 maggio 1947. I primi tre bilanci (1947-’48 e ’49) sono stati in perdita. E così pure quello del 1950, anno in cui cominciarono a salire a bordo le prime hostess con una divisa ufficiale disegnata dalle Sorelle Fontana (casa di moda della Dolce Vita, ora di proprietà di Olivia Paladino, compagna del leader M5s Giuseppe Conte). Il primo bilancio in utile è stato quello del 1952, e così sarebbe stato per tutti gli anni Cinquanta con la sola eccezione del 1958, chiuso in perdita per assorbire i costi di fusione con la compagnia gemella Lai, fondata nel 1947 al 50% da Iri e al restante 50% dalla Twa americana. La vera svolta però arrivò nel 1960, quando Alitalia divenne il vettore ufficiale delle Olimpiadi di Roma. Quell’anno arrivano in flotta i primi jet e si supera per la prima volta il milione di passeggeri trasportati. Cambia anche la livrea degli aerei e la Freccia Alata originaria viene sostituita dalla A tricolore. Quello degli anni Sessanta è il solo decennio della storia Alitalia con bilanci sempre in utile.
La nuova crisi degli anni ’70
I primi guai arrivano con gli scioperi del 1969 e l’inizio della crisi energetica degli anni Settanta. Il boom di Alitalia si spegne. E il rosso delle rivolte operaie tinge dello stesso colore il bilancio 1970 della compagnia di bandiera. Si salva nel 1971 quando grazie a una operazione di contabilità fiscale si riesce a chiudere il risultato dell’anno con uno zero tondo: il solo pareggio della storia. Ma poi è sempre perdita anche importante nel 1972, nel 1973, nel 1974, nel 1975 e nel 1976 con un crescendo impressionante nel precipizio. La compagnia viene ricapitalizzata dallo Stato e ha un po’ di benzina per cercare di svoltare: tiene durante la nuova contestazione chiudendo in utile i bilanci 1977 e quello 1978. Ma quel che viene ripreso è perso nel 1979. E pur perdendo di nuovo nel 1980, Alitalia cavalca i cieli alla grande durante gran parte degli anni Ottanta, macinando sempre utili fra il 1981 e il 1988.
Fra il 1987 e il 1988 nasce però il Coordinamento sindacale degli assistenti di volo che unisce le varie sigle spezzettate. E a gennaio 1989 inizia a bloccare l’Italia con scioperi che paralizzano il settore aereo. Il bilancio della compagnia di bandiera ne porta le conseguenze: 233,3 milioni di euro di perdita a valuta di oggi. Agli scioperi interni si unisce la situazione internazionale: il 2 agosto 1990 Saddam Hussein invade l’Iraq e parte da lì la prima guerra del Golfo il cui culmine sarà a gennaio e febbraio 1991. Entra nella sua prima crisi geopolitica il trasporto aereo internazionale e saranno tutti in perdita i bilanci Alitalia fino a quello del 1996, che registrò perdite in euro di oggi pari a 907,6 milioni.
La compagnia dei Tastevin
Quel tragico 1996 fu licenziato l’uomo alla guida di Alitalia – Roberto Schisano – e al suo posto arrivò l’unico manager che è riuscito a portare risultati in epoca recente: Domenico Cempella, manager Iri di lungo corso che ancora minorenne aveva trovato il suo primo lavoro come impiegato all’aeroporto di Ciampino. Alitalia lo nominò capo delle operazioni a terra nel 1973, e poi direttore del traffico nel 1981. La compagnia di bandiera era la sua passione, e in pochi mesi elaborò un piano di rilancio che passava attraverso l’alleanza con gli olandesi di Klm e la costruzione dell’hub di Malpensa per lo sviluppo dei voli internazionali e intercontinentali. I risultati si videro nel 1997: utile di 321 milioni di euro di oggi. Anche nel 1998: utile di 294,3 milioni di euro. Il 1999 le cose cominciarono ad andare diversamente: il mondo politico contestava la scelta di Malpensa, i romani fecero barricate per difendere il ruolo di Fiumicino.
Il piano stava sgretolandosi, ma il bilancio chiuse ancora in un risicato utile di 5,6 milioni di euro. Cominciarono gli scioperi, perché Cempella non andava per il sottile sui privilegi che si erano ritagliati sindacalisti e dipendenti Alitalia. Mi raccontò allora di avere scoperto una divisione segreta interna alla compagnia: quella soprannominata dei “Tastevin”. Ne faceva parte qualche decina di piloti, hostess e assistenti di volo che avevano come unico compito quello di girare il mondo per assaggiare i menù di ristoranti stellati e provare le lenzuola di grandi alberghi: se erano di loro gradimento, Alitalia firmava in ogni scalo del mondo le convenzioni. “Vi basterà un a guida Michelin per scegliere. E d’ora in avanti depennate ristoranti stellati e alberghi cinque stelle lusso: non possiamo permetterceli”, disse Cempella ai capi della divisione fantasma, smantellandola quel giorno stesso. Il manager sarebbe stato riconfermato nel 2000, ma vista l’opposizione della politica al suo piano, fece la valigia in meno di un anno.
Lo sfregio delle opere d’arte
Via Cempella si aprono i disastrosi anni dell’euro, con i bilanci tutti in perdita salvo quello del 2002. Come ricordato in precedenza, in quel momento alla guida della compagnia c’era un altro manager Iri – Francesco Mengozzi – ma il solo risultato positivo del secondo millennio venne grazie alla maxi penale pagata da Klm per non avere onorato il contratto con Alitalia che aveva fatto loro firmare proprio Cempella. Non sono riusciti a risollevare la compagnia nemmeno i capitani coraggiosi guidati da Roberto Colaninno e chiamati a salvare Alitalia dalle mira di Air France nel 2008 da Silvio Berlusconi tornato alla guida del governo italiano. La nuova compagnia si chiamò prima Cai e durò sempre in perdita fino al 2013, quando Colaninno si sfilò ed entrarono Poste italiane ed Ethiad. Anche questo fu però un insuccesso, terminato con la procedura di amministrazione straordinaria fra il 2017 e l’autunno del 2021, quando è iniziata l’avventura di Ita.
La vecchia Alitalia pre-Cai divenne una bad company in amministrazione controllata. Commissario straordinario fra il 2008 e il 2011 divenne il professore Augusto Fantozzi, già ministro delle Finanze del governo guidato da Lamberto Dini fra il 1995 e il 1996 e poi ministro del Commercio Estero nel governo guidato da Romano Prodi fino al 1998. Fantozzi poi si dimise dall’incarico, ed è scomparso improvvisamente a Roma il 13 luglio 2019. Quella procedura da lui iniziata è tutt’oggi aperta e spera ancora di riportare nelle casse dello Stato qualcosa di quel che si è perduto, anche attraverso le azioni di responsabilità nei confronti dei manager che hanno fatto registrare le perdite di bilancio più rilevanti. Un piccolo capitolo di quella procedura fu quello della vendita delle opere d’arte acquistate negli anni dalla compagnia. Erano 190 quelle inventariate e in gran parte opera di artisti italiani del Novecento o contemporanei. Pezzi anche pregiati, come mi raccontò lo stesso Fantozzi un giorno a pranzo: opere di Balla, Boccioni, Ceroli, De Chirico, Monachesi, Severini e Vespignani per citarne alcuni.
Fu scelta Finarte per metterle all’asta e ricavarne qualcosa, per un Ceroli (L’Uomo di Vitruvio) fu scelta la vendita diretta ad Aeroporti di Roma. Alla fine però non si ricavò un granché: 1,2 milioni con la sola plusvalenza calcolabile di 938 mila euro. Le opere erano inventariate, ma non avevano certificato né documentazione contabile sulla acquisizione in molti casi. Qualcuna si è rivelata un falso, e ha originato altre vicende giudiziarie. Ma più di una decina erano comunque invendibili. “Qualche genio”, mi raccontò Fantozzi, “aveva pensato bene di esporle sui voli internazionali nella classe Magnifica dove sedevano personaggi importanti e politici. Siccome dovevano essere appese fra gli oblò e non ci stavano, sono state segate per farle diventare a misura. E ovviamente non valgono più nulla…”. Un piccolo episodio. Che rispecchia però la storia più nera e profonda di Alitalia.
(da Open)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
PUNTARE SUI PAGAMENTI ELETTRONICI E RIDURRE L’USO DEL CONTANTE, OVVERO L’OPPOSTO DI QUELLO CHE STA FACENDO
L’evasione fiscale costa allo Stato italiano quasi 100 miliardi di euro all’anno. Nel 2019, infatti, il tax gap dell’Italia – cioè la differenza tra le tasse che avrebbero dovuto essere pagate, e quelle effettivamente versate – era di 99,2 miliardi di euro. Il dato è di un rapporto del ministero dell’Economia.
Nel 2015, il tax gap era di 106,1 miliardi di euro, e nel 2017 era di 107,6 miliardi, quindi tra il 2018 e il 2019 c’è stato un calo significativo: 8 miliardi di euro.
Ma per rispettare Piano nazionale di ripresa e resilienza, il programma di obiettivi che l’Italia ha concordato con l’Unione europea per ricevere oltre 190 miliardi di euro di finanziamenti, il miglioramento deve continuare, anzi, andare più in fretta.
I 99,2 miliardi di tax gap restano comunque una cifra molto alta. Sempre nel 2019, la Commissione europea ha raccomandato all’Italia di fare più sforzi per contrastare l’evasione da omessa fatturazione, cioè quella che nasce quando la fattura per un acquisto non viene fatta.
Come evidenziato da un approfondimento della fondazione Openpolis, il Pnrr prevede un’ampia riforma dell’amministrazione fiscale. Su 11 scadenze fissate a questo scopo, dal 2021 al 2026, cinque sono già state rispettate. Quelle più a lungo termine, invece, riguardano entrambe l’evasione fiscale.
Nel complesso, si chiede che la propensione all’evasione (cioè il rapporto tra quanto viene evaso e quanto dovrebbe essere riscosso) si riduca del 15%, nel 2024, rispetto al valore del 2019. Questo significherebbe per lo Stato incassare circa 12 miliardi di euro in più. Per verificare se l’obiettivo è stato raggiunto bisognerà aspettare gli anni successivi, quando si avranno i dati completi, infatti l’ultima scadenza è fissata formalmente al giugno 2026.
La propensione all’evasione, come il tax gap, è scesa negli ultimi anni: era al 22,6% nel 2014 – quindi le tasse evase erano il 22,6% di tutte quelle che sarebbero dovute entrare nelle casse dello Stato – e al 18,5% nel 2019. Per soddisfare i requisiti del Pnrr, questo dato dovrebbe scendere al 17,6% nel 2023 e al 15,8% nel 2024.
Due delle misure più efficaci in questo periodo, secondo il già citato rapporto del ministero dell’Interno, sono stati lo split payment – che semplifica il versamento dell’Iva – e l’obbligo di fatturazione elettronica, arrivato nel 2018, che ha fatto sì che le fatture vengano emesse, trasmesse e conservate in formato digitale. Questo ha portato a un importante aumento delle tasse pagate, soprattutto dalle piccole imprese.
Cosa sta facendo il governo Meloni (e cosa no)
Abbassare così tanto la propensione all’evasione è un obiettivo ambizioso. Anche perché, fino a oggi, il governo Meloni ha espresso posizioni molto favorevoli all’utilizzo del denaro contante, e decisamente più scettiche rispetto ai pagamenti elettronici.
Nel suo parere del 2019, la Commissione europea ha sottolineato che una mossa utile per contrastare l’evasione fiscale poteva essere promuovere i pagamenti elettronici, che incentivano a fare gli scontrini e quindi a rispettare il pagamento delle imposte. Cosa che i contanti non fanno. Ma il governo Meloni sembra aver scelto una strada diversa.
Infatti, nella manovra per il 2023 il tetto per l’utilizzo del contante è stato alzato, fino a 5mila euro a transazione. Non solo, ma il governo ha tentato di eliminare le sanzioni per i negozianti che rifiutano di usare il Pos per i pagamenti sotto i 60 euro.
La misura è stata poi rimossa dalla legge di bilancio perché, come ricordato dalla Commissione europea, le multe a chi rifiuta i pagamenti elettronici erano un obiettivo del Pnrr. Eliminare le sanzioni avrebbe voluto dire fare un passo indietro sui traguardi del Pnrr, cosa che avrebbe messo in discussione i finanziamenti.
Per quanto riguarda le scadenze del Pnrr già raggiunte dall’Italia sulla riforma dell’amministrazione fiscale, invece, queste sono cinque, come detto, e la maggior parte sono state portate avanti dal governo Draghi. Riguardano soprattutto le cosiddette lettere di conformità, cioè le comunicazioni che l’Agenzia delle Entrate fa ai contribuenti quando ci sono anomalie. Una delle scadenze, invece, ha portato proprio a introdurre le sanzioni per chi rifiuta pagamenti elettronici, in vigore dal 30 giugno 2022.
La prossima scadenza che il governo Meloni dovrà rispettare, invece, riguarda l’invio di dichiarazioni precompilate per la partita Iva. In pratica, 2,3 milioni di professionisti che usano la partita Iva dovranno ricevere dall’Agenzia delle Entrate una dichiarazione dei redditi già compilata, con le informazioni che l’Agenzia ha, grazie alla fatturazione elettronica. A quel punto dovranno solo vederla, eventualmente modificarla e integrarla, e poi inviarla e pagare le imposte risultanti.
La scadenza ultima per iniziare l’invio delle dichiarazioni precompilate è giugno 2023, ma il governo dovrebbe dare il via alla misura già per febbraio, anche se sul portale ufficiale Open Pnrr la riforma risulta ancora “da avviare”. Nel 2024, poi, dovrà aumentare il personale dell’Agenzia delle Entrate (sono previste 4113 nuove assunzioni), e si dovranno migliorare ancora le lettere di conformità: inviarne di più, con meno ‘falsi positivi’ (cioè i casi in cui viene segnalata un’anomalia che poi non risulta essere una frode) e riscuoterne di più.
(da Fanpage)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
PIU’ DELLA META’ DEI LAVORATORI PRIVATI ASPETTA UN ADEGUAMENTO
Gli economisti della Bce pronosticano, per l’anno appena cominciato, una crescita “molto forte” dei salari nella zona euro sotto la spinta delle richieste sindacali per recuperare, almeno in parte, la drastica caduta del potere d’acquisto causata dall’inflazione. Ma se questa previsione potrà valere per gli altri Paesi, in Italia la situazione delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti parte da una condizione ben più drammatica. Basti pensare che allo storico divario tra i nostri stipendi e quelli dei nostri partner si sommano non solo la batosta finale del caro-prezzi sopra le due cifre, ma, come non bastasse, lo stallo del mancato rinnovo di contratti collettivi di primo piano.
Sono circa 6,8 milioni su 12,8 i lavoratori del settore privato che hanno un contratto scaduto al 31 dicembre scorso. Si tratta di lavoratori che appartengono a categorie che fanno riferimento ai 30 più importanti accordi collettivi scaduti su 591 non rinnovati. In sostanza, la metà dei dipendenti del privato si trova a ricevere retribuzioni che risalgono anche a anni fa e che non solo non sono state adeguate contrattualmente, ma che hanno dovuto scontare una perdita verticale del potere d’acquisto negli ultimi due anni di caro prezzi.
Basti pensare, a titolo di esempio, che nel terziario, commercio, turismo e ristorazione, sono 3 milioni i lavoratori che aspettano da anni l’adeguamento del salario. Certo è che l’intreccio tra lo storico ritardo delle retribuzioni italiane, l’inflazione e i mancati rinnovi determina una situazione esplosiva.
Tanto più che, anche sul piano europeo, l’avviso degli economisti della Bce ipotizza che, passato il 2023 per il quale si prevede un incremento del 5,2 per cento, nel medio periodo le “pressioni al ribasso influenzeranno nuovamente la crescita salariale a causa del rallentamento economico e dell’incertezza sullo sfondo della guerra russa in Ucraina”. Come dire: la finestra per le rivendicazioni durerà ben poco. Gli stessi leader sindacali, del resto, dopo anni di “moderazione” e di intese con le associazioni datoriali per criteri di rinnovo contrattuale basati sull’idea di un’inflazione azzerata, sembrano oggi consapevoli della bomba-salari.
Maurizio Landini da mesi parla di “pandemia salariale” e mette avanti la sua ricetta: “Non patti, ma soluzioni. Chiediamo almeno cinque punti di taglio del cuneo contributivo a cui aggiungere il recupero del fiscal drag. Questo equivale a recuperare almeno una mensilità media all’anno, che può essere ampliata con un rinnovo dei contratti che non si fermi all’inflazione Ipca, ovvero l’indice dei prezzi al consumo armonizzato”.
Insiste sul punto, a sua volta, PierPaolo Bombardieri, numero uno della Uil, che spiega: “In Italia esiste una vera e propria “questione salariale”. È indispensabile, dunque, che si ripristini il potere d’acquisto di lavoratori e pensionati, a partire dal rinnovo dei contratti nazionali che sono scaduti per oltre 6 milioni di lavoratrici e lavoratori. È interesse di tutti che ciò avvenga. Anche per questo motivo, ribadiamo al governo la richiesta di ridurre al più presto il cuneo fiscale in modo più sostanzioso di quanto realizzato con la recente finanziaria e di detassare gli aumenti contrattuali”.
Punta decisamente sull’esigenza di un Patto anti-inflazione, a differenza di Landini e Bombardieri, il leader della Cisl, Luigi Sbarra: “Ci vuole una forte alleanza per una nuova politica dei redditi, come fu con Ciampi nel 1993. Lo diciamo da tempo. Non si va avanti solo con interventi tampone, seppur indispensabili. Il governo Meloni deve marcare una svolta”. Una richiesta alla quale sembra aderire la vice-ministro del Lavoro Maria Teresa Bellucci, vicina alla premier: “La maxi inflazione erode i salari di milioni di italiani. Il governo è ben consapevole della grave situazione relativa ai contratti collettivi scaduti e intende intervenire per rimediare a una situazione insostenibile che interessa troppe categorie di lavoratori”.
(da quotidiano.net)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
LI HANNO FINANZIATI OLTRE 100 IMPRESE PRIVATE, CHE HANNO PAGATO DECINE DI AUTOBUS PER FARLI ARRIVARE. POI CI HANNO PENSATO POLIZIA E GENERALI, NOSTALGICI DELLA DITTATURA, CHE LI HANNO LASCIATI PASSARE
La colpa è del Codice Fonte. Senza quell’algoritmo occulto progettato dai complottisti della sinistra internazionale, le elezioni in Brasile le avrebbe vinte Bolsonaro, quindi non ci sarebbe stato bisogno di tentare il colpo di Stato. «Fate gli spiritosi, ma le cose stanno proprio così».
Si irrita Telma Vieira, quando avverte scetticismo. Quarantotto anni, parrucchiera, madre di due figli e bolsonarista della prima ora, custodisce una foto del Codice Fonte nel telefonino, per chi non ha fede. «Eccolo ». Lettere, numeri, punteggiatura e stringhe su sfondo nero, come la matrice del film Matrix. Ed è solo l’inizio di questa escursione nel delirio cospirazionista che anima gli assalitori della democrazia.
«Ci hanno teso una trappola, sull’Esplanada», attacca Telma. Chi? «Come chi? Gli infiltrati di Lula! Era tutto organizzato. Erano vestiti come i patrioti, con le maglie della Seleção. Sono loro ad aver spaccato tutto». Tira dritto col ragionamento, incurante di centinaia di filmati in cui si vede l’orda dei bolsonaristi partire dal campo-base, sorto sul prato dello Stato maggiore dell’Esercito.
«L’idea era occupare pacificamente l’Esplanada e costringere le forze armate a prendere posizione». Chi vi ha chiamato? «Qualcuno, non so chi. Pensavamo che i generali alla fine avrebbero destituito Lula, per mettere al governo il legittimo inquilino: Bolsonaro, l’uomo che ha aperto gli occhi al Brasile e ci ha mostrato come stanno realmente le cose sul Covid, sui diritti, sulla politica.
«I capitani, i maggiori, i colonnelli sono sempre stati dalla nostra parte, ci hanno trattato bene nei due mesi al camping di Brasilia. Io ci andavo ogni fine settimana, senza che nessuno mi pagasse i viaggi. Ma i generali, nel momento cruciale…i generali hanno tradito».
Telma afferra il telefono e invia un audio nella chat “Achamos a Luz” (troviamo la luce): uno dei mille canali dove i bolsonaristi più folli si lasciano sedurre dalle teorie complottiste degli estremisti di destra QAnon, riadattate al deep state sudamericano. «Stanno portando via altri patrioti, dobbiamo intervenire! ».
Queste chat sono così: chiunque può chiamare alla rivolta, spargere fake news, indicare obiettivi. La marcia sui palazzi del potere brasiliano, domenica, è iniziata lì dentro: qualcuno ha lanciato l’idea di prendersi la piazza dei Tre Poteri, ed è successo. Certo, tra mille connivenze e complicità degli apparati di sicurezza, motivo di inquietudine per il governo in carica. «Non abbiamo leader, è un movimento spontaneo: il nostro unico leader è Bolsonaro », ripete, per l’ennesima volta, Telma.
Domenica erano leoni inferociti disposti a distruggere i palazzi del potere, due giorni dopo sono diventati una massa piagnucolante e spaventata per le conseguenze dei loro atti. Molte le lamentele e le scene di panico tra gli oltre mille bolsonaristi arrestati per il sacco di Brasilia, assiepati nella mega palestra della polizia federale, in attesa di essere incriminati per delitti gravissimi, dall’invasione di edifici pubblici al tentativo di insurrezione. Contro i golpisti della domenica sono arrivate intanto oltre trentamila denunce. «Se identificate qualcuno nei diversi filmati in Rete – recita l’appello del governo – denunciatelo e sarà punito».
Il governo ha promesso mano dura, anche se la stampa conservatrice mette in guardia su una possibile caccia alle streghe. Non tutti i manifestanti, in effetti, hanno invaso i palazzi e nel sistema giudiziario brasiliano l’onere della prova spetta a chi accusa.
Lula, che nel frattempo ha chiamato a sé tutti i governatori statali oltre ai leader dei principali partiti, vuole andare fino in fondo per scoprire la catena dei finanziatori e dei fiancheggiatori. L’obiettivo finale è ovviamente l’ex presidente Jair Bolsonaro.
Il procuratore Lucas Rocha ha chiesto il blocco dei suoi conti correnti oltre a quelli del governatore di Brasilia, Ibaneis Rocha, e di Anderson Torres, indicato come il grande organizzatore dell’assalto. Torres è stato ministro della Giustizia del governo uscente, poi è diventato capo della sicurezza a Brasilia, domenica si trovava in ferie negli Stati Uniti, a pochi passi dalla residenza di Orlando dell’ex presidente.
Troppe coincidenze tutte insieme, una pista spianata per gli investigatori. Bolsonaro, intanto, ha passato una giornata presso la clinica Florida Advent Helth dopo aver contratto forti dolori addominali, anche se l’ospedale ha poi negato che sia stato ricoverato in pianta stabile.
Non è la prima volta che accusa dei disturbi allo stomaco, conseguenza delle operazioni seguite alla pugnalata ricevuta durante la campagna elettorale del 2018. Il ministro della Giustizia Flavio Dino ha spiegato ai giornalisti che non ha senso invocare richieste di estradizione perché al momento non ha nessuna pendenza con la giustizia.
Ma poi ha ricordato che è un ex presidente senza immunità e che quindi non sfuggirebbe ad eventuali richieste di arresto, se mai dovessero arrivare.
Patricia Campos Mello ha conosciuto di persona la forza dell’estremismo di destra bolsonarista. Autrice di un’accurata indagine che ha scoperto la rete di finanziatori e propagatori di fake news nella campagna elettorale del 2018, è stata attaccata dal presidente e oggetto di una campagna di odio da parte dei suoi sostenitori.
Dopo essersi aggiudicata nel 2019 l’International Press Freedom Award del Comitato internazionale per la protezione dei giornalisti, ha vinto una causa per danni morali contro Bolsonaro. Investiga ancora oggi la rete dei movimenti bolsonaristi per il quotidiano Folha de Sao Paulo e per questo non si dice affatto sorpresa per quanto sia successo a Brasilia.
Lei si aspettava l’assalto di domenica?
«Lo aspettavamo da tempo. Si tratta di un movimento organizzato, non sono dei marziani piombati dal nulla. Si organizzano attraverso canali Telegram, reti di messaggi Whatsapp e continueranno ad agire». «L’intelligence ha fallito, questo preoccupa.».
«Credo che questa invasione sia stata controproducente per Bolsonaro e i suoi alleati. La maggioranza dei suoi elettori non l’approva, l’attacco alle istituzioni spaventa l’opinione pubblica.
I governatori cercheranno di distanziarsi il più possibile dall’estremismo. La stessa cosa non si può dire della polizia, dove molti elementi simpatizzano per il Bolsonaro duro e puro, sono nostalgici della dittatura, non accettano imposizioni da parte del potere politico. Lì c’è un pericolo per la tenuta democratica del Brasile».
Macchiette radicali? Forse, ma ben foraggiate. Oltre 100 imprese private, contro cui è stato chiesto il blocco dei beni, sono sospettate di aver finanziato gli estremisti: avrebbero pagato decine di autobus che nei giorni scorsi hanno trasportato i «bolsonaristi» da diversi località del Brasile fino al cuore della capitale.
Ieri il vice procuratore generale Lucas Furtado ha chiesto il blocco dei conti bancari anche dell’ex presidente Bolsonaro e del governatore del Distretto federale, Ibaneis Rocha mentre il giudice della Corte Suprema, Alexandre de Moraes, ha ordinato l’arresto sia dell’ex segretario alla sicurezza del Distretto federale (Df), Anderson Torres, già ministro della Giustizia di Bolsonaro, che ha raggiunto gli Usa, sia dell’ex comandante della Polizia militare del Df, che avrebbero dovuto garantire l’ordine nella capitale e ora sono sospettati di connivenza con gli assaltatori.
(da agenzie)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
L’ASSALTO AL PALAZZO AGEVOLATO DA UNA OPERAZIONE DI SABOTAGGIO
A 48 ore dall’assalto ai palazzi del potere di Brasilia, scattano gli arresti di importanti figure di vertice, sospettate di non aver ostacolato o di aver favorito l’avanzata dei sostenitori di Jair Bolsonaro prima che la situazione degenerasse. Il giudice della Corte suprema del Brasile, Alexandre de Moraes, ha ordinato l’arresto dell’ex ministro della Giustizia Anderson Torres, che dal 2 gennaio aveva assunto la guida del ministero della Pubblica sicurezza del Distretto federale di Brasilia, e dell’ex comandante della polizia militare del Distretto, Fabio Augusto Vieira, rimosso dall’incarico nelle ore convulse seguite all’assalto. Nel suo nuovo incarico, Torres, considerato molto vicino all’ex presidente Bolsonaro, avrebbe dovuto assicurare la guida delle forze di sicurezza nella capitale, ma dal 7 gennaio aveva invece lasciato il Paese per trascorrere un periodo di ferie negli Usa. Secondo i media brasiliani, Torres dovrebbe ritornare in Brasile entro la fine del mese e in quella circostanza la polizia federale dovrà eseguire il suo arresto ordinato dalla Corte suprema.
Secondo il neo-responsabile della sicurezza del distretto di Brasilia, Ricardo Cappelli, la “manifestazione golpista” promossa dai militanti bolsonaristi è stata possibile grazie a una vera e propria “operazione di sabotaggio” portata avanti dalle forze di sicurezza locali. Mentre la cerimonia di insediamento di Lula, il 1° gennaio, era stata “un’operazione di sicurezza di grande successo”, dal giorno successivo Anderson Torres aveva preso le redini della Sicurezza, ricostruisce Cappelli, sciolto l’intera catena di comando e quindi lasciato il Paese. «Se non è sabotaggio questo, non so che cosa lo sia», ha commentato Cappelli parlando alla Cnn. Nel mirino del governo, della polizia federale e della magistratura c’è ora anche il primo ministro del distretto federale di Brasilia, Ibaneis Rocha.
(da Open)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
GLI USA: “SE E’ ENTRATO CON VISTO DIPLOMATICO DOVRA’ LASCIARE IL PAESE”
I conti bancari intestati a Jair Bolsonaro potrebbero presto essere bloccati.
Lo scrive Cnn Brasil, secondo cui il vice procuratore generale della Corte dei conti brasiliana (Tcu), Lucas Rocha Furtado, avrebbe chiesto l’applicazione della misura per l’ex presidente, nonché per l’ex responsabile per la Pubblica sicurezza di Brasilia, Anderson Torres, e per il governatore del Distretto federale di Brasilia Ibaneis Rocha, sospeso per 90 giorni dall’incarico per le sue presunte responsabilità nell’assalto sferrato domenica dai sostenitori di Bolsonaro alle sedi dei tre poteri simbolo dello Stato: Parlamento, governo e Corte suprema.
«A causa del vandalismo avvenuto nel Distretto Federale l’8 gennaio 2023, che ha causato numerose perdite all’erario federale, chiedo che sia decretata l’indisponibilità dei beni», si legge nella richiesta redatta dalla Corte dei conti di Brasilia.
Oltre al terzetto, il sostituto procuratore chiede anche il blocco dei beni «di altri responsabili, in particolare di coloro che hanno finanziato i predetti atti illeciti».
Nel frattempo, l’ufficio stampa della Camera dei deputati brasiliana ha stimato a oltre 7 milioni di reais (1,3 milioni di dollari) i danni provocati agli edifici delle istituzioni nell’assalto dei bolsonaristi, che ha causato il ferimento di 46 persone e l’arresto di circa 1.500 manifestanti.
Secondo fonti parlamentari, la ricostruzione completa degli uffici danneggiati, nonché la nuova installazione delle vetrate e delle apparecchiature distrutte, potrebbe richiedere diverse settimane.
Bolsonaro, come era filtrato ieri sui media brasiliani, è ricoverato in un ospedale di Orlando, in Florida, per curare dei dolori addominali. Lo ha confermato lo stesso ex presidente, postando una foto sui social dove dal letto d’ospedale ringrazia i suoi sostenitori per «le preghiere e per i messaggi che mi augurano una pronta guarigione».
Dalla sua stanza di ospedale, Bolsonaro è anche tornato sull’assalto ai palazzi del potere di domenica. Parlando con un cronista della Cnn, l’ex leader si è detto «dispiaciuto» per le violenze di Brasilia e ha aggiunto che potrebbe «anticipare» il suo rientro in Brasile per trattare i suoi problemi di salute.
L’ex presidente è arrivato in Florida il 30 dicembre scorso, ovvero due giorni prima dell’insediamento del suo successore, Luiz Inácio Lula da Silva, al quale non ha voluto consegnare la fascia presidenziale.
Secondo un portavoce del governo statunitense, l’ingresso in suolo americano dell’ex presidente sarebbe avvenuto con un passaporto diplomatico che risulta scaduto dal 1° gennaio. «Se Bolsonaro fosse entrato con visto diplomatico, dovrebbe andare via entro 30 giorni o chiedere un visto diverso, altrimenti rischia l’espulsione», precisa lo staff della Casa Bianca.
(da agenzie)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
INTERVISTATA A “UN GIORNO DA PECORA”, ALLA DOMANDA “QUANTO FA 7 X 8?”, LA DIPLOMATA ALLO SCIENTIFICO NON RIESCE A RISPONDERE E SVIA IMBARAZZATA “ANDIAMO AVANTI”… E I SOCIAL LA SPERNACCHIANO
È bastata una semplice domanda su un’operazione da scuola elementare per mettere in difficoltà la sottosegretaria all’Università e alla Ricerca Augusta Montaruli.
Durante la trasmissione “Un giorno da pecora” su Rai Radio1, incalzata dai conduttori Geppi Cucciari e Giorgio Lauro, la Montaruli ha avuto più di una titubanza nel rispondere alla domanda sull’operazione di matematica 7×8.
“Lei che ha fatto lo Scientifico lo saprà. Quanto fa 7×8?” le ha chiesto il conduttore della trasmissione radiofonica. La sottosegretaria (e deputata di Fratelli d’Italia) però, non ha saputo rispondere e con aria piuttosto imbarazzata ha preferito glissare: “No guardi, andiamo avanti” ha detto. Dopo qualche secondo di silenzio però l’enigma è stato risolto: “Fa 56” ha detto, ammettendo però di aver ricevuto un suggerimento da qualcuno presente in studio.
Oltre ai problemi con le tabelline, la Montaruli durante la trasmissione ha parlato anche del test di Medicina e di una sua possibile riforma
(da agenzie)
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Gennaio 11th, 2023 Riccardo Fucile
NEUTRALIZZATO GRAZIE ALL’IMMEDIATO INTERVENTO DELLE FORZE DELL’ORDINE CHE PRESIDIANO LE STAZIONI FERROVIARIE
Sei feriti, uno dei quali in condizioni gravi.
E’ il bilancio dell’attacco compiuto questa mattina alla gare du Nord, uno dei più grandi snodi ferroviari d’Europa.
Nell’orario di punta degli arrivi e partenze dei pendolari, verso le 6.45, un uomo armato di coltello ha aggredito passanti e viaggiatori. Tra i feriti c’è anche un funzionario della polizia di frontiera intervenuto per fermare l’attacco.
Inoltre, gli agenti hanno immobilizzato il sospetto dopo avere aperto il fuoco contro di lui
Non si conoscono i motivi dell’aggressione: l’uomo intanto è in pericolo di vita e ricoverato in ospedale.
Il ministro dell’Interno Gérald Darmanin è intervenuto su Twitter (“Grazie alla polizia per la sua reazione coraggiosa ed efficace”) e si è poi recato alla stazione circondato da un’ampia scorta di sicurezza per ringraziare personalmente le forze dell’ordine.
La Gare du Nord è la stazione ferroviaria più grande d’Europa e la terza al mondo in termini di flussi di traffico, con 700.000 persone al giorno e oltre 220 milioni di visitatori all’anno.
I treni in partenza dalla stazione servono il nord della Francia, ma anche destinazioni internazionali come Londra con l’Eurostar o il Belgio e i Paesi Bassi con il Thalys.
(da agenzie)
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