Settembre 9th, 2023 Riccardo Fucile
I SOVRANISTI VOGLIONO SOSTENERE LA NATALITA’ A TUTTI I COSTI, SPESSO SULLE SPALLE DELLE DONNE… MA C’E’ CHI RITIENE CHE UN BOOM DELLE NASCITE NON SAREBBE PIU’ SOSTENIBILE
Nel formicaio, la regina depone anche più di cento uova al giorno. Fortunatamente non tutte le specie animali si comportano nello stesso modo. Almeno tra i vertebrati, l’evoluzione sembra anzi aver scommesso sul calo quantitativo della progenie.
Il numero di uova degli uccelli è irrisorio rispetto a quello della formica regina, e tra i mammiferi vi sono molte specie che fanno addirittura un solo figlio alla volta. Gli esseri umani poi, non paghi di fare un figlio alla volta, spesso si prendono cura di quel solo figlio senza farne altri nell’arco dell’intera vita, o addirittura scelgono di non riprodursi affatto.
Soprattutto nelle società in cui i diritti civili sono più avanzati, e in particolare in cui le donne hanno maggiore accesso all’istruzione e alla vita pubblica, il tasso di natalità è mediamente più basso (in Finlandia 1,3 figli per donna; nello Yemen 3,8). Un destino naturale – e culturale – porterà ineluttabilmente le società umane a riprodursi sempre meno? Gli sforzi natalisti dei governi europei sono completamente vani? Ma soprattutto, ha davvero senso disperarsi per il calo delle nascite? O forse il nostro giudizio dipende dall’ampiezza del punto di vista?
LE CONSEGUENZE DELLA BOMBA
Se si osserva il calo della natalità puntando lo sguardo sull’equilibrio del pianeta, si prova quasi un sollievo a immaginare che l’aumento esponenziale della popolazione mondiale non continuerà per sempre al ritmo frenetico degli ultimi decenni. Quando pensiamo invece alle conseguenze sul destino del sistema pensionistico nazionale e sulla cura degli anziani, tendiamo a preoccuparci di più.
Fare meno figli è sempre un segno di declino di una società, o è una conquista vitale che possiamo interpretare anche positivamente?
Che la sovrappopolazione umana possa essere un flagello per gli umani stessi non è una scoperta recente.
Il filosofo francese Henri Bergson nel 1932 avvertiva i suoi contemporanei: «Lasciate fare Venere e avrete Marte», ovvero se non si «razionalizza» la riproduzione umana su scala internazionale – proprio come si fa con il lavoro – scoppieranno guerre sempre peggiori.
Dagli anni Sessanta è stato sempre più evidente che le conseguenze più disastrose della cosiddetta «Population bomb» non investivano solo gli umani, ma tutte le specie viventi e le condizioni di vita planetarie.
IL PESO DEI BOOMER
La crescita demografica degli anni Cinquanta, quando in appena un decennio vennero alla luce mezzo miliardo di «boomer», è stata subito descritta come un segno positivo di gioioso entusiasmo e ottimismo. Oggi non pochi rileggono quel fenomeno come un flagello ambientale senza precedenti.
Il sovrappopolamento del pianeta si basava sull’idea di una crescita infinita, illusione che si rivela di anno in anno più disastrosa. I boomer oltretutto non sono tutti uguali, come non lo sono i cinque miliardi di esseri umani nati dal 1960 a oggi: già negli anni Sessanta si calcolava che i consumi di un bebè americano avrebbero pesato per l’ecologia planetaria 25 volte quelli di un bebè indiano.
Fare meno figli, soprattutto nei paesi che consumano di più, sembrerebbe insomma il modo migliore per far prendere fiato al pianeta. È quello che vedevano con chiarezza gli ecologisti negli anni Settanta, le cui lotte convergevano spesso con quelle per l’emancipazione femminile.
CONTRASTARE L’AUMENTO DEMOGRAFICO
Il primo candidato ecologista francese alle presidenziali, Réné Dumont, nel 1974 affermava che incoraggiare la natalità fosse addirittura «criminale», e proponeva l’eliminazione delle sovvenzioni statali dopo il secondo figlio.
Nello stesso anno – quindi poco prima della diffusione dei contraccettivi e della legge sull’aborto – alla conferenza Onu sulla popolazione che si tenne a Bucarest, le femministe ecologiste guidate da Françoise d’Eaubonne protestavano contro il «coniglismo fallocratico» e facevano appello allo sciopero internazionale della procreazione.
Senza adottare soluzioni così drastiche, il fondo delle Nazioni unite per la popolazione (Unfpa) lega la natalità sia all’emergenza climatica sia alla condizione delle bambine e delle donne. L’obiettivo dei programmi di istruzione femminile nei paesi in via di sviluppo ha infatti l’obiettivo esplicito di limitare l’aumento della popolazione.
Se una bambina non va a scuola, ha il triplo delle possibilità di essere data in sposa, e il tasso di natalità è ovunque più basso tra le donne con un livello di istruzione più elevato.
Lo sforzo dell’Onu è insomma volto a contrastare l’aumento demografico, fattore di minaccia per il clima globale ma anche sintomo di violazioni dei diritti femminili (spose bambine, stupro coniugale, mancato accesso all’educazione sessuale, alla contraccezione e all’aborto, ecc.).
L’ANGOSCIA DELLA DECRESCITA
L’affermazione di politiche non-nataliste sembrerebbe a questo punto un modo per prendere due piccioni con una fava, insomma, unendo gli sforzi per la giustizia ambientale a quelli per la giustizia riproduttiva, se non altro nei paesi del sud globale.
I paesi industrializzati sembrano invece sempre più angosciati dalla propria decrescita demografica: mentre la Cina ha da tempo abbandonato la politica del figlio unico, anche gli Stati Uniti e l’Europa assistono a sempre più diffusi rigurgiti pro-natalisti, che vanno dall’istituzione nostrana di un ministero per la Natalità, sino alle politiche turche e ungheresi per scoraggiare l’accesso delle donne all’istruzione universitaria, o agli incentivi russi per preservare la famiglia tradizionale e il «capitale materno».
CONTRO LA PAURA
La maggior parte dei discorsi natalisti o anti-natalisti hanno però un tratto comune, cioè di essere guidati dalla paura: i nativisti sono terrorizzati ad esempio che gli immigrati facciano più figli di loro, o che le donne si realizzino altrove che nel ruolo materno, o ancora che il sistema pensionistico tracolli; dall’altra parte, gli argomenti per il contenimento demografico sono guidati per lo più dalla cosiddetta «ecoansia», la paura della catastrofe ambientale imminente.
Forse occorre cambiare il nostro immaginario in modo meno mortificante, in entrambi i sensi.
Decidere se fare figli oppure no, a livello sia personale sia politico, può essere una decisione guidata dal desiderio, e non solo condizionata dalla paura? Si potrebbero sostituire i discorsi sinistri sulle culle vuote o sul declino morale delle giovani generazioni immaginando ciò che oggi, anche su un pianeta in rovina, può rendere davvero desiderabile fare più figli?
FARE PARENTELE
Dal lato opposto, è possibile difendere anche la scelta di fare meno figli senza fare appello ad altre paure, come quella di impoverire il pianeta, o sé stessi? Anziché presentare il calo della natalità come segno del tramonto di un paese, di mancata realizzazione personale, o di ecoansia millennial, esiste un modo per far sì che questa opzione sia vissuta in modo gioioso e desiderabile? È possibile trasformare il rapporto degli esseri umani alla propria discendenza, liberandola dall’idea di filiazione biologica e promuovendo altre forme di «parentele»?
Questi sono i discorsi più difficili, eppure i più urgenti da immaginare, non solo per rispondere alla crisi climatica, ma anche alle nuove richieste giuridiche delle famiglie omogenitoriali. Seguendo le visioni della filosofa californiana Donna Haraway, che ha coniato lo slogan «Fate parentele, non fate bambini!» (Make kins, not babies!), da anni sempre più famiglie si organizzano in modo più o meno «queer», moltiplicando le parentele non biologiche, spesso includendo altre specie con le quali si condivide lo stesso destino planetario.
Sono famiglie in cui si fanno meno bambini affinché tutti i bambini siano accuditi meglio, affinché tutte e tutti, crescendo, possano avere un accesso equo alle risorse ambientali, avendo la meglio sulla paura.
(da editorialedomani.it)
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Settembre 9th, 2023 Riccardo Fucile
IL GIOCO DELLE TRE CARTE DEI SOVRANISTI
Sembra dunque che l’agognata svolta “intellettuale” della Destra arrivi, come al solito, dai quotidiani. L’accoppiata Sallusti-Feltri da “Libero” a “Il Giornale” e l’innesto di Mario Sechi a “Libero”, che poteva limitarsi a una mera operazione di facciata, pare invece avere davvero rimescolato le acque.
Libero diventa romanocentrico e si appresta a somigliare a un “Il Foglio” in grande con l’ingresso di Pietrangelo Buttafuoco, Annalisa Chirico e Giordano Bruno Guerri: taglio-chic e salottiero ma col vantaggio dei grandi numeri (e l’editoriale vergato oggi dal neodirettore Sechi sembra dimostrarlo: attenzione alla politica estera così come “Il Foglio” ha fatto sin dal primo numero).
“Il Giornale”, in un ribaltamento di ruoli, sembra avere da oggi il compito di parlare alla pancia della gente, sostenuto però intellettualmente dalla splendida firma di Luigi Mascheroni, che ha tenuto alte le pagine culturali del quotidiano e che sarà ogni giorno in prima pagina: un “Morning Margarita” o un “French 75” – cocktail da mattina – a fare concorrenza al caffè di Gramellini (per me una vodka secca e a temperatura ambiente)
Per quanto riguarda le prime pagine quelle, per così dire “a regime”, strepitoso e provocatorio il primo titolo di “Libero”: “La mamma di ferro”, sottotitolo: “E Meloni difende Giambruno: ha parlato come mia madre”. Dopo le polemiche sul “familismo” il compagno, la sorella, il cognato, Mario Sechi e le sue celebri bretelle lanciano persino la madre del premier come “fonte” del nostro ordinamento.
Da “clickbait” il titolo dell’editoriale di Alessandro Sallusti: “Perché saremo di opposizione”, in cui si spiega che “Il Giornale” sarà un giornale di opposizione alla sinistra, e la mente un po’ vacilla prima di realizzare che Giorgia Meloni, al momento, tra accise ed Europa ha problemi a diventare voce governativa: l’opposizione conviene, anche se è una doppia negazione. Dalle prime pagine del primo giorno “Libero” sembra più croccante e provocatorio. “Il Giornale” promette tripli salti carpiati. Sarà divertente.
(da mowmag.com)
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Settembre 9th, 2023 Riccardo Fucile
SONO VITTIME DUE VOLTE… E’ RECORD DI ABUSI SUI MINORI. LE BAMBINE VENDUTE
Le luci si sono spente. La musica ha iniziato a suonare. Da lontano, voci neomelodiche riempiono quella culla di terra che quasi naturalmente il Vesuvio crea verso il mare.
Qualcuno di importante, stanotte, è stato scarcerato. Così il “piano bar della camorra” ha riaperto: spettacoli per tutto il quartiere, fuochi pirotecnici compresi, fino alle 3 del mattino. C’è chi si alza all’alba per andare a Roma a lavorare (è più facile arrivare lì che a Napoli, nonostante disti solo 14 chilometri) e si attacca, per combattere l’insonnia, al 112 e al 113, senza risposta.
E c’è invece chi a quell’ora si sta ritirando, dopo aver staccato dal turno e attraversato l’Asse mediano e tutti quegli svincoli che si perdono nel nero della campagna. Così vede spuntare, vicino a un capannone che vende cocomeri d’estate, due bimbe di 9-10 anni, anche se bimbe non sembrano esserlo da tempo. “È notte, mamma e papà lo sanno che state qui?”, dice Raffaele, dal finestrino dell’auto. “No”, rispondono. “Ma stu scem’ che vo’…”, ridendo tra loro. “E allora tornatevene a casa che è tardi”, rintuzza Raffaele. Le due scappano. Raffaele le segue con la coda dell’occhio, fino a quando non le vede riapparire sotto un lampione. Lì, due o tre motorini SH 300, senza il quale qui non sei niente, hanno preso a girare loro intorno, come le api col miele.
Le strade che separano i 29 blocchi di cemento armato che è difficile chiamare case, non hanno un nome: tutto è “via Salicelle”. Dal rione Salicelle di Afragola, il Parco Verde di Caivano dista quattro chilometri. Tutti quartieri figli di quella sciagurata legge 219, post sisma 1980, con cui arrivarono miliardi per costruire alloggi “temporanei” per 300mila terremotati che, da Napoli, vennero esiliati in questo squarcio di terra tolto alle campagne.
Qui abitano circa 8mila persone. I figli si fanno presto, in genere a 15 anni, in media 3 o 4, in un caso fino a 17. E spesso – come a Caivano – molti sono figli dei nonni, perché “si salta un giro”, nel rispetto della legge dello “ius primae noctis dei padri con le figlie”, come disse tempo fa il parroco, don Ciro Nazzaro.
Tutti sanno, da queste parti. Tutti sanno e fingono di non vedere, a differenza di Raffaele (e di un coraggioso cronista locale, Francesco Celardo, che scrive per missione, visto che non ha un contratto e viene pagato ogni 10 mesi a pezzo). Eppure la voce che si rincorre è sempre la stessa: “Quando c’erano Loro, chist’ cos’ co’i criatur’ non succedevano”. Loro sono i Moccia, non i signori di queste terre ma i “padroni”. Che, da lontano, da veri esponenti di una borghesia criminale più interessata agli appalti milionari e ai palazzi bene di Roma che a sporcarsi le mani con la droga, hanno tenuto l’ordine in questi quartieri-ghetto (e serbatoi di voti), tra Afragola e Caivano. Per anni.
Tutto grazie a una regola tramandata ai vari reggenti-manager della loro holding di Stato: i proventi di droga, usura ed estorsioni prima di tutto dovevano andare al sostegno alle famiglie di chi è libero tanto quanto di chi è detenuto, poi si pensa al guadagno.
“Questa è la lista che mi ha dato lui…”, diceva in un’intercettazione il reggente di uno dei due sotto-clan delle Salicelle, Mariano Barbato. La lista è quella per la cosiddetta “mesata”, il reddito di cittadinanza dell’altro Stato, ben più consistente di quello cancellato dal governo Meloni, se consideriamo che una sola piazza di spaccio al Parco Verde “fattura” un milione e mezzo di euro l’anno. Ecco perché da queste parti non sono nate famiglie egemoni. Perché la fame e le ambizioni vengono saziate sul nascere.
In questo pezzo di Italia dove non c’è un bus che ti possa portare a Napoli o a Casoria o anche solo a prendere un caffè al bar, c’è una cosa che funziona come fossimo in Svizzera. È la droga. E quando il Parco Verde si “spegne” (per troppa pressione mediatica o per i maxi-blitz), le Salicelle si “accendono”. È sempre stato così.
Prima, quando la cocaina era di primissimo taglio e arrivava dagli Amato-Pagano, ora anche con l’eroina e i suoi scarti da fumare, il “cobret” lo chiamano (nella variante napoletana, si mescola con amuchina o urina per aumentare lo sballo).
Per lo Stato, basterebbe spostare lo sguardo. Per l’altro Stato, basta mantenere il buio. E spostare il welfare criminale qualche chilometro più in là.
Tutto si tiene. La camorra, da queste parti, si è mangiata pezzo dopo pezzo i colori delle cose. Preceduta da uno Stato che quarant’anni fa ha deciso che venissero su, al posto dei campi, agglomerati di cemento misto ad amianto. Lo stesso Stato che, oggi, rischia di veder saltare 25 milioni di euro di “Piano di recupero urbano” per la riqualificazione delle Salicelle, perché il Comune di Afragola “ha scoperto” seimila abusi edilizi non dichiarati.
È solo grigio, qui intorno. Senza uno scivolo, un’altalena. Così i bambini – maschi o femmine che siano – scendono dal box dell’infanzia direttamente alla strada. E hanno come unico diktat quello di trovare il loro posto nel mondo, possibilmente in formato TikTok (e soldi&pistole&sesso tirano molto, da quelle parti).
“Difficile immaginarsi, quando tutto ti sembra precluso”, spiega Luca Blindo, rapper 30enne delle Salicelle. Luca si è salvato grazie alla solidità di un padre che faceva un lavoro onesto, il camionista, e alla passione per la musica “che mi ha dato una speranza”: “Io qui parto da meno 2, e ora posso forse dire che sono a zero” (l’ultimo disco di Luca, Giungla d’asfalto, uscirà a giorni).
Per migliaia di ragazzi, l’unico ascensore sociale, come ripete Isaia Sales, è la camorra. E così, mentre a Caivano lo Stato mostra i muscoli perché “la bonifica è iniziata” (cit. Giorgia Meloni), alle Salicelle si diffonde il nuovo “bando di concorso”: cercansi rider della droga, under 14, SH 300-munito, snello e con guida agile, per mille euro a settimana.
“È come se ci fosse una tacita spartizione del territorio, tra Stato e camorra, una sorta di ‘lascia campare perché così deve andare’”, dice con un peso nella voce l’ex Garante regionale per l’Infanzia, Cesare Romano. È suo il rapporto del 2016 in cui, su 45 Comuni campani, sono emersi 155 casi di abusi sui minori e 42 incesti: quasi tutti nel rione Salicelle di Afragola, Parco Verde di Caivano e Madonnelle ad Acerra. “Sa quali interventi sono stati programmati dopo quel rapporto? Nessuno. Lo Stato si è semplicemente girato dall’altra parte”.
Sono numeri sottostimati, perché come spiega l’attuale Garante, Giuseppe Scialla, “mancano i dati, pochissime le denunce. E le strategie di contrasto, dalla videosorveglianza alla militarizzazione, sono tutti ‘strumenti del giorno dopo’, mentre noi dobbiamo prevenire il disagio, creando anche dei punti di ascolto sui social, perché pure le due bimbe di Caivano passavano ore e ore sul cellulare…”.
Secondo l’ultima indagine nazionale sul maltrattamento infantile della Fondazione Cesvi, la Campania è la regione con più alta criticità in tutti i fattori di rischio. Gli adulti, nella maggior parte dei casi, qui sono fantasmi. I padri detenuti, o morti. Le madri alcolizzate, o dipendenti dal gioco. E se va bene, e c’è chi lavora, campare è un’enorme fatica.
Così si rincorrono le voci su madri che liberano gli appartamenti perché le figlie “hanno appuntamenti”. Per una decina di euro o, per una macchina o un motorino, se l’ospite è importante. “Quando ci servono i soldi ci mandano sotto la scala a giocare con gli zii”: era il 2009 e vennero arrestati alle Salicelle convivente della madre, zio e tre vicini di casa che abusavano di due cuginette di 8 e 10 anni.
Due cuginette, proprio come N. e M., le due bambine stuprate al Parco Verde.
Da questi parti, in quest’epoca solitaria e feroce, crescono veloci pure le bambine. Basta guardare i video che in questi giorni rimbalzano su TikTok da Caivano alle Salicelle, anche quelli con N. e M. E le bambine sono vittime due volte. Perché tutto si può vendere in quartieri così. Anche la vita. Come delle moderne Partenope, sirene con le sembianze di vergini che si suicidano lanciandosi in mare. Nell’insensibilità al loro canto, il loro corpo viene trasportato dalle onde. Ma tanto siete, siamo lontani. In paesi estranei.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Settembre 9th, 2023 Riccardo Fucile
C’E’ ANCORA UN’ITALIA SOLIDALE CHE NON TOGLIE AI POVERI PER DARE AGLI EVASORI: EMPORIO SOLIDALE AIUTA 1.778 FAMIGLIE IN POVERTA’
Mille commensali, 800 chili di riso, 60 chef e 25 sommelier, attorno a una tavolata di 400 metri nel centro di Parma, da piazza Garibaldi a strada della repubblica.
Sono i numeri della Cena dei Mille 2023, che è arrivata alla quinta edizione. E anche stavolta l’evento è pienamente riuscito: la serata ha permesso di raccogliere 20mila euro che saranno destinati a 1.778 famiglie bisognose del Parmense.
L’evento è stato organizzato da Fondazione Parma Unesco City of Gastronomy, il Comune, Parma Alimentare, Destinazione Turistica Emilia e «Parma Io Ci Sto!».
Soddisfatto il sindaco Michele Guerra: «La Cena rappresenta tutti i principi del nostro territorio. Il cibo, la sua capacità di rinnovarsi e la solidarietà». I fondi raccolti con l’evento saranno destinati a Emporio Solidale, che si occupa di distribuire generi alimentari alle famiglie più in difficoltà. Con i proventi della serata sarà possibile acquistare una cella frigorifera, strumento prezioso per l’attività dell’organizzazione.
Il menu: eccellenza e tradizione
Ricca l’offerta a tavola con le eccellenze della cucina parmense e della tradizione emiliano-romagnola. 1.500 porzioni di focaccia, 1.000 micche di Parma e 3.000 grissini come aperitivo, servito da 20 camerieri. Tutto distribuito in 11 isole gastronomiche arricchite dai prodotti dei consorzi e delle filiere partner.
Dopo i preamboli è stato il momento del menu alla carta. Prima l’entrée firmato dallo chef stellato Massimo Spigaroli. A seguire il riso latte, cassoeula e more di Enrico Bartolini, primo nella storia della Guida Michelin a ottenere quattro stelle in un colpo. Il secondo piatto è stato curato da Parma Quality Restaurants: una ballotine di faraona farcita accompagnato dal pane dei maestri panificatori del Gruppo Provinciale Panificatori Artigiani di Parma, ideato per l’evento.
Riccardo Monco, della tristellata Enoteca Pinchiorri di Firenze, ha firmato il dessert, un cremoso alla gianduja e cuore di saba parmense. Una serata all’insegna della convivialità e della solidarietà la quinta edizione della Cena dei Mille che ha animato ancora il centro di Parma.
(da Open)
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Settembre 9th, 2023 Riccardo Fucile
“E’ UN TERRITORIO COMPLESSO MA ABBIAMO STRETTO UN’ALLEANZA CON I CITTADINI”… INSEGNANTI CHE ONORANO IL NOSTRO PAESE, ALTRO CHE I CIALTRONI CHE SPARANO CAZZATE NEI SALOTTI TV
Nel 2022, nelle regioni del Sud Italia la percentuale di giovani che hanno abbandonato precocemente gli studi ha toccato un preoccupante 15,1%, 3,5 punti in più della media nazionale.
Da una delle zone più colpite dalla dispersione scolastica arriva però anche una storia tanto incoraggiante quanto incredibile.
Nel 2013 l’Istituto comprensivo Sperone-Pertini, alla periferia sud di Palermo, ha toccato un picco del 27,3% di abbandono precoce del percorso di studi. Oggi, a dieci anni esatti di distanza, quella percentuale si è ridotta all’1%.
Dietro la storia di successo c’è il lavoro instancabile della dirigente scolastica, Antonella Di Bartolo. «Lavoriamo in un territorio complesso», ammette la preside, che però insiste nel voler condividere il merito del successo con i suoi colleghi. «Tutti insieme – spiega in un’intervista a Orizzonte Scuola – abbiamo ragionato su come porre rimedio a questa situazione inaccettabile. Ci siamo messi al lavoro su più linee d’intervento».
Le conversazioni al balcone
Secondo Di Bartolo, la periferia di Palermo è un luogo che si presta alla dispersione scolastica, dal momento che «buona parte della popolazione vive una situazione di disagio economico, sociale ed educativo». Di conseguenza, la preside e tutto il corpo docenti hanno dovuto convincere le famiglie degli studenti ad una ad una.
«Abbiamo messo in atto importanti misure di sistema accanto a azioni quasi sartoriali, a misura di ciascun bambino e di ciascuna bambina e soprattutto dei loro genitori. È anche capitato di andare a recuperarli a casa, o per strada», spiega Di Bartolo.
E le sue parole non sono certo un’esagerazione. Su X è diventata virale una foto in cui la preside, con lo sguardo rivolto verso un balcone, prova a convincere una famiglia a mandare a scuola i propri figli.
La sfida per il futuro
Per arrivare a un risultato come quello raggiunto dall’Istituto Sperone-Pertini – in cui la dispersione scolastica è crollata in dieci anni fino a raggiungere l’1% – la scuola ha dovuto «stringere un’alleanza con i cittadini». Qualche esempio? Andando a parlare con le famiglie, ma anche chiedendo aiuto ai commercianti della zona per raccogliere le iscrizioni per la scuola.
«Si è lavorato – spiega Di Bartolo – sulla consapevolezza del diritto a frequentare la scuola, a partire dalla scuola dell’infanzia. Quando un diritto viene offerto, quel diritto viene riconosciuto ed è esercitato». Certo, anche ora che il tasso di abbandono scolastico è prossimo allo zero il lavoro va avanti: «Questo risultato, di cui siamo orgogliosissimi, va difeso, possibilmente ulteriormente migliorato – insiste la preside -. Perché se anche solo un bambino su 100 non frequenta la scuola è gravissimo, è inaccettabile».
(da agenzie)
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Settembre 9th, 2023 Riccardo Fucile
SE AVESSIMO UN GOVERNO NORMALE LA PROVINCIA DI TRENTO SAREBBE GIA’ STATA COMMISSARIATA… L’ORSA IN OGGETTO NON HA MAI DATO PROBLEMI (SE NON VAI A ROMPERE I COGLIONI AI SUOI CUCCIOLI)
Ieri la scoperta de “il Dolomiti” che F36, con ogni probabilità era stata radiocollarata già da qualche tempo nel silenzio generale (oggi possiamo affermare con certezza che ciò è avvenuto ”nella notte tra il 29 e 30 agosto 2023 l’esemplare F36 è stato catturato, dotato del radiocollare e rilasciato immediatamente”), alla faccia della trasparenza e dell’informazione tanto invocata per avere una corretta gestione del fenomeno grandi carnivori.
Ora emerge che il presidente Fugatti l’ha già condannata a morte. E’ di ieri il decreto ”Autorizzazione al prelievo, quale misura di sottrazione all’ambiente naturale, tramite uccisione dell’esemplare di orso F36”. L’ennesimo atto che sarà sicuramente impugnato e bloccato dai tribunali perché mal congeniato anche solo a una lettura superficiale: infatti lo stesso decreto spiega che si procede per abbattimento perché la Provincia è inadempiente poiché non ha un posto dove metterla in caso di cattura.
Si legge chiaramente che ”il Centro del Casteller, di proprietà della Provincia autonoma di Trento e gestito dalle strutture dipendenti dal Dipartimento protezione civile, foreste e fauna, è dotato, all’interno di un più ampio recinto, di tre spazi, indipendenti ma eventualmente tra loro comunicanti, per la collocazione e la captivazione di orsi, dei quali uno è occupato stabilmente dall’orso M49, uno è occupato temporaneamente dall’orsa JJ4 e il terzo deve essere obbligatoriamente lasciato disponibile per poter consentire la collocazione temporanea dell’orso pericoloso MJ5 per il quale è già stata disposta la rimozione ovvero per la gestione di esemplari di grandi carnivori a seguito di situazioni di emergenza o di esigenze cura e riabilitazione in funzione del successivo rilascio a vita libera”.
Pare, quindi, impossibile che con queste motivazioni si possa procedere all’abbattimento di un esemplare che comunque, prima del falso attacco del 30 luglio, non aveva mai dato segnali di pericolosità.
Ancora più assurda l’ulteriore motivazione che Fugatti adduce nel suo decreto preso atto che F36 non ha mai presentato segnali di ”problematicità” prima dell’incidente avvenuto il 30 luglio: ”Considerato che il grado di pericolosità dell’orso F36 per le persone potrebbe essere ulteriormente confermato, di fatto, solo constatando o meno altri comportamenti pericolosi (ulteriori attacchi con contatto fisico), ma tale approccio non è assolutamente adeguato per garantire, anche in via precauzionale, l’interesse della sicurezza pubblica”.
Una considerazione che, a questo punto, vale per qualsiasi essere vivente. Per aggiungere anche questa considerazione piuttosto paradossale: ”Considerato che rispetto a possibili misure alternative alla rimozione va ricordato che eventuali azioni dirette di dissuasione a carico di F36 risulterebbero tecnicamente inadeguate (oltre che difficilmente praticabili) e non sarebbero soluzioni ugualmente valide a scongiurare il pericolo di aggressione da parte di un orso non confidente”. Quindi di fatto si ribadisce che F36 non ha mai causato problemi prima di questo incidente.
Quale? Lo lasciamo ricostruire dallo stesso decreto. Due giovani “mentre salivano dal sentiero denominato “Del Mandrel”, percorsi circa 200 metri dal parcheggio posto poco dopo l’imbocco della strada forestale di tipo “B” che porta alla Malga Avalina, si imbattevano in due orsi in fase di riposo, un adulto ed un piccolo, sicuramente una femmina con un piccolo. Gli animali si trovavano in un pianoro, probabilmente un ex carbonaia, tra alcuni abeti radi e stavano dormendo. L’orso adulto accortosi dei due uomini si alzava sulle zampe posteriori per poi scagliarsi contro di loro. Il [uno dei due uomini] che si trovava in posizione più arretrata ripercorreva il sentiero correndo verso valle, mentre il [l’altro dei due uomini] si arrampicava prontamente su una pertica di abete che si trovava all’inizio del pianoro arrivando ad un’altezza di circa 5-6 metri, tenendo tra le mani un bastone da montagna ed usandolo per difendersi dal plantigrado che lo inseguiva sull’albero. In un primo momento l’animale strappava dalle mani il bastone al ragazzo e successivamente lo agganciava per una ghetta e lo scaraventava giù dall’abete. Nella caduta [l’altro dei due uomini] sbatteva rovinosamente con il torace su un masso posto ai piedi dell’albero. Immediatamente si alzava da terra e scappava a valle in direzione della macchina lasciando sul posto alcuni effetti tra cui il bastone ed il cappello”.
Insomma come ricostruito qualche giorno dopo l’incidente mamma orsa con piccolo erano stati svegliati di soprassalto dai due giovani in un luogo comunque in alta quota tra i boschi e il ferito si era ferito nella caduta e non per un’azione diretta dell’orso.
(da Il Dolomite)
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Settembre 9th, 2023 Riccardo Fucile
INTERVISTA AL GEN. BATTISTI: ECCO COSA ACCADENDO ALLA COMPAGNIA MILITARE PRIVATA RUSSA
Cosa è davvero successo nei cieli russi nel pomeriggio di mercoledì 23 agosto, quando un aereo che trasportava Eugeny Viktorovich Prigozhin e il suo braccio destro – rispettivamente numeri uno e due della compagnia militare privata Wagner – è precipitato? E cosa ne è della società di contractors e dei suoi soldati dopo l’uscita di scena scena del suo fondatore, diventato negli ultimi mesi sempre più ingombrante tanto da arrivare a sfidare il Cremlino con la “marcia su Mosca” del 23 giugno scorso?
Sono alcuni degli interrogativi che si rincorrono nelle ultime settimane. Fanpage.it ha interpellato il generale Giorgio Battisti, già comandante del Corpo d’Armata Italiano di Reazione Rapida della NATO (NRDC-ITA).
Partiamo da venerdì 23 giugno 2023. Migliaia di mercenari Wagner – con alla testa Yevgeny Prigozhin – intraprendono una “marcia su Mosca” e tentano un ammutinamento – o per alcuni analisti un colpo di stato – in Russia. Possiamo affermare che quel giorno ha rappresentato “l’inizio della fine” della compagnia, almeno per come l’avevamo conosciuta fino ad allora?
Dopo il fallito ammutinamento da parte della Wagner la compagnia – con Prigozhin ancora vivo – è stata smembrata in quattro parti: alcuni dei combattenti sono stati integrati e arruolati nelle forze armate regolari russe previo giuramento; una seconda parte è stata spedita in licenza, perché si trattava di elementi ritenuti poco affidabili; una terza parte, la più cospicua, è stata inviata in Bielorussia sotto il controllo del presidente Lukashenko; la quarta parte invece non si è mai mossa da alcuni Paesi africani dove la Wagner era presente da tempo. Lo smembramento si è reso necessario quando Putin ha capito di non potersi più fidare di Prigozhin.
Arriviamo al 23 agosto. Prigozhin muore in un “incidente” aereo avvenuto nell’oblast’ di Tver’ durante un volo fra Mosca e San Pietroburgo.
L’abbattimento di quel volo è avvenuto esattamente due mesi dopo la cosiddetta “marcia su Mosca” e le versioni su quanto accaduto sono prevalentemente due: c’è chi dice che sia stata piazzata una bomba a bordo del velivolo prima del decollo, e chi ritiene che l’aereo sia stato abbattuto da un missile della contraerea russa. Tra l’altro negli ultimi giorni è emersa la notizia secondo cui i servizi d’intelligence ucraini dubiterebbero fortemente che a bordo dell’aereo fosse presente anche Prigozhin. Da parte di Mosca invece hanno confermato la morte del capo della Wagner e del suo vice, responsabile operativo della private military company (PMC).
Dopo la scomparsa di Prigozhin chi comanda nella compagnia Wagner?
È molto difficile rispondere a questa domanda. Lo smembramento della compagnia lascia pensare che ora sia gestita in modo radicalmente diverso e che il governo russo abbia un peso molto maggiore rispetto al passato. In Siria, dove la Wagner era presente dal 2015, già dal 3 luglio di quest’anno secondo fonti arabe la polizia militare russa avrebbe condotto operazioni di repressione per mettere sotto controllo i comandanti delle unità Wagner presenti in quel Paese. Alcuni sono stati fatti rimpatriare e altri sono stati assorbiti dalle forze regolari di Mosca presenti in Siria. In Bielorussia i Wagner sono sotto il controllo di Lukashenko, con il benestare di Putin. L’unico dubbio è capire chi comanda i Wagner in alcuni Paesi africani: penso al Mali, alla Repubblica Centrafricana, alla Libia, al Sudan e alla regione settentrionale del Mozambico. Non sappiamo ancora se anche in questi stati i contractors della Wagner rispondono agli ordini di Mosca, o se mantengono un elevato livello di autonomia operativa nell’ambito di un comando e controllo dello stato maggiore russo. Penso, ad esempio, a lavori di scorta vip, sorveglianza di impianti strategici e addestramento delle forze armate.
Wagner è l’unica compagnia militare privata russa ad essere stata “irregimentata”?
No, è la più grande e famosa, ma ci sono almeno altre quaranta compagnie private in quel Paese e sono state fatte tutte rientrare tutte sotto l’ombrello di controllo del Cremlino. L’intervento di Putin sulla Wagner ha avuto effetti anche su tutte le altre. Insomma, la “marcia su Mosca” ha avuto conseguenze degne di una spy story: la compagnia di Prigozhin è stata smembrata, il suo capo è scomparso e non sappiamo ancora se sia davvero morto in un disastro aereo o se invece sia ancora vivo. Non sappiamo con certezza neppure chi sia stato il mandante dell'”attentato” all’aereo che trasportava l’ex cuoco di Putin. Conosceremo la verità solo tra qualche tempo.
Possiamo dire quindi che la Wagner ha completamente perso la sua autonomia operativa: si è trattato di una sorta di “nazionalizzazione” da parte della Russia?
Sì, il concetto è più o meno quello. Al governo russo stava sfuggendo di mano il controllo della situazione. Se è vero che la “marcia su Mosca” del 23 giugno è stata fermata a circa 350 chilometri dalla capitale, è altrettanto vero che quel “colpo di testa” avrebbe potuto ispirare tentativi di emulazione da parte delle altre quaranta compagnie militari private russe, ad esempio per fare pressioni politiche o militari sul Cremlino: una situazione inaccettabile per Putin, che ha dato “una regolata” a tutti.
Nel mondo c’è una grande proliferazione di compagnie militari private, non solo russe. L’epilogo della vicenda della Wagner deve insegnare qualcosa anche alle forze armate occidentali che si avvalgono dei “servizi” dei contractors?
Le compagnie militari di sicurezza sono nate dopo la fine della guerra fredda e ormai sono migliaia. Ci sono quelle russe, certo, ma non vanno dimenticate quelle statunitensi come la Blackwater, che in Iraq si sono comportate in modo efferato uccidendo civili inermi e che per questo era stata disciolta dal governo USA. Ci sono poi decine di compagnie cinesi che vengono impiegate prevalentemente in Africa a tutela degli interessi di Pechino in quel continente. Insomma, l’epilogo della vicenda Wagner ha acceso l’attenzione sullo modalità operative di queste società private.
Lei ha una solida esperienza all’estero, in particolare in Afghanistan. Ha avuto modo di collaborare con queste società di “sicurezza” private?
Per forza, sono numerosissime. Negli ultimi anni i soldati delle PMC erano tanti quanti quelli dell’esercito americano perché le compagnie private hanno maggior libertà di intervento e se subiscono delle vittime non devono renderne conto a nessuno, né all’opinione pubblica né ai familiari dei caduti. Penso quindi che il settore vada regolamentato con attenzione, sebbene sia necessario fare delle distinzioni. Le private military company sono sostanzialmente di quattro tipologie: deployed system contractors; external theater support contractors; internal theater support contractors; deployed securuty contractors. Come è evidente alle società militari private fa capo anche il personale che si occupa della manutenzione degli aerei militari in patria e all’estero. E questo è un problema: quando verranno forniti i caccia F-16 a Kiev, ad esempio, la manutenzione sarà affidata a compagnie private.
C’è il rischio che questi contractors si vendano al “miglior offerente”?
Le Compagnie Militari e di Sicurezza Private (PMSC) sono sotto il controllo dei rispettivi governi secondo normative nazionali. Appare difficile, quindi, che possano comportarsi come compagnie di ventura medioevali e rinascimentali che si “vendevano” al miglior offerente cambiando schieramento conflitto durante. Ciò, anche perché sarebbe difficile trasferire queste formazioni, e relativi mezzi, dal proprio Paese di origine ad un altro senza essere notate.
Indubbiamente l’ammutinamento della Wagner, e il suo conseguente smantellamento, avranno fornito spunti di riflessione per una migliore gestione delle PMSC da parte dei rispettivi governi. Il 17 settembre 2008, a seguito di un’iniziativa avviata dal governo svizzero e dal Comitato Internazionale della Croce Rossa, è stato redatto il Documento di Montreux. Si tratta di un documento volto a promuovere il rispetto del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani e fornisce ai governi un modello per regolamentare le Compagnie Militari e di Sicurezza Private ogniqualvolta operano in scenari conflittuali. Anche se non è giuridicamente vincolante per i Paesi aderenti, il documento contiene una serie di riferimenti legali a livello internazionale e di buone pratiche per la gestione delle PMSC. Ad oggi hanno aderito all’iniziativa 58 Stati dei 193 riconosciuti dalle Nazioni Unite.
(da Fanpage)
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