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EMERGENZA CASA, BOOM DI SFRATTI CON LA FORZA PUBBLICA NEL 2022

Ottobre 5th, 2023 Riccardo Fucile

E NEI PROSSIMI 2 ANNI 450.000 FAMIGLIE RISCHIANO DI FINIRE IN MEZZO A UNA STRADA DOPO IL TAGLIO AI SUSSIDI DEL GOVERNO

Che quella della casa fosse una mina vacante in termini di coesione sociale lo si sapeva ma i numeri diffusi oggi dalla Unione inquilini mostrano che la bomba abitativa è già esplosa.
Sono infatti oltre 30mila le esecuzioni con la forza pubblica (+218,60%) mentre si sfiorano le 100 mila richieste di esecuzione (+ circa 200%). Quasi 42 mila le nuove sentenze di sfratto (+ circa 10%).
Questo il bilancio finale per il 2022. Ma quelli dell’anno in corso e del prossimo rischiano di andare molto peggio.
Da un lato ci sono infatti 450mila famiglie che o ci sono già o rischiano di finire in mezzo a una strada perché non essendo riuscite a pagare l’affitto si ritrovano uno sfratto esecutivo già tra le mani o si apprestano a riceverlo. Dall’altro circa un milione di nuclei familiari che temono di non farcela a pagare la rata del mutuo, sempre più salata se a tasso variabile, comunque pesante anche a tasso fisso quando l’inflazione fa lievitare i prezzi del carrello della spesa dei più poveri.
In mezzo 600mila possessori del reddito di cittadinanza che non solo a luglio hanno dovuto dire addio a questo ma anche al collegato assegno fino a 280 euro mensili di sostegno per l’affitto.
Così come altre 400mila famiglie non potranno più contare sui 500-2mila euro l’anno di aiuto da parte dei comuni per pagare il canone, mentre più o meno altrettante dovranno fare a meno al contributo per “morosità incolpevole”, fino a 12 mila euro l’anno per chi è sotto sfratto ed è in serie difficoltà economiche. Tutti fondi cancellati in un sol colpo dal Governo Meloni.
Le case degli italiani sono una polveriera, ma né i partiti di governo, né quelli all’opposizione sembrano accorgersene a giudicare dallo spazio pressoché nullo ritagliato nei loro programmi all’emergenza abitativa. Del resto è dal Piano casa di Fanfani dei lontani anni ’50 che il tema sembra essere uscito dall’agenda politica. Se al massimo si è posta un po’ di attenzione quella è andata a quella stragrande maggioranza del 78% di possessori di casa. Anomalia tutta italiana, visto che in Germania il 66% non è proprietario ma affittuario. In Olanda addirittura l’80% mentre nel resto d’Europa quasi ovunque possessori di casa sono comunque minoritari.
Un popolo di proprietari che poi però non ha risorse per tirar su anche una micro impresa quando si è giovani, che non conosce la mobilità lavorativa e che oggi in un caso su quattro non dorme sonni tranquilli assillato com’è dalle rate del mutuo sempre più pesanti.
Ma in quel 78% si annida anche la tendenza alla speculazione. Perchè mentre c’è chi cerca disperatamente un alloggio, in Italia abbiamo 7 milioni di case sfitte, una megalopoli di circa 20 milioni di abitanti fantasma. Per rimettere in circolazione questo patrimonio abitativo basterebbe tassare maggiormente chi può permettersi di tenere vuota casa, come propone l’Unione Inquilini. Minoranza poco ascoltata ma che sta diventando una polveriera, visto che quasi 900mila famiglie affittuarie hanno redditi al disotto del livello di povertà. E il 90% degli sfatti riguarda proprio chi non ha potuto pagare l’affitto per aver subito tagli alla retribuzione o aver perso del tutto il lavoro. E che ora deve rinunciare anche a quel po’ di sussidi pubblici.
«Uno tsunami che travolge la coesione sociale nelle città, effetto della mancanza di politiche sociali e di qualsiasi forma di intervento pubblico, oltre che della devastante deregulation degli affitti turistici che il Governo lascia senza limiti e controlli», denuncia Silvia Paoluzzi, segretaria nazionale dell’Unione inquilini». «Una situazione insopportabile – prosegue- a cui il Governo risponde con cinica indifferenza, apprestandosi a negare anche in questa legge finanziaria il piccolo ombrellino di protezione del fondo sostegno affitti e per la morosità incolpevole».
(da La Stampa)

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COSA CAMBIA L’ACCORDO EUROPEO SUI MIGRANTI E IL BLUFF DELLA MELONI

Ottobre 5th, 2023 Riccardo Fucile

IL RIFERIMENTO ALLE ONG E’ STATO SEMPLICEMENTE SPOSTATO NELLA PREMESSA, MA RESTA SEMPRE… COME VINCOLANTE E’ IL “NESSUN INDEBOLIMENTO DEGLI STANDARD UMANITARI” (MA I MEDIA SOVRANISTI FANNO FINTA DI NON SAPERLO)

L’accordo sul meccanismo di crisi alla fine è stato raggiunto a Bruxelles e la Germania si dice molto soddisfatta del compromesso raggiunto. “Una svolta storica” la definisce in un twitter il cancelliere tedesco Olaf Scholz.
Come in ogni buon compromesso ciascuno cede qualcosa e guadagna qualcos’altro. La Germania ha consentito a tagliare nel testo dell’ordinamento il punto contestato sulle Ong, che resterà però nella premessa, tra i “Considerando”.
Nella parte iniziale del testo approvato si leggerà che “le operazioni umanitarie di salvataggio non devono essere considerate come una strumentalizzazione dei migranti” per destabilizzare uno Stato membro. In sintesi, se prima il riferimento all’attività di soccorso in mare delle organizzazione non governative compariva due volte, nelle premesse e nel testo del regolamento, ora compare una sola volta prima, e sparisce dal contenuto del testo.
La vittoria che si intesta Berlino invece è “che non ci sia stato alcun indebolimento degli standard umanitari”, come ha detto oggi un portavoce del ministro degli Interni, in conferenza stampa a Berlino.
In pratica questo significa che l’articolo 5x dell’ordinamento – che affrontava la delicata questione delle condizioni materiali della ricezione dei migranti in situazione di crisi nel periodo di tempo che intercorre tra la presentazione della domanda di protezione e la registrazione – è stato cancellato. Il timore del governo tedesco era che si usasse questa scorciatoia per abbassare le garanzie di tutela dei migranti.
“Abbiamo ottenuto che gli standard umanitari minimi, come l’accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria, non siano indeboliti dalla crisi. Perché senza umanità nella crisi, non c’è nemmeno ordine” ha scritto la ministra degli Esteri Annalena Baerbock.
“Si è fatto in modo che l’ordine di crisi possa essere revocato solo in singoli casi giustificati, in modo che la registrazione, la distribuzione e il rimpatrio ordinati non vengano costantemente ritardati”.
L’altro obiettivo raggiunto, dalla prospettiva di Berlino, è che l’attivazione del meccanismo di crisi potrà essere attivata a maggioranza qualificata e non all’unanimità.
La riforma ora dovrebbe essere attuata entro le elezioni europee del giugno 2024. Un traguardo che molti considerano ancora lontano da raggiungere.
(da La Repubblica)

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L’ANALISTA MILITARE: “IN UCRAINA C’E’ UN ARMISTIZIO DI FATTO: SU 1600 KM SOLO DUE PUNTI DI CONTATTO”

Ottobre 5th, 2023 Riccardo Fucile

NEI PUNTI CALDI DEL FRONTE “LA DENSITA’ DI DIFESA E’ SUPERIORE A QUELLA DELL’ATTACCO E NON C’E’ MANOVRA”

Su un fronte di 1.600 chilometri in Ucraina, da due mesi sono solo due i punti di contatto fra gli schieramenti: Bakhmut e Zaporizhzhia.
«Il resto è già linea di armistizio di fatto», spiega all’Adnkronos un analista militare occidentale. Le forze, sia quelle russe che quelle ucraine, «sono ferme». Perché nei punti caldi del fronte, «la densità di difesa è superiore a quella dell’attacco e non c’è manovra». Le forze ci sono ma sono talmente diradate da non consentire uno sfondamento.
L’immagine evocata, per descrivere questo fronte stanco, è quella di due pugili suonati al nono round. I soldati procedono a piedi. Non usano più i carri armati. La concentrazione delle ‘armi contro corazza’, contro i carri armati, è tale che la vita media reale di un mezzo è bassissima, di poche ore. Lo stesso vale per gli elicotteri e gli aerei. Che di conseguenza non vengono usati. Stiamo parlando, nel dire di potenza difensiva, di mine, della loro densità sul territorio, vecchie armi anti carro e di droni. «È quindi in atto un cambio di paradigma». Operato con un insieme di armi vecchie e nuove. E della loro concentrazione. La linea di difesa russa a Sud gli ucraini la attraversano a piedi. Nessun carro sminatore. Sono i soldati ad avanzare carponi di dieci metri con la zappa la notte e all’alba tornano indietro, «come gli Arditi sul Carso».
«La guerra di posizione è guerra di manovra, in cui sfrutti il movimento, la mobilità con la potenza di fuoco per avere la meglio. Ma se non si riesce a concentrare una massa sufficiente per superare la densità di difesa, stai fermo, che è quello che accade in questo momento al fronte in Ucraina», si spiega. L’immagine è quella di uno squadrone di cavalleria che carica: se di fronte ci sono i fanti, qualche cavallo viene ammazzato ma alla fine lo squadrone li travolge. Ma se i fanti dispongono di mitragliatrici, l’arma difensiva blocca la manovra e i cavalieri devono scendere. E in questo caso, la mitragliatrice è la densità, la quantità di sistemi messi in campo. «Negli ultimi 12 mesi, sono stati scambiati, da una parte all’altra complessivamente, pochi chilometri quadrati, 20 per la precisione. Ed è irrilevante precisare a favore di chi. A fronte di 100mila uomini, forse di più persi per parte», sottolinea l’analista.
A sciogliere questa situazione di stallo ci penserà «all’improvviso» un momento di distrazione di una delle due parti che consentirà all’altra di vincere. Nessuna super arma di nuova generazione quindi. Ma l’esaurimento, il collasso di uno dei contendenti. «Qui siamo alla Prima guerra mondiale». Oppure, in una situazione in cui invece le retrovie non sono ‘suonate’, russi e ucraini che hanno dimostrato di saper resistere, come lo è il fronte, sarà la demografia a decidere. «Se si continua in questo modo, tra un anno l’Ucraina arriverà alla situazione in cui era l’Italia nel 1917, quando si chiamarono a combattere i 17enni, i ‘ragazzi del ’99’. In Russia non va meglio: la base demografica è più ampia, ma non combattono per difendere casa loro».
(da La Stampa)

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MELONI E SALVINI HANNO FINITO I GIGA: NON UN GRAZIE AI DUE OPERAI AFRICANI CHE HANNO SALVATO VITE A MESTRE

Ottobre 5th, 2023 Riccardo Fucile

PER GLI EROI DI COLORE I SOVRANISTI HANNO FINITO MEDAGLIE E COCCARDE

Peccato, Matteo Salvini ha finito le medaglie e Giorgia Meloni ha gettato le ultime coccarde durante il trasloco, altrimenti avrebbero sicuramente trovato il modo di premiare i due operai, del Gambia e della Nigeria, che hanno salvato – in mezzo al fuoco – vite di persone di cui non conoscevano niente.
Sono passate 24 ore e al momento neanche un post di ringraziamento da parte della presidente del Consiglio e del vicepresidente, pensavo, arriveranno. Invece anche questa volta devono aver terminato i giga. Che sfiga.
La rete internet del Parlamento, poi, non tiene evidentemente tanto bene, per questo non sono ancora riusciti a caricare il post con le foto dei due operai: quelle foto pesano sulla loro scelta, chiaramente più che per i giga, perché i due uomini sono neri. E questo potrebbe confondere la loro narrazione a una sola corsia: gli immigrati devono essere respinti. Sempre, tutti.
Facciamo un passo indietro: ho letto post di Matteo Salvini su ogni flatulenza di ogni immigrato in Italia, per anni. Giorgia Meloni ha iniziato dopo però ha recuperato bene.
Quello di Giorgia e Matteo, in questi anni, è stato un lavoro certosino, infinito, vissuto spulciando tutti i giorni le notiziuole di certi giornaletti, alla ricerca della notizia più giusta per il target che si erano individuati. Nutrire l’odio è infatti un compito difficile, richiede tempo, impegno costante, e la destra italiana ha deciso da anni di sobbarcarsene l’onere e il disonore.
Ogni scusa in questi anni è andata bene pur di riuscire a parlare contro gli immigrati con la pelle nera, o almeno marrone. Un immigrato non cede il posto a un’anziana? Rimpatriatelo! Non conosce la tradizione dell’ossobuco? Vituperio! Non sa come si prepara la mostarda mantovana? Allora sia messo alla gogna dei social!
Il re del rilancio dei bollettini delle questure in questi anni ha condiviso di tutto: il tizio che una volta ha fatto pipì in mezzo alla strada e però non usciva da una festa della Lega, quello che si è lavato alla fontana ma non era un goliardo universitario, fino a quello che ha detto “non ho voglia di lavorare” anche se lo aveva detto in una canzone, per satira.
Giorgia Meloni si è sempre accodata a Matteo Salvini, usando lo stesso fuoco di ritorno, generalmente però quasi sempre qualche manciata di minuti dopo. Ma da quando è presidente del Consiglio sta tentando il sorpasso. Ai sopravvissuti alla strage di Cutro, per fare un esempio recente, si avvicinò e chiese: “Ma non sapevate che era pericoloso partire?” Questa le valse 100 punti.
Oggi due di quegli immigrati che Matteo Salvini avrebbe voluto mandare via dall’Italia a suon di “calci nel culo”, quelli che per Giorgia Meloni “sarebbe stato meglio non fossero partiti”, sono stati tra i primi a intervenire insieme ai pompieri dopo che il pullman è precipitato dal cavalcavia a Mestre.
Di più: sono stati i pompieri a chiamarli e loro sono andati, tra le fiamme, senza preparazione, a compiere il gesto più antico che l’umanità conosca: salvare vite. Non riuscendo poi neanche loro a contare quante vite avessero salvato.
Quelle braccia protese all’aiuto, così similari, identiche addirittura alle braccia delle volontarie e dei volontari sulle ONG, le vituperate ONG. Proprio loro, le maledette per anni. Quelle per cui questo Governo si è inventato il sequestro per 20 giorni “se effettuano due salvataggi invece che uno solo”, come recita la legge Piantedosi-Meloni.
Sul pulmann precipitato a Mestre una mamma urlava “save my daughter”, cioè “salvate mia figlia”. Qualche mese fa un’altra mamma, su un gommone, gridava “Where is my daughter?” cercando sua figlia caduta in acqua. Cercare le differenze è da persecutori umani.
Credere in una differente reazione dei nostri due non eroi, in base al colore della pelle degli eroi quelli veri, non è più presunzione, sta semplicemente nei fatti e nella cronaca. Lo sciacallaggio termina quando il sentore, l’odore, diventano una consuetudine. E ormai è sempre così.
O c’è da scatenare l’odio oppure per l’attuale classe dirigente italiana vige la ricerca del silenzio, e chi prova a farlo notare viene accusato di saccheggiare, di non avere rispetto per i morti, di volerla buttare sempre in politica, come se fosse possibile parlare di qualcosa di diverso, di fronte al comportamento disuguale di chi ci governa quando si trova al cospetto del colore della pelle dei salvati o dei sommersi.
In un Paese normale, o anche soltanto “quasi normale”, oggi quei due uomini, quei due operai neri, sarebbero premiati per quello che hanno fatto.
Una medaglia, un invito in Parlamento, un tiramisù, un caffè, una stretta di mano, un abbraccio stretto visto che non siamo più in tempi di Covid imperante, o almeno un post. Già, un post. Dai, Matteo. Forza, Giorgia.
Attendendo l’infinito, lo faccio io un ringraziamento. Lo facciamo insieme, vi va? La parola che nel vocabolario rappresenta la grazia, la salvezza, oggi è tutta per voi ed è tutta maiuscola: GRAZIE Boubacar Toure e Godstime Erheneden.
Al mio collega di Fanpage.it che gli ha chiesto: “Avete avuto paura?” loro hanno risposto: “Avevano bisogno di aiuto, se qualcuno ha bisogno d’aiuto bisogna andare”.
Sarebbero potuti essere italiani, anche in Italia esistono persone capaci di comportamenti eroici, però per l’appunto erano del Gambia e della Nigeria. Perché per Giorgia Meloni e Matteo Salvini è così difficile raccontarlo e ringraziarli?
(da Fanpage)

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C’ERA UN “BUCO” NEL GUARDRAIL: COSÌ IL BUS DI MESTRE È È FINITO NELLA SCARPATA

Ottobre 5th, 2023 Riccardo Fucile

LUNGO IL CAVALCAVIA SUPERIORE DI MARGHERA C’È UN’INTERRUZIONE NELLA BARRIERA DI SICUREZZA CHE MISURA DUE METRI: LÌ IL PULLMAN SI È INFILATO, SCHIANTANDOSI AL SUOLO E CAUSANDO LA MORTE DI 21 PERSONE… LA REPLICA DEL COMUNE DI VENEZIA: “ERA UN VARCO DI SERVIZIO”

La schiuma bianca degli estintori delimita una perfetta sagoma rettangolare. Gli autoarticolati e i tir che arrivano dalla zona industriale di Marghera ci passano accanto, stando bene attenti a non invadere con le ruote quel perimetro d’asfalto divenuto la scena di un crimine da ventuno morti. Esistono tragedie dove tutto quel che è potuto andare male, lo ha fatto.
Guardando dalla via Pila che in basso scorre parallela al Cavalcavia superiore di Marghera, questo il nome ufficiale dell’infrastruttura dalla quale è precipitato il bus elettrico, colpisce quella figura geometrica dai contorni così netti.
Il corpo del reato invece è custodito in un deposito dismesso poco distante. Aveva una altezza dichiarata al Pubblico registro automobilistico di tre metri. Adesso misura un metro e quaranta. Sotto alle ruote esposte all’aria, un ammasso di lamiere contorte alle quali è impossibile dare nome e forma.
Il bus è caduto di piatto, sul proprio tetto. Da una altezza misurata di 9,40 metri. Ci vorranno settimane per stabilire la causa di ogni decesso. Ma quasi tutti i corpi presentano segni evidenti di schiacciamento. Il peso del mezzo sul quale stavano tornando in campeggio dopo una giornata di vacanza a Venezia si è completamente riversato su di loro, agendo come una pressa.
È un dettaglio macabro, del quale ci scusiamo. Ma purtroppo è anche utile per capire un bilancio di vite umane perdute che nonostante tutto appare spropositato. «Se l’impatto con il terreno fosse avvenuto su una fiancata, non ci sarebbero stati così tante vittime e feriti gravi» dice uno dei Vigili del fuoco che ha coordinato i primi aiuti.
Ma come è potuto succedere, cosa è davvero accaduto. Le ineludibili domande sono queste, quando accade una sciagura del genere, su una strada sempre trafficata che tutti abbiamo percorso almeno una volta nella vita. Perché gli 830 metri di quel cavalcavia sono la porta d’ingresso a Venezia, il lembo d’asfalto che collega l’isola dei turisti alla terraferma di Mestre e Marghera, dove ogni cosa ricorda un Novecento industriale che non tornerà più.
Qualche parziale risposta è possibile camminando lungo i cinquanta metri di cavalcavia immortalati nei video delle telecamere di sorveglianza. Il bus della società Linea spa, modello E-12 della cinese Yutong, emerge dalla salita iniziale. Fino a quel momento nessuna deviazione improvvisa, nessun scarto. Nessuna avvisaglia di quel che da lì a poco avverrà.
Alla guida c’è Alberto Rizzotto, quarant’anni, figlio di Maria Adele Roma, catechista e maestra elementare, e di Luigi, generale dell’aeronautica in pensione. Fa questo mestiere dal 2011, e gli piace. Agli amici che gli chiedevano perché non chiedeva l’assunzione nel settore pubblico, rispondeva che preferiva lavorare con i turisti, che danno meno grattacapi.
Alle 19.48 il bus compie una manovra strana, abbandonando la corsia sulla quale stava viaggiando e stringendo lentamente alla sua destra. Percorre una trentina di metri sfregando contro il guardrail arrugginito. Le tracce lasciate dall’attrito sono evidenti. La protezione sembra reggere. Solo che ne manca un pezzo.
È un buco nella barriera di sicurezza che misura due metri, nel quale il pullman che continua a spingere verso destra, come se non rispondesse più ai comandi, o non ci fosse più nessuno al volante, si infila. Una volta li chiamavano punti di sfogo. I parapetti venivano costruiti così. Ce ne sono ancora tantissimi in giro.
A quel punto il bus è come se fosse su una rotaia, con le ruote esterne che ormai viaggiano sulla passatoia lambendo la ringhiera del cavalcavia e le altre sul ciglio esterno della strada. Percorre ancora una dozzina di metri schiacciando con la sua plancia un’altra porzione di guardrail e le putrelle che lo sostengono. Sembra quasi fermarsi, in bilico. Poi precipita sfondando la ringhiera, composta da tre tubi di ferro dalla sezione di tre centimetri ognuno. Ma in quel momento, il suo destino era già segnato. Perché quell’ultimo ostacolo non è certo concepito per fermare un veicolo di quella stazza.
Impossibile capire oggi se il parapetto avrebbe continuato a reggere. Ma la deviazione causata da quel varco «spinge» il bus ancora più verso l’esterno, e lo priva del suo ultimo argine prima del vuoto. L’urto del pianale con le putrelle e il guardrail ne altera il già precario equilibrio, provocandone il ribaltamento durante la caduta, con le tremende conseguenze che ne sono poi derivate.
«Quelle barriere non sono a norma secondo le leggi vigenti, ma lo erano all’epoca in cui vennero progettate» dice Renato Boraso, assessore alla viabilità del Comune di Venezia, che ha ereditato dall’Anas la gestione di quel tratto di strada. I varchi sarebbero stati chiusi l’anno prossimo con i lavori strutturali già decisi e finanziati dal Pnrr. L’infrastruttura rientra infatti nelle opere considerate «vie strategiche di comunicazione ai fini della protezione civile».
A Tezze di Vazzola, la villetta della famiglia Rizzotto ha le finestre sbarrate. L’errore umano, o il malore, o il colpo di sonno, sono il principio e non la fine di questa storia. Intanto, sul cavalcavia il traffico ha ricominciato a scorrere, come sempre.
(da Il Corriere dellas Sera)

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TRAGEDIA MESTRE, IL FILMATO DEL PULLMAN E LA PROTEZIONE MANCANTE SUL GUARD RAIL

Ottobre 5th, 2023 Riccardo Fucile

TRE IPOTESI PER SPIEGARE LA CADUTA

Nell’indagine sull’incidente di Mestre gli investigatori lavorano su tre ipotesi per spiegare le cause della caduta del pullman dal cavalcavia della Vempa.
Ovvero un guasto meccanico dello Yutong E12 elettrico, un malore dell’autista Alberto Rizzotto o una sua distrazione.
Le immagini delle telecamere di sicurezza hanno mostrato la dinamica dell’incidente ma non sono riuscite a spiegarne il motivo. Si vede l’autobus fermo sulla parte destra della carreggiata. Poi, forse a causa di una manovra impropria, il mezzo sfonda il guardrail e finisce nella scarpata.
Prima però urta proprio il guardrail durante la manovra per avvicinarsi a destra. Percorre una trentina di metri sfregando contro il guardrail arrugginito. La protezione sembra reggere. Ma ne manca una parte. L’assessore ai trasporti veneziano Boraso però smentisce.
La dinamica
Il pullman si infila nella barriera di sicurezza. Percorre un’altra dozzina di metri. Poi precipita sfondando la ringhiera. Gli inquirenti escludono che un ruolo nella caduta lo abbia avuto l’incendio. Semplicemente perché le fiamme si sviluppano dopo la caduta del mezzo. L’autobus alle 19.38 cade da un’altezza di una decina di metri. Nessuno, nel frattempo, sente un urto alla sua sinistra.
«Abbiamo subito identificato e interrogato il conducente del pullman che nei video in nostro possesso affianca l’autobus. Questo non ha alcun segno di urto sulla sua carrozzeria», puntualizza il capo della procura di Venezia, Bruno Cherchi. «Anzi, il conducente è stato tra i primi a prestare soccorso gettando di sotto un estintore che aveva a bordo», conclude. Il malore dell’autista sembra ad oggi l’ipotesi più probabile per spiegare l’incidente di Mestre. Non ci sono segni di frenata sull’asfalto.
L’autista
Alberto Rizzotto aveva quarant’anni. Era figlio della maestra elementare Maria Adele Roma e di Luigi, generale dell’aeronautica in pensione. Viveva con i genitori a Tezze, una frazione di Treviso. Non ci sono motivi, per ora, per credere che quello che è successo sia avvenuto per una sua volontà. L’azienda che forniva i bus al campeggio “Hu” di Marghera si chiama La Linea. Ha noleggiato i mezzi dalla Martini Bus srl, della quale era dipendente Rizzotto. Massimo Fiorese, amministratore delegato di La Linea, ha individuato nel guardrail, datato anni Cinquanta, «malconcio, con un buco» e in apparenza sottile «come una ringhiera», una possibile concausa dell’incidente. I risultati dell’autopsia sul corpo di Rizzotto faranno luce sulla possibilità di un malore alla guida.
Il guardrail non a norma
Sul guardrail non a norma arriva oggi una conferma dal Corriere della Sera. Secondo l’ingegnere Alfredo Principio Mortellaro, ex direttore dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle infrastrutture stradali e autostradali e presidente della Commissione ministeriale che ha indagato sul disastro del Morandi, la forma a doppia onda ormai è obsoleta.
«Per forma, a doppia onda, ormai superata, e altezza, non più di 70 centimetri. Considerato il traffico di mezzi pesanti che c’è su quel ponte, la sicurezza non è garantita. Avrebbe dovuto essere sostituito dieci anni fa, perché così veniva richiesto dalla normativa europea e italiana». Secondo il Comune di Venezia, proprietario e gestore del ponte, al quale spetta la manutenzione, non è stata invece violata alcuna norma: «Sapevamo che si doveva sostituire ma non c’era alcun obbligo. I lavori sono comunque in corso e riguardano l’intera soletta».
Le immagini
Secondo Mortellaro «dalle immagini appare evidente che la barriera, contro ogni regola di installazione, è stata montata accostando piccole porzioni e negando così il principale requisito della continuità strutturale. Così è stata ulteriormente ridotta la capacità di contenimento. Per funzionare dev’essere lunga almeno 50 metri, come prescritto dai crash test. Ma quella di Mestre, in considerazione della tipologia di traffico e della vicina ferrovia, avrebbe dovuto garantire soprattutto il più alto livello di contenimento, in termini tecnici non meno di un H3 o addirittura un H4b, il massimo. Quella installata è utile a proteggere situazioni di traffico di quartiere». Per il Comune «quei buchi nel guardrail si chiamano punti di passaggio tecnico che servono a garantire l’accessibilità al manufatto urbano».
Le norme
Le norme sulle barriere sono tracciate a livello europeo. Quelle nuove emanate dal 2018 dal Consiglio superiore dei lavori pubblici dopo il disastro di Genova prevedono il collaudo statico. Restano anche da vagliare le condizioni psicofisiche dell’autista su cui sarà effettuata l’autopsia per escludere che avesse assunto sostanze non consentite, oltre che accertamenti tecnici sul cellulare per dimostrare che quel salto nel vuoto non sia stato originato da un attimo di distrazione.
Non si esclude un colpo di sonno sebbene appare accertato, come afferma Fiorese , che il turno di lavoro dell’autista – descritto come «esperto alla guida e appassionatissimo del suo lavoro» – fosse iniziato da non più di tre ore, consentendogli di fare la navetta tra il camping Hu di Mestre e Venezia non più di due o tre volte.
(da Open)

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