Febbraio 4th, 2024 Riccardo Fucile
IL MINISTRO DELLE RIFORME ISTITUZIONALI ASSEDIA L’ORECCHIO DI SANGIULIANO DI TELEFONATE PER FAR TRASLOCARE NEL TEMPIO DELLA LIRICA FORTUNATO ORTOMBINA, OGGI SOPRINTENDENTE DEL TEATRO LA FENICE DI VENEZIA, DOVE SUO FIGLIO È ORMAI DI CASA… ALTRI MUSICANTI SI FANNO AVANTI. BEATRICE VENEZI, ALBERTO VERONESI, NAZARENO CARUSI
“Caro Merlo, sembra esserci un gran lavorio per portare Alvise Casellati sul podio della Scala”, ha scritto un lettore di “Repubblica” ieri alla rubrica della Posta. “Ho letto che la ministra delle Riforme, Maria Elisabetta Casellati starebbe facendo fuoco e fiamme pur di vedere l’erede brandire la bacchetta nel tempio della lirica tricolore”. Gli ha risposto Francesco Merlo: “Mi rifiuto, ohibò, di credere che questo familismo sia vero e che sia possibile alla Scala”.
Sgombriamo, anzitutto, il campo da questo secondo italico aspetto: il familismo alla Scala si può, eccome: basti dire che il regista dell’opera attualmente in scena è Daniele Abbado, figlio di Claudio, e della prossima sarà Chiara Muti, figlia di Riccardo. Ci fermiamo qui, ma dai direttori scendendo sino alle maschere la Scala è un fenomenale parterre familistico.
Per arrivarci a dirigere, però, ci vuol cosa e cosa… e, forse per questo, la mamma-ministra ha preso la via del Lombardo-Veneto: conquistare prima Venezia e poi, con opportuni traslochi, il sacro tempio della musica colta, la Scala di Milano.
Lo scorso primo gennaio, dopo il concerto di Capodanno alla Fenice, la mamma-ministra dichiarò: “La Fenice costituisce un punto di riferimento della cultura italiana. Oggi l’essere qui è anche un riconoscimento per un evento che viene seguito in tutto il mondo”. Bella forza, alla Fenice, soprintesa dal bravo Fortunato Ortombina, suo figlio è ormai di casa.
Ha esordito nel 2011 in un concerto per l’Unità d’Italia per dirigere poi diverse opere: “Il signor Bruschino” nel 2018, “La scala di seta” (per quella di pietra deve attendere) nel 2019 fino al “Matrimonio segreto” nel 2023 anno in cui lo troviamo impegnato anche il 6 febbraio presso le sale apollinee in un incontro tenuto insieme al regista Luca De Fusco, recentemente catapultato da Genny Sangiuliano alla direzione della Fondazione del Teatro di Roma, tra mille polemiche.
Un’altra accogliente arena dell’Alvise Casellati è sempre nel Veneto felix. E’ l’Arena di Verona, dove era amministratore Gianmarco Mazzi, ora sottosegretario e nume di Sangiuliano per le note. Qui, Alvise, nel 2022 ha diretto nel “Nabucco” uno dei maggiori baritoni italiani, Luca Salsi, ora alla Scala. Forse sembrava troppo fargli dirigere lo scorso concerto di Natale in Senato dove la mamma fu presidente e dove Mazzi, ovviamente, ha portato la “sua” Arena di Verona (ora si ripromette di fare un altro “Concerto di Natale” il 7 giugno).
Se felix è il Veneto e non Milano, ecco l’idea materna di portare Venezia sotto la Madonnina (tipo Napoleone, diciamo), ovvero l’idea di spedire alla Scala il tanto buono e tanto caro sovrintendente della Fenice, Fortunato Ortombina. Le telefonate a ‘’Sangennaro’’ e a Mazzi sono state così insistenti, si dice, che il ministro della Cultura ha telefonato a sua volta al sindaco Beppe Sala (che di diritto è il presidente della Scala) suggerendo il nome di Ortombina come successore di Meyer.
Ma i danée per mandare avanti la baracca, oltre allo Stato, non ce li mette Sala (che, anzi, toglierebbe volentieri quelli del Comune) bensì il suocero di Sala, sua santità Abramo Bazoli, nume tutelare e unico di Intesa Sanpaolo. Ovviamente Lady Maria Elisabetta Alberti, coniugata Casellati, ha chiesto di incontrare il Grande Vecchio della Scala. Purtroppo, verso Brescia, dove abita la dinastia Bazoli, la linea telefonica della Casellati non prende.
Il presidente emerito di Banca Intesa, un saggio novantunenne che ha sempre detestato quell’intreccio politico del pecoreccio romano che scambia la prima dell'”Ernani” con la prima di Armani, confonde il Parmigianino con il pecorino, e rifiuta l’Ultima Cena di Leonardo perché hanno già mangiato, incarna l’ultimo baluardo di quella Grande Borghesia lombarda che si celebrava occupando i palchi della Scala.
Sul fondo c’era Arnoldo Mondadori, ed aveva come custodi a destra Angelo Rizzoli e a sinistra Edilio Rusconi. Da quest’altra parte si poteva ammirare Giovambattista Falk e Giovanni Pirelli, là al centro Angelo ed Erminia Moratti, e accanto i Borghi e i Radice Fossati; davanti a tutti troneggiava Annibale Brivio Sforza nel suo ruolo di intercettatore dell’aristocrazia lombarda. Il palco, poi, diventava proscenio all’arrivo dei Crespi, proprietari del Corriere della Sera.
Tutto finito. Oggi, nella città più amata da Stendhal, troneggianti sul palco reale, ti ritrovi Ignazio La Russa e Gennarino Sangiuliano, Vittorio Sgarbi e Daniela Santaché, con l’agitatissima Lady Casellati che non molla il sogno di vedere il suo pupone, bacchetta in mano, alla guida dell’orchestra scaligera e racconta agli amici di avere nel cda della Scala già il consenso di Fedele Confalonieri.
Coma mai tanta agitazione dal momento che il sovrintendente Dominique Meyer e il Cda della Scala scadono esattamente tra un anno? Perché i giochi si fanno adesso (anzi, per il sovrintendente in affiancamento siamo pure in ritardo). Una decisione che è nelle manine del
Cda della Scala che oggi è così composto: il presidente di diritto, il sindaco Beppe Sala (“coniugato’’ Bazoli), più nove membri:
Francesco Micheli e Maitè Carpio Bulgari di nomina ministeriale (il ministero della Cultura sgancia circa 30 milioni all’anno alla Scala), il pianista-pubblicista Nazzareno Carusi di nomina della Regione Lombardia, Alberto Meomartini per la Camera di Commercio e poi i privati: Giovanni Bazoli (Banca Intesa), Giacomo Campora (Allianz), Claudio Descalzi (Eni), Aldo Poli (Banca del Monte di Lombardia), oltre al sovrintendente in carica.
La commissione che deve suggerire al sindaco il prossimo sovrintendente è composta da Bazoli, Micheli e Meomartini. Inoltre, come succede in tutti i teatri d’opera al di là delle Alpi, si vuole procedere con una “doppia” nomina: sovrintendente e direttore musicale. Dato per impossibile che Sangiuliano rinnovi i due consiglieri nominati dal predecessore Dario Franceschini, Micheli e Bulgari, la nuova egemonia culturale fazzolara se la dovrà vedere con la Milano calvinista del “Qui, non si usa” che ancora deve digerire l’ingresso di Geronimo La Russa nel cda del Piccolo Teatro, secondo sacro tempio della cultura meneghina.
Alvise Casellati non è l’unica casella che balla nel Minculpop musical-meloniano. Altri musicanti si fanno avanti. Della Venezi e del suo lato B(ioscalin) ormai tanto si è detto. Pare che, a microfoni spenti, anche i musicisti dei Pomeriggi musicali di Milano, dove la biondissima ha diretto la scorsa settimana, abbiano dichiarato che “sul palco lei non dirige, balla”. Cioè, non anticipa, segue.
Nel grande walzer del post-amichettismo dei compagni anche altri si sono lanciati o si stanno lanciando, sebbene per ora la Meloni si fidi solo dei camerati di lunga appartenenza (Giuli, Buttafuoco…): questo è il curriculum richiesto.
Alberto Veronesi è il direttore d’orchestra divenuto famoso per aver diretto bendato (a occhi chiusi) la scorsa inaugurazione del Festival pucciniano in segno di protesta contro la regia “non tradizionale”.
Nel settembre 2020 questo figlio del professor Umberto, soprannominato dai maligni “Tanto tumore per nulla”, era parte integrante dell’amichettismo di sinistra. “Caro Salvini – scriveva Veronesi nel 2020 – davvero vuoi farci credere che la Lombardia di Attilio Fontana si un modello preferibile alla Toscana di Enrico Rossi?”.
Ai tempi, Veronesi era candidato con il Pd in Toscana e prima aveva sostenuto Beppe Sala per la corsa a sindaco di Milano (se ne ricorderà?). Poi, oplà, con un primo walzer si candida a Lucca sostenuto dal Terzo polo. Quindi, doppio passo e alle scorse regionali in Lombardia si è candidato con Fratelli d’Italia per il rinnovo di Attilio Fontana. Trombato. “Non sono un politico di professione – dichiarò allora -. Sono un direttore di orchestra e mi ritengo libero: la libertà va tutelata”. Libertà va cercando, ma anche un posto dove sedersi a lui più adatto del podio. Lo prenderebbe anche bendato, a occhi chiusi.
L’abruzzese Nazareno Carusi, pianista di buon talento, divenne all’improvviso il ventriloquo dell’ex critico musicale di “Giornale” e “Corriere” Paolo Isotta, sino ad imitarne così bene lo stile dotto e artificioso tanto che i maligni sostenevano fosse l’Isotta stesso l’autore. Isotta, omosessuale di destra cacciato dalla Scala per i suoi comportamenti, era ancora l’aedo di Riccardo Muti (prima di rivoltarsi contro) e per specularità lo divenne anche Carusi.
Muti lo ricompensò e non si vergognò di definire Carusi “pianista di altissimo valore”, per non parlare di Isotta, che lo riteneva l’erede della scuola russa, praticamente Arthur Rubinstein. Lanciato nientedimeno che dal programma di Mediaset Mattino Cinque, nel 2018 Carusi – nonostante ‘si grandi apprezzamenti – pensò bene di ritirarsi dall’attività concertistica (nessuno se ne accorse).
Fu allora che il corregionale Gianni Letta lo lanciò nel management culturale. Carusi divenne membro del comitato artistico della Filarmonica e poi il grande balzo: la Scala. Non come pianista – questo ce lo siamo risparmiati –, ma come consigliere di amministrazione, sebbene non di nomina governativa perché al Governo c’era Franceschini. Fu chiesto alla fontaniana Regione Lombardia, che nomina un membro nel Cda del Piermarini. E lì si trova in speranza di un destro rinnovo o di una direzione artistica.
(da Dagoreport)
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Febbraio 4th, 2024 Riccardo Fucile
SASSI E GRATE SFONDATE, LACRIMOGENI: LA RESPONSABILITA’ E’ DI CHI LI HA TRAMUTATI IN CARCERI INDEGNE E SOVRAFFOLLATE
Tensioni e proteste sono in corso al Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio) di Ponte Galeria dopo il suicidio di un ragazzo di 22 anni. Ousmane Sylla, originario della Guinea, è stato trovato impiccato con un lenzuolo a una grata intorno alle 6 di questa mattina.
Sul posto è intervenuta la Polizia di Stato. Sono state acquisite le immagini registrate dalle telecamere di videosorveglianza della struttura alle porte di Roma.
Poco dopo alcuni ospiti hanno sfondato 2 grate di ferro poste all’ingresso della parte anteriore del centro; nella parte posteriore, invece, hanno cercato di sfondare una porta di ferro. Gli stessi hanno altresì tentato di incendiare una macchina coi colori di istituto, posta all’esterno a chiusura della porta di ferro. Dal momento che gli ospiti stavano lanciando pietre contro il personale dipendente sul posto e stavano per uscire dalla struttura, sono stati lanciati alcuni lacrimogeni.
Sul posto si è recato Riccardo Magi: “Sono qui a Ponte Galeria da un paio d’ore, avendo saputo che c’era stata la morte di un ragazzo di 22 anni, che si è suicidato impiccandosi. Era arrivato qualche giorno fa dal Cpr di Trapani, dove era stato dalla metà di ottobre – racconta il deputato e segretario di +Europa – Venerdì era stato visto disperato da alcuni operatori. Piangeva, riferiva che voleva tornare nel suo Paese perché aveva lì due fratelli piccoli di cui occuparsi, altrimenti avrebbero sofferto la fame. Era affranto, disperato per questo. Ha lasciato sul muro un ritratto di sé stesso, con sotto un testo in cui ha scritto che non resisteva più e sperava che la sua anima avrebbe risposato in pace. Da altri detenuti del settore 5 del Cpr è stato visto pregare intorno alle 3 e poi, poco prima della 5, è stato visto impiccato alla cancellata esterna del reparto”. Conclude Magi dopo aver parlato con la dirigenza del Cpr con infermieri, forze di polizia e altri detenuti.
Ilaria Cucchi: “La procura faccia chiarezza”
“Vengo a conoscenza di un’ennesima morte nel Cpr di Ponte Galeria, a Roma: la vittima sarebbe un ragazzo nigeriano”, commenta la senatrice Ilaria Cucchi (Avs), vicepresidente della Commissione Giustizia di Palazzo Madama. “Mesi fa feci un esposto alla procura di Roma, proprio su quella struttura, dopo averla visitata con una telecamera nascosta – aggiunge – Depositai l’esposto e le immagini video sulle condizioni del centro che avevo raccolto. Venni poi ascoltata dal magistrato e non ho ebbi più notizie. Invito la procura di Roma a fare chiarezza su quanto avvenuto questa notte e in generale sulle condizioni di vita in quel Cpr. Perché queste morti non devono più accadere”.
(da agenzie)
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Febbraio 4th, 2024 Riccardo Fucile
“ERA DISPERATO, PIANGEVA, PENSAVA AI FRATELLI PICCOLI”… COME SI AD ESPELLERE UN GIOVANE DELLA GUINEA SE LA GUINEA NON ACCETTA RIMPATRI? CE LO SPIEGHI PIANTEDOSI
Ventidue anni della Guinea, rinchiuso nel Cpr di Ponte Galeria a Roma in attesa di un rimpatrio impossibile visto che con il suo Paese di origine l’Italia non ha alcun accordo.
Lo hanno trovato impiccato con le lenzuola alle sbarre della finestra, sul muro, scritto con un mozzicone di sigaretta, l’ultimo desiderio: “Vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa”.
Un suicidio che ha scatenato la furia dei migranti detenuti che hanno tentato di sfondare una porta in ferro, lanciato sassi contro il personale e tentato di incendiare un’auto. Il motivo delle proteste sarebbe legato al sovrannumero delle presenze e ai trattamenti definiti dagli ospiti “poco dignitosi”.
“Sono qui al Cpr di Ponte Galeria da un paio d’ore, avendo saputo che c’era stata la morte di un ragazzo di 22 anni, che si è suicidato impiccandosi. Era arrivato qualche giorno fa dal Cpr di Trapani, dove era stato dalla metà di ottobre. Venerdì era stato visto disperato da alcuni operatori. Piangeva, riferiva che voleva tornare nel suo Paese perché aveva lì due fratelli piccoli di cui occuparsi, altrimenti avrebbero sofferto la fame. Era affranto, disperato per questo. Ha lasciato sul muro un ritratto di sé stesso, con sotto un testo in cui ha scritto che non resisteva più e sperava che la sua anima avrebbe risposato in pace.
Da altri detenuti del settore 5 del Cpr è stato visto pregare intorno alle 3 e poi, poco prima della 5, è stato visto impiccato alla cancellata esterna del reparto -, racconta il deputato e segretario di +Europa Riccardo Magi – I detenuti ci hanno parlato delle condizioni infernali che si vivono in questo centro, da un punto di vista sanitario, d’igiene e di alimentazione. Molti compiono atti di autolesionismo: quello che è più frequente è che si fratturano gli arti, le caviglie o le gambe, in modo da essere portati via per essere medicati”.
Un altro morto nei centri per il rimpatrio italiano in condizioni sempre più precarie e disperate.
(da agenzie)
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Febbraio 4th, 2024 Riccardo Fucile
NECESSITANO MECCANISMI LEGALI CE SOSTENGANO SIA I VALORI EUROPEI CHE COLORO CHE SOFFRONO SOTTO IL REGIME
David Koranyi è presidente di Action for Democracy, un movimento globale senza scopo di lucro a favore della democrazia. In precedenza è stato sottosegretario di Stato e capo per la politica estera e consigliere per la sicurezza nazionale del primo ministro della Repubblica d’Ungheria, Gordon Bajnai, e consigliere senior per la diplomazia cittadina di Gergely Karácsony, il sindaco di Budapest.
Il primo ministro ungherese da tempo mette alla prova i limiti dell’UE e della NATO. La sua tattica nei vari Consigli Europei e il deliberato ritardo dell’approvazione di un pacchetto di aiuti da 50 miliardi di euro all’Ucraina hanno frustrato i leader dell’UE e lo hanno lasciato isolato. La sua inspiegabile ostinazione contro l’adesione della Svezia alla NATO non ha alcun senso e l’Ungheria è l’ultimo Stato membro che deve ancora ratificare la richiesta di Stoccolma, nonostante innumerevoli rassicurazioni che vanno nel senso opposto.
Il suo comportamento su ogni dossier è stato meschino nella migliore delle ipotesi, sinistro nella peggiore e lascia intendere una notevole influenza da parte del Cremlino. E non è il primo caso di intransigenza a favore degli interessi russi che Orbán adotta sulla scena internazionale. Negli ultimi due anni, infatti, il premier ungherese è rimasto a bordocampo e ha minacciato di bloccare le sanzioni europee contro la Russia e i principali alleati di Putin.
Ha messo alla prova più volte la pazienza dei suoi alleati europei e, peggio ancora, si è disallineato dal blocco UE, legando direttamente l’Ungheria all’energia russa e dando voce alla propaganda del Cremlino. In ogni fase, le sue mosse hanno violato il consenso europeo e quello transatlantico, manipolando il processo decisionale del blocco e minando gli interessi di sicurezza collettivi dell’Occidente.
Alcuni hanno suggerito che l’autoproclamato “combattente di strada” sia ubriaco di potere, avendo ottenuto una vittoria schiacciante nelle elezioni parlamentari del Paese nel 2022. In un contesto di un’opposizione politica fratturata e di riforme interne che favoriscono il partito Fidesz di Orbán, è corretto affermare che ora il primo Ministro può fare come vuole, senza ripercussioni. Con un ego esagerato, Orbán ha affrontato gli impegni con l’UE con una visione smisurata della propria importanza: l’attacco a Bruxelles è ormai una routine, e la politica dell’UE viene abitualmente etichettata come una “parodia”. Eppure è Orbán ad essere solo in Europa, non gli altri Paesi membri.
Per più di un decennio, l’UE si è distinta nel ritardare l’azione contro il comportamento sempre più autocratico di Orbán. Ma, in tempo di guerra, la minaccia posta da Orbán sta diventando insostenibile e pericolosa per la sopravvivenza stessa dell’UE. L’Europa non dovrebbe più cedere al ricatto di Orbán, ha gli strumenti per farlo. È ora di smettere di far andare il mondo alla rovescia.
Questa settimana, in un altro confronto, Orbán ha finalmente ceduto nella sua opposizione al pacchetto finanziario per l’Ucraina. Nonostante la sua grandiosità, ha dovuto rinunciare praticamente a tutte le sue richieste: alla sua futura richiesta di diritto di veto, optando per una relazione annuale più sensata e un dibattito tra i leader sull’attuazione del pacchetto di aiuti.
Il leader ungherese ha ottenuto una revisione, inizialmente preoccupante, delle conclusioni del 2020 della Commissione Europea sulla conformità degli Stati membri allo stato di diritto dell’UE. Questa nuova “garanzia”, su come lo Stato di diritto dovrebbe essere valutato dalla Commissione Europea, afferma ora che tutto il lavoro dovrebbe essere svolto in “maniera equa e obiettiva”, e lascia aperta l’accusa che, fino ad oggi, la Commissione non abbia agito in buona fede.
Dobbiamo sperare che si tratti solo di un altro esempio di creatività verbale da parte dell’UE, e non di un ammorbidimento delle regole precedentemente accettate. Dovrebbe essere spiegato a Orbán che con la sua tattica ricattatoria non può ottenere ulteriori concessioni né compromessi machiavellici, ma solo maggiori punizioni. Il meccanismo di condizionalità dovrebbe essere applicato rigorosamente, subordinando qualsiasi erogazione di fondi UE non solo agli impegni sulla carta, ma soprattutto alle riforme effettive.
Aspettare di vedere se le riforme giudiziarie formalmente adottate, che Orbán ha accettato con riluttanza per sbloccare i fondi UE congelati, saranno implementate, sarebbe un buon inizio. Queste misure mirano a rafforzare l’indipendenza dei giudici, aumentando i poteri del National Judicial Council e riformando il funzionamento della Corte suprema, al fine di limitare i rischi di influenza politica.
La revoca della Sovereignty Protection Law, recentemente adottata e ispirata da Putin, dovrebbe essere un’altra richiesta fondamentale. Nel frattempo, i fondi dell’UE dovrebbero essere convogliati direttamente al popolo, alle imprese e alle amministrazioni comunali ungheresi. Aggirare il governo di Orbán potrebbe privarlo della sua capacità di dipingere sé stesso e l’Ungheria come vittime. Infine, dovrebbe essere concretamente presa in considerazione la possibilità del ricorso all’articolo 7, che priverebbe Orbán dei suoi diritti di voto.
Il continuo comportamento divisivo di Orbán e il totale disprezzo dei valori dell’UE devono essere affrontati con un’azione ferma, sia a beneficio dell’Europa che dei Comuni ungheresi, che stanno assistendo al crollo della democrazia e delle alleanze internazionali. Non si può continuare a rimandare il problema: il ricatto di Orbán richiede una risposta ferma, attraverso meccanismi legali che sostengano i valori dell’UE e coloro che soffrono sotto il regime di Orbán. Tutto questo è nell’interesse sia europeo che nazionale ungherese.
(da agenzie)
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Febbraio 4th, 2024 Riccardo Fucile
GRAZIE AI DRONI LE INFRASTRUTTURE ENERGETICHE E MILITARI DEL CREMLINO SONO DIVENTATE VULNERABILI
L’attacco alla raffineria di petrolio russa della Lukoil a Volgograd, rivendicato dai servizi di intelligence di Kiev, è l’ultima conferma di un cambio radicale della strategia militare ucraina: ridurre al minimo le perdite costruendo e potenziando una “difesa fortificata”, e massimizzare i danni lanciando attacchi in profondità in Russia diretti alle infrastrutture petrolifere, all’industria militare e alla sua logistica.
È la riedizione quasi speculare della strategia russa dello scorso inverno: una linea fortificata impenetrabile a Sud, la “Surovikin”, e continui attacchi alle infrastrutture energetiche e alla logistica militare ucraina. Con una importante differenza: Mosca puntava anche a tenere al gelo i civili ucraini per fiaccarne il morale, Kiev ha un obiettivo diverso.
Nelle ultime settimane gli ucraini hanno colpito duramente due volte le raffinerie Nevsky Mazut a San Pietroburgo, infliggendo danni ingenti alle strutture e alla produzione. Depositi di carburante a fuoco in Crimea sono ormai un spettacolo pirotecnico piuttosto frequente, e ora il nuovo colpo a segno alla raffineria Lukoil è contemporaneamente la prova della capacità acquisita da Kiev di colpire obiettivi a molte centinaia di chilometri dal confine, ma anche la testimonianza della difficoltà per i russi di difendere le proprie infrastrutture con un’efficace contraerea. È una notevole evoluzione paragonabile per importanza ai successi sul fronte del mare, dove l’acquisizione di nuove tecnologie e capacità ha messo in seria difficoltà la flotta russa fino a farle perdere il controllo dello spazio marittimo. Gli ucraini hanno colpito 13 navi su 70 dislocate nel Mar Nero, costringendo le superstiti ad allontanarsi dalle coste della Crimea.
La potenza dei droni
Anche sui droni il miglioramento tecnico e tattico è impressionante. La raffineria di Volgograd, così come quella di San Pietroburgo, è stata attaccata e messa ko da due soli droni. I servizi ucraini ormai rivendicano ufficiosamente queste operazioni spiegandone la portata: “L’incendio in una delle più grandi raffinerie di petrolio della Russia, a Volgograd, è il risultato di un attacco riuscito da parte della Sbu – hanno detto fonti dei servizi a Rbc – che continua a distruggere sistematicamente le infrastrutture utilizzate dalla Russia per la guerra in Ucraina. Colpendo le raffinerie di petrolio, che lavorano per il complesso militare-industriale russo, non solo tagliamo la logistica delle forniture di carburante per le attrezzature nemiche, ma riduciamo anche la capacità della Russia di rimpinguare il suo bilancio”. Il doppio del danno, economico e di approvvigionamento militare, con un uso limitatissimo di risorse: due soli droni.
Questi attacchi “sono un vero precedente e allo stesso tempo un fallimento della difesa aerea russa: i nostri droni – ha spiegato al canale Tv24 Roman Svitan, colonnello riservista e pilota istruttore – possono coprire una distanza di oltre mille chilometri dal confine. E se occorrono un centinaio di droni per distruggere un grande impianto di produzione militare, la produzione di carburante può essere eliminata con due soli droni: il primo apre la strada, l’altro dà fuoco al carburante. Questo ci consente di risparmiare i droni, che sono una risorsa ancora piuttosto limitata”.
Le stragi di civili
Nel frattempo, mentre si blinda nella “linea Zelensky” con trincee, bunker e campi minati, Kiev colpisce le immediate retrovie a Belgorod e nel Donbass occupato da cui partono gli attacchi russi. Il costo umano però drammatico in termini di civili uccisi: nelle ultime settimane ne sono morti almeno 25 nella strage al mercato di Donetsk, e almeno 20 in quella di ieri nella panetteria di Lisichansk. Ma se questo genere di attacchi nelle retrovie fa parte della guerra di attrito nelle trincee e della lotta contro la logistica militare avanzata, è a distanza che avvengono le novità più importanti. Si moltiplicano colpi molto eterogenei: solo negli ultimi giorni, a Mosca è andata a fuoco una centrale termoelettrica, ed è stato ucciso il comandante di un aereo bombardiere che ha ripetutamente sganciato missili in Ucraina. Qui non c’entrano i droni: Kiev lascia intendere che siano operazioni partigiane, e che anche queste fanno parte della strategia.
Obiettivo Crimea
L’altra direzione di tiro resta la Crimea, e non è un caso: il 30 gennaio è stata distrutta una stazione radar del sistema di difesa aerea russo a Razdolnoye, mentre un Su-34 è stato abbattuto nel Lugansk occupato. Nell’aeroporto Belbek, sempre nella Crimea occupata, gli ucraini hanno colpito “almeno tre aerei militari russi”. È il nuovo filone che avrà quasi certamente sviluppi: la battaglia per togliere ai russi il controllo dello spazio aereo come è stato fatto per lo spazio marittimo nel Mar Nero con i droni navali. Bisogna preparare il terreno per quando arriveranno gli F16, e proprio ieri il presidente Zelensky ha annunciato l’arrivo di atri due sistemi di difesa aerea ad alta tecnologia “in grado di abbattere qualsiasi oggetto volante”, anche se non ha dato dettagli per ragioni di segretezza.
Il Wall Street Journal ha contato 62 diversi tipi di droni realizzati attualmente in Ucraina usando anche componenti stampati in 3D. Secondo la pubblicazione russa Verstka, da settembre la superficie di nuovi territori russi potenzialmente sotto attacco è aumentata di 300mila chilometri quadrati. Tra i nuovi obiettivi centrati, il 21 gennaio a Tula è stato colpito lo stabilimento Shcheglovsky Val, che produce sistemi missilistici antiaerei Pantsir-S. Come per gli attacchi alle regioni di Oryol e Smolensk, è opera del “lavoro pianificato della Direzione principale dell’intelligence”.
Se Mosca non è efficiente nel difendere le sue fabbriche strategiche, le lacune sono miele per il capo dell’intelligence militare ucraina, Kirill Budanov: alla Cnn e ad altre testate internazionali ha spiegato che le esplosioni in Russia sono il frutto “di un piano”. E pur senza rivendicarlo, cosa che i Servizi non fanno mai ufficialmente, ha detto di credere “che questo piano includa tutte le principali infrastrutture critiche e le infrastrutture militari della Russia”.
La prossima controffensiva
È questo l’ambito su cui, probabilmente, Victoria Nuland in visita a Kiev ha detto che quest’anno Putin avrà “belle sorprese” dalle forze armate ucraine. La guerra è già entrata in Russia, dice Budanov: “Vedono depositi di petrolio in fiamme, edifici industriali e fabbriche distrutti…”. In primavera, sostiene, quando l’offensiva del nemico sarà “completamente esaurita”, potremo lanciare “una nuova controffensiva”. L’ultima non è andata bene affatto, e questa previsione suona più come propaganda per tenere alto il morale degli ucraini che come realtà. Non è alla riconquista di territorio che si punta, almeno in questa fase della guerra in cui la Russia sta premendo sul fronte con più uomini e più munizioni, anche se con successi per ora molto limitati. L’obiettivo è semmai dimostrare a Mosca che non riuscirà a ottenerne di importanti, e che pagherà invece un prezzo alto perdendo l’illusione di condurre una semplice “operazione speciale” in territorio ucraino senza subire in casa propria il dramma della guerra.
Vasily Malyuk, capo dei Servizi ucraini Sbu, lo ha detto esplicitamente: “Non possiamo rivelare i nostri piani. Devono rimanere uno shock per il nemico. Stiamo preparando sorprese. Gli occupanti – ha detto a Politico – devono capire che non potranno nascondersi. Li troveremo ovunque. Li pungeremo con un ago dritto nel cuore. Ciascuna delle nostre operazioni speciali complica la capacità della Russia di fare la guerra in Ucraina. È la nostra terra, e utilizzeremo tutti i metodi possibili per liberarla”.
(da La Repubblica)
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Febbraio 4th, 2024 Riccardo Fucile
L’IPOTESI DI UN MINI-RIMPASTO DI GOVERNO DOPO LE EUROPEE, CON UNA NUOVA INFORMATA DI SOTTOSEGRETARI
L’Antitrust rende noto il dispositivo al seguito del quale sono scattate le dimissioni di Vittorio Sgarbi da sottosegretario alla Cultura. «Ha esercitato attività professionali in veste di critico d’arte, in materie connesse con la carica di governo, come specificate in motivazione, a favore di soggetti pubblici e privati, in violazione della Legge Frattini sul conflitto di interesse», è il succo del documento. Ed è quanto basta per scatenare le opposizioni e far chiedere al Pd l’intervento del ministro Sangiuliano in Parlamento per chiarire tutta la vicenda. La maggioranza prova a smorzare le polemiche evitando commenti.
«È una sua scelta», dice il ministro degli Esteri Antonio Tajani, mentre il titolare della Cultura, Gennaro Sangiuliano sceglie il silenzio. Il Pd con Irene Manzi chiede che il titolare della Cultura spieghi in Parlamento «i criteri con cui ha attribuito le deleghe al sottosegretario essendo il ministro a conoscenza della pletora di incarichi e delle numerose posizioni in istituzioni culturali in capo al dimissionario Sgarbi, puntualmente elencate nella delibera».
Duro anche il leader M5s Giuseppe Conte che se la prende direttamente con la premier Meloni, rea a suo dire, di non essere intervenuta per porre fine ad una situazione che ha «danneggiato l’immagine dell’Italia». Parole contro cui si scaglia l’ormai ex sottosegretario alla Cultura: «Conte – dice Sgarbi – è un professore senza titoli e senza merito, con un curriculum pornografico».
Al netto delle polemiche, chi considera ormai chiusa la vicenda è proprio la presidente del Consiglio. Una volta che le dimissioni saranno ufficiali, Meloni deciderà cosa fare anche se, è il sentore della maggioranza, la sostituzione di Sgarbi (uno dei candidati in pole è Ilaria Cavo di Noi Moderati) potrebbe non essere così immediata, ma magari rientrare in un pacchetto più ampio di messa a punto della squadra di governo. Casomai dopo le elezioni europee.
Sul tavolo di Palazzo Chigi infatti sarebbero arrivare anche altre richieste, dal Mef e dal ministero dell’Università, di avere un sottosegretario in più. Nulla di deciso, ma solo una serie di ragionamenti, a cui si somma anche l’eventualità che per un seggio a Strasburgo possano correre anche alcuni ministri oppure che dalla squadra di governo possa essere pescato il nome che l’Italia indicherà come futuro commissario europeo.
(da La Stampa)
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Febbraio 4th, 2024 Riccardo Fucile
“OLTRE A CERCARE UNA MIGLIORE RETRIBUZIONE, LE PERSONE SONO A CACCIA DI UN MIGLIOR EQUILIBRIO TRA LAVORO E VITA PRIVATA. NON È AFFATTO VERO CHE UN’AZIENDA È COME UNA FAMIGLIA. BISOGNA STARE MOLTO ATTENTI A TRATTENERE LE PERSONE A BORDO”
«C’è stato un ribaltamento del concetto domanda e offerta di lavoro. Ora le aziende devono imparare a essere attrattive e i lavoratori devono raccontarsi». Parola di Linkeidn. O meglio, di Marcello Albergoni «country manager», cioè il capo italiano del social media del lavoro che – tra persone e aziende – conta circa 19 milioni di iscritti in Italia e attorno al miliardo, in tutto il mondo.
Il suo osservatorio offre una visione a 360 gradi. Non soltanto in termini virtuali, poiché la sede di Linkedin, al diciannovesimo piano in Porta Garibaldi, è inondato dalla luce che entra dalle vetrate affacciate sui quattro punti cardinali. Ci lavorano una quarantina di persone, ma se non fosse per qualche postazione classica, cioè scrivanie e computer, non sembrerebbe neanche un ufficio, ma piuttosto un luogo di intrattenimento: strumenti musicali, biliardino e ping pong, biciclette a disposizione di chi le vuole usare, spogliatoio con docce, divani di ogni forma, un’ampia «cucina» che sembra un locale strappato alla movida della zona Garibaldi, e poi salette insonorizzate per concentrarsi, fare riunioni o rilassarsi, anche con giradischi e vino.
Eppure, qui il lavoro è il core business, la stessa ragion d’essere di tutto questo bendidio. E vale la pena intercettare lo sguardo di chi guida l’enorme piattaforma di incontri tra domanda e offerta.
Albergoni, qual è lo scenario del lavoro, visto da qui?
«Si muove, anche se lo scorso anno si è un po’ raffreddato, con un calo del 18,9% nelle assunzioni rispetto al 2022, ma le aziende continuano ad aver necessità di portare a bordo persone».
E allora come mai c’è stato quel calo?
«Innanzitutto, i numeri erano ancora esposti ai rimbalzi del post-pandemia, con aziende che avevano evidentemente imbarcato troppe persone, mentre altre che erano alla ricerca hanno dovuto fare i conti con una propria incapacità di incontrare le figure necessarie».
Eccoci al punto: come funziona questo incontro, che negli ultimi tempi sembra diventato più complicato, nonostante le piattaforme e i database.
«Potremmo dire che si tratta di un racconto reciproco, ciascuno deve avere il gusto di portare alla luce le sue bellezze. Chi cerca un lavoro deve dire chi è, parlare di sé, farsi conoscere. Più che il titolo di studio o di lavoro, deve mettere in evidenza le sue competenze, le tante cose che sa fare e che conosce, anche perché sono in rapida evoluzione e le aziende cercano proprio quelle, non il job title. E da parte loro, le imprese devono risultare attrattive, pulite, consapevoli del ribaltamento del concetto di “offerta di lavoro”.
Questo, almeno, è ciò che spieghiamo ai nostri clienti: dall’amministratore delegato in giù, bisogna creare un ambiente che piaccia. Anche perché i dati della nostra ultima ricerca dicono che 6 lavoratori su 10, cioè il 61 per cento stanno valutando nuove opportunità».
Perché?
«La principale motivazione è sicuramente la possibilità di un aumento di retribuzione, come dichiarato dal 34 per cento degli intervistati, ma subito dopo, al 23 per cento, c’è la ricerca di una migliore work-life balance, cioè di una qualità delle giornate in equilibrio tra vita e lavoro. E sono soprattutto le donne a spingere questa dinamica».
Ma ci sono competenze più richieste di altre.
«I dieci lavoratori emergenti, cioè con la crescita maggiore negli ultimi cinque anni, sono: addetto allo sviluppo commerciale, ingegnere dell’intelligenza artificiale, analista Soc, sustainability specialist, cloud engineer, data engineer, responsabile acquisti, cyber security engineer, consulente cloud e fiscalista. Ma tutto è in continuo mutamento».
E poi ci sono le persone che lasciano il lavoro, la cosiddetta «Great resignation». Pochi giorni fa, una ragazza di 27 anni ha raccontato al Corriere.it di aver lasciato il suo lavoro senza averne un altro perché si sentiva sola in una situazione di non governo da parte dell’azienda. È un atteggiamento ricorrente?
«In Italia, almeno nei numeri, il fenomeno è molto meno evidente rispetto agli Stati Uniti. Diciamo, però, che si è posto con evidenza un tema per le aziende: come non perdere lavoratori faticosamente trovati e poi formati. Non è affatto vero che un’azienda sia come una famiglia, e proprio per questo bisogna stare molto attenti per poter trattenere le persone a bordo».
(da agenzie)
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Febbraio 4th, 2024 Riccardo Fucile
ORA AL MINISTERO RIFIATANO: “IL PROFESSORE SI PRESENTAVA A LAVORARE NON PRIMA DELLE 4 DEL POMERIGGIO E USCIVA ANCHE DOPO LE 3 DI NOTTE”
Al Collegio Romano, la sede dei Beni Culturali, dopo l’addio di Sgarbi rifiatano i commessi, la guardiania, gli autisti. Raccontano che «il professore si presentava a lavorare non prima delle 4 del pomeriggio e capitava che uscisse dopo le 3 di notte. O che al termine delle sue cene romane chiedesse all’improvviso di partire per Torino…».
Il giorno dopo è il giorno dei veleni. Vittorio Sgarbi ieri ha ricevuto una lettera dall’amico scrittore Biagio Riccio, napoletano come il ministro Gennaro Sangiuliano che lui però nella missiva paragona al «Corvo di Palermo» che osteggiò Falcone: «Sangiuliano è pervaso dall’invidia — scrive Riccio solleticando non poco l’ego dell’amico — non sopporta Sgarbi, ne soffre la sua indiscutibile possanza culturale».
Di sicuro tra Sangiuliano e il suo ex ormai sottosegretario i rapporti sono stati sempre burrascosi. I due non si parlano più da 5 mesi, da quando cioè è scoppiato il caso del dossier anonimo pubblicato dal Fatto sulle presunte consulenze extra di Sgarbi. Dossier che Sangiuliano, dopo aver ascoltato il parere degli avvocati del ministero, trasmise all’esame dell’Antitrust.
Ma la verità è che cominciarono a litigare quasi subito dopo la nomina di Sgarbi, il 31 ottobre 2022. Il critico d’arte dava del «formalista» al ministro, «maniaco estremo dei regolamenti»; Sangiuliano da parte sua non sopportava «l’insofferenza per le regole» dell’altro. Scontri sulle nomine: dal Padiglione Italia di Venezia al Centro per il libro e la lettura.
Feroce la contrapposizione sui musei gratis: per Sgarbi un dogma, ma non per Sangiuliano che fece pagare il biglietto per il Pantheon (5 euro) pure a Elon Musk.
A giugno scorso, poi, ci fu il tremendo scivolone sessista al Maxxi di Roma durante una serata con Morgan. Il cantante chiese al sottosegretario: «Hai letto più libri o fatto l’amore con più donne? Qual è il tuo record?». E Sgarbi, pronto: «Gli osservatori dell’Osce, nel momento in cui ero attivo, valutavano anche 9 al mese. Quindi 1.500, direi una quota minima di servizio». Scese il gelo in sala.
In una lettera al presidente della Fondazione, Alessandro Giuli, 43 dipendenti, principalmente donne, manifestarono il proprio dissenso. Sgarbi provò subito a rimediare: «Parole scherzose». Ma Sangiuliano, in una lettera aperta, tirò fuori il bazooka: «Sono da sempre e categoricamente lontano da manifestazioni sessiste e dal turpiloquio».
Litigavano pure sul budget annuo (20 milioni) previsto per l’acquisizione d’immobili di pregio. Sgarbi segnalava bellezze ovunque (a Roma, Verona, Venezia) ma Sangiuliano puntualmente lo stoppava: «Vittorio, abbiamo solo 20 milioni, mica 2 miliardi». Un rapporto, insomma, destinato a finir male.
(da Corriere della Sera)
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Febbraio 4th, 2024 Riccardo Fucile
“IL CROLLO CI FA TORNARE UN PAESE DELLA CARITA'”
“Che il Nord sarebbe stato ulteriormente penalizzato dalla nuova misura contro la povertà era prevedibile. Quelli della Lega non se ne erano accorti perché non fanno i conti sulle decisioni che prendono”.
Chiara Saraceno, sociologa e già presidente del nucleo di valutazione sul Reddito di cittadinanza, aveva detto quasi un anno fa che le Regioni settentrionali sarebbero state le più colpite dalla riforma. I primi dati sulla distribuzione territoriale dell’Adi le danno ragione. Al Nord avevamo il 20% dei nuclei beneficiari del Rdc; con l’Assegno di inclusione si è scesi all’11%.
Professoressa Saraceno, qual è la spiegazione di un simile crollo, specie al Nord?
Il motivo è nelle condizioni di accesso diventate molto più stringenti, sia sul piano della configurazione della famiglia, sia dal punto di vista economico. Bisogna verificarlo, ma sospetto che molti beneficiari del Nord fossero senza figli minorenni. Inoltre, i criteri economici, cioè 9.360 euro di Isee e 6 mila euro di reddito, sono solo sulla carta gli stessi del Rdc. Infatti, ora nel conteggio non contano più gli adulti; questo di fatto abbassa la soglia. In poche parole, il figlio maggiorenne e il secondo genitore non contano. Dato che il reddito famigliare era l’elemento che già prima escludeva la gran parte delle famiglie, e date le disuguaglianze territoriali di quel parametro, ora è ancora più facile di prima restare fuori.
Come è possibile che la Lega, così legata all’elettorato del Nord, non se ne sia accorta?
Possibilissimo, perché non fanno i conti delle loro decisioni, anche se a dire il vero pure quelli di sinistra spesso non li fanno. Hanno visto che, secondo le stime, avrebbero risparmiato risorse e questo li ha rassicurati. Ora bisogna vedere se avranno delle proteste, ho sentito che anche a Torino ci sono state contestazioni di famiglie con figli minorenni. Questo meccanismo non è chiarissimo. Nel calcolo del reddito, conta solo un adulto; gli altri adulti vengono considerati solo a certe condizioni. Una famiglia beneficiaria del Rdc con due adulti e un minorenne, anche a parità di condizioni economiche, ora è fuori dall’Adi.
Perché, di fronte a una platea crollata di due terzi, non si registrano grandi tensioni sociali?
Secondo me perché c’è stato un forte effetto di criminalizzazione, delegittimazione, quindi ciascuno ne soffre, protesta con l’assistente sociale, si scarica negli uffici comunali ma queste persone non si sentono legittimate perché temono di essere presi a pesci in faccia se protestassero per strada.
Perché la povertà al Nord è così sottovalutata nel dibattito politico, pur essendoci in quelle Regioni il 43% delle famiglie povere assolute?
Il Nord ha più poveri in valore assoluto perché è più popoloso. L’incidenza sul totale dei residenti, però, è molto più alta al Sud. Una larga fetta della povertà al Nord riguarda gli stranieri. In più, si pensa che al Nord sia più transitoria, magari legata alla perdita del lavoro, ma poi ce la si fa. Non è sempre così.
Qual era la soluzione per non penalizzare i poveri residenti nelle aree settentrionali?
Con il comitato che ho presieduto abbiamo suggerito uno strumento a due livelli; quello nazionale avrebbe garantito un Reddito di cittadinanza uguale per tutti, anche abbassando un po’ l’importo. Il secondo sarebbe stato affidato a livello regionale. Per esempio, l’integrazione per l’affitto potrebbe essere calibrata a livello locale.
A gennaio 2023 1,1 milioni di famiglie prendevano il Reddito di cittadinanza in Italia; ora solo 287 mila prendono l’Adi. Dove sono finite le persone che hanno perso i sussidi?
Qualcuno, vista la ripresa dell’occupazione, avrà superato le soglie di reddito; molti altri saranno finiti nel nero, altri si staranno scaricando sui Comuni, sulla Caritas, sulle varie beneficenze, che infatti dicono di assistere a un aumento del numero di chi si rivolge a loro per pagare l’affitto, le utenze, la mensa. Siamo ritornati un Paese della carità.
Forse a questo governo interessava solo mostrare di aver mantenuto la promessa elettorale dando un taglio netto al sussidio anti-povertà?
È così purtroppo, anche perché su questa linea non c’era solo la compagine di questo governo. Italia Viva voleva proporre un referendum, c’era Calenda e anche dentro al Pd c’erano ambivalenze. La resistenza a ogni modifica da parte dei Cinque Stelle non ha giovato. Il governo Meloni lo voleva abolire, ma si sono accorti che non possono parlare di natalità togliendo l’aiuto a tutti e hanno dovuto fare questo pateracchio, lo ha detto anche l’Ocse che è una fonte non sospetta di sinistrismo.
(da ilfattoquotidiano.it)
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