Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
“SE MELONI VOLEVA RASSICURAZIONI, AVREBBE DOVUTO INIZIARE CON TRE COSE. 1) SCUSARSI PER L’ATTO TERRORISTICO COMMESSO 2) INFORMARSI SU COME STANNO LE VITTIME 3) DIRCI COSA HANNO FATTO LE AUTORITÀ ITALIANE PER IMPEDIRE CHE TORNINO DI NUOVO IN UNGHERIA
Budapest quasi ignora la storia di Ilaria, e non sa che da qui alla prossima udienza del processo mancano ancora tre mesi. La politica, invece, ne dibatte. E nel sottobosco di quella destra che sostiene il governo, si alza la voce degli anti Salis. Attacchi dritti alla premier italiana Giorgia Meloni che ha incontrato Viktor Orban con il quale ha discusso del caso della “terrorista” – come la chiamano qui – l’insegnate di Monza.
Per dire: ieri il sito Kuruc.info, portale di estrema destra molto “vicino” al politico Elod Novàk, ex parlamentare di Jobbik, attacca a muso duro il governo italiano e pubblica un lungo articolo nel quale non risparmia la nostra premier.
Eccolo: «Se Meloni voleva (ottenere) rassicurazioni, avrebbe dovuto iniziare con tre cose. La prima è scusarsi per l’atto terroristico commesso, o almeno dire che è molto dispiaciuta per quanto accaduto. La seconda è informarsi su come stanno adesso le vittime ed esprimere la speranza che ora si siano riprese. La terza è dirci – ma, in caso contrario, Orban dovrà chiederlo – cosa hanno fatto le autorità italiane per impedire che tornino di nuovo in Ungheria quei terroristi che avrebbero potuto uccidere gruppi di ungheresi».
Tradotto: l’atteggiamento della rappresentante del governo italiano è stato arrogante e non ci è piaciuto proprio per nulla. E Orban non deve assolutamente cedere alle pressioni che sono arrivate da Giorgia Meloni.
La parola terrorismo è un mantra (qui come su altri organi di propaganda e informazione). Ilaria, le catene con le quali è stata portata in aula, le condizioni disumane in cui è stata costretta a vivere per mesi dentro quella galera, sono un dettaglio che non interessa e non scalda gli animi di chi si prepara al raduno della destra estrema europea durante il fine settimana che verrà. Basta? Proprio no.
A leggere fino in fondo c’è anche una punzecchiatura al primo ministro Orban, «avrebbe potuto assicurare che il sistema giudiziario in Ungheria è completamente indipendente» e un graffio per l’Europa: «Poiché Bruxelles tiene d’occhio questo settore, la terrorista antifascista di sinistra non deve certo temere un verdetto di parte». Ecco, se fosse per questo e altri blog e siti schierati sulla sponda destra la 39enne potrebbe anche finire ai lavori forzati. È un’esagerazione, ovvio, ma dimostra quanto siano lontane le richieste italiane da quelle della politica fuori da palazzi e ministeri.
Il nostro commento alle tre richieste del portale dei neonazisti ungheresi
1) Non è il governo italiano che deve scusarsi per il caso Salis, è il governo ungherese che dovrebbe sprofondare dalla vergogna per permettere che un raduno neonazista si svolga ogni anno in un Paese Ue.
2) Non è necessario informarsi su come stanno le vittime presunte visto che il referto medico parla di 5 e 8 giorni di prognosi. Tradotto: non si sono fatte un cazzo. Normali scontri che avvenivano anche 40 anni fa senza che nessuno andasse in Questura a fare il piagnino.
3) Invece che preoccuparsi su cosa hanno fatto le autorità italiane per impedire che Salis e compagni tornino in Ungheria, il governo di Orban si preoccupi di cosa fanno loro per impedire che truppe cammellate neonaziste si rechino in Ungheria. Verrebbe meno anche la ragione di scontri con l’estrema sinistra.
Ultima considerazione: il governo italiano ha gli strumenti legali e procedurali per insegnare al governo ungherese come stare al mondo. Il diritto di veto a ogni finanziamento che riguardi l’Ungheria, bloccare i lavori del Parlamento Ue: non deve passare un euro per un governo che viola sistematicamente i valori ispiratori europei. Senza i miliardi Ue sarebbero ancora con le pezze al culo e lì devono tornare. Sperando che Putin getti loro dal balcone un tozzo di pane raffermo.
(da agenzie)
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
IL GOVERNO SI E’ RIFIUTATO DI FORNIRE DEI DOCUMENTI DA ALLEGARE ALLA RICHIESTA PER I DOMICILIARI IN ITALIA O IN AMBASCIATA”… COME AVEVAMO PREVISTO: GOVERNO COLLUSO CON ORBAN E LA SUA FECCIA
È sfiduciato e sconsolato Roberto Salis, padre di Ilaria, la 39enne italiana indagata e detenuta da quasi un anno in Ungheria, al termine dell’incontro avuto al ministero della Giustizia con i ministri degli Esteri e della Giustizia Antonio Tajani e Carlo Nordio. «È andata molto peggio di quanto ci aspettassimo, non vediamo nessuna azione che possa alleviare la situazione di mia figlia», fa sapere l’uomo, che punta il dito contro il governo: «Siamo stati lasciati soli. Abbiamo chiesto due cose, i domiciliari in Italia o in alternativa in ambasciata in Ungheria e entrambe ci sono state negate. Credo che mia figlia resterà ancora per molto tempo in carcere e la vedremo ancora in catene ai processi».
Salis dice insomma di non aver trovato alcuna sponda nelle istituzioni. «Lo Stato italiano non intende fare nulla e ritiene di non voler fornire dei documenti che avevamo chiesto per agevolare il lavoro dei nostri avvocati, perché dicono che sarebbe irrituale e che possa creare dei precedenti», ha ricostruito il padre della militante antifascista.
A questo punto, conclude Salis, «dovremo cercare noi di fare qualcosa. Ora ci sarà carcere a oltranza fino a quando il giudice ungherese avrà finito il processo o ci sarà un’altra situazione. Ma in quel carcere lì si può anche morire».
Nel frattempo il caso di Ilaria Salis è anche al centro del dibattito in plenaria al Parlamento europeo. Intervenendo a nome della Commissione in merito alle condizioni detentive della 39enne, la commissaria Ue ai Servizi Finanziari, Mairead McGuinness, ha precisato che, nonostante le questioni relative alla detenzione siano “di competenza e responsabilità degli Stati membri”, le condizioni di trattamento dei detenuti “non devono violare i diritti fondamentali”
La soluzione degli arresti domiciliari viene caldeggiata anche in Parlamento europeo: “Sarebbe in linea con le conclusioni del Consiglio sulle misure alternative alla detenzione adottate durante la presidenza finlandese nel 2019” ha detto la commissaria McGuinness.
La commissaria ha poi ricordato l’impegno preso da tutti gli Stati membri dell’Ue nel rispettare gli standard stabiliti dal Consiglio d’Europa, in mancanza dei quali verranno “avviate procedure di infrazione”.
Gli standard minimi per garantire il diritto all’equo processo, per cui l’Ue ha adottato sei direttive, includono il diritto all’interpretazione e alla traduzione, il diritto alla informazione e agli atti del caso e la presunzione di innocenza, “da cui deriva il divieto di presentare indagati e accusare persone in tribunale o in pubblico mediante l’uso di misure di costrizione fisica”, ha precisato la commissaria, facendo riferimento alle immagini di Salis in catene nel tribunale ungherese.
(da agenzie)
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
“QUELLO CHE SCOPRIMMO FU CHE L’ITALIA NON AVEVA UN PIANO AGGIORNATO PER AFFRONTARE LE PANDEMIE. L’ULTIMO RISALIVA AL 2006, NEGLI ANNI ERA STATO TAROCCATO: NE CORREGGEVANO SOLO IL FRONTESPIZIO CAMBIANDO LA DATA, NON I CONTENUTI. SE FOSSE STATO AGGIORNATO, AVREBBE POTUTO EVITARE MIGLIAIA DI VITTIME”
Pubblichiamo, per concessione dell’editore Bompiani, un estratto del libro di Sigfrido Ranucci, in uscita il 7 febbraio sigfrido ranucci Sigfrido Ranucci La Scelta Bompiani (324 pp, 20 euro).
Il 22 febbraio 2020 ero a Semiana, in provincia di Pavia, a ritirare il Premio Antimafia 2020 «per le attività istituzionali e professionali in materia di contrasto alle devianze e al malaffare a tutela della collettività». Il riconoscimento arrivava dalla Fondazione Antonino Caponnetto. Due giorni prima a Codogno era scoppiato il caso di Mattia Maestri, il “paziente uno” affetto dal virus del Covid. Mi trovavo a pochi chilometri da quella che era stata appena dichiarata zona rossa.
Grazie a quel premio mi ero trovato a poter raccogliere delle testimonianze sul posto: mi parlarono di ospedali e pronto soccorso affollati, di casi di polmoniti anomale, di pazienti anziani che morivano uno dopo l’altro, di camere mortuarie stracolme. Rientrando in autostrada ero rimasto folgorato da un pensiero: se il virus era arrivato in quel piccolo paese sperduto della Lombardia, l’Italia intera doveva essere già infetta senza averne la consapevolezza.
In pochi minuti, fissando il guardrail che correva senza fermarsi mai, capii che dovevo compiere una scelta. Non sempre la vita procede dritta come pensiamo o come vorremmo, a volte ci pone davanti a bivi ineludibili. Chiamai la redazione per convocare una riunione urgente.
La messa in onda di Report era programmata per la fine di marzo, gli inviati avevano già quasi chiuso le inchieste preparate nei due mesi precedenti. Bisognava buttare il lavoro fatto fino a quel momento, ma d’improvviso sentivo che il Paese che ci saremmo trovati a raccontare non sarebbe stato più quello di prima (…) La prima puntata per rispettare i tempi della messa in onda aveva mobilitato i dieci inviati, ognuno con il compito di fare una decina di minuti a testa su argomenti che avevo scritto solo su carta e che non sapevamo a cosa avrebbero portato.
Ne scaturirono inchieste di grandissima profondità, capaci di mettere in discussione le indicazioni dell’OMS (evidenziando le relazioni tra il segretario generale Tedros Adhanom Ghebreyesus e il partito comunista cinese), il ministero della sanità, le decisioni del Comitato tecnico scientifico, la sanità privata.
Quello che Report scoprì e che fece il giro del mondo fu che l’Italia non aveva un piano aggiornato per affrontare le pandemie. L’ultimo risaliva al 2006, negli anni era stato taroccato: ne correggevano solo il frontespizio cambiando la data, non i contenuti. E invece, se fosse stato aggiornato, avrebbe potuto evitare migliaia di vittime. Non è un caso che alla fine della pandemia l’Italia sia stata tra i paesi che in rapporto alla popolazione hanno contato più morti.
Quella del racconto della pandemia con gli italiani chiusi in casa ad aspettare il lunedì sera per conoscere la verità su quello che stava accadendo è stata una stagione cruciale nella storia di Report. È stata la stagione dei record di ascolti, ma anche una stagione faticosissima per la delicatezza dei temi affrontati e per via degli attacchi infidi e violenti di cui fummo oggetto, che mirarono addirittura a sostituirmi alla conduzione del programma e togliermi la nomina di vicedirettore.
(da “La Stampa”)
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
L’UNIONE È STATA OFFICIATA DA ALESSANDRO LIMIDO, CAPO DEI NEONAZISTI DELLA “COMUNITÀ MILITANTE DEI DODICI RAGGI” AL CENTRO DI SVARIATI PROCEDIMENTI PENALI PER DIFFAMAZIONE AGGRAVATA E APOLOGIA DI FASCISMO
Il matrimonio è stato officiato in municipio a Varese dal capo dei neonazisti della «Comunità Militante dei Dodici Raggi», Alessandro Limido, al centro di svariati procedimenti penali. Lo sposo, militante Do.Ra., ha fatto il saluto romano dal balcone di fronte ai giardini Estensi, e gli invitati in cortile hanno risposto allo stesso modo, a braccio teso.
È quanto è successo a Palazzo Estense, sede del Comune di Varese, sabato 3 febbraio, alle nozze di un militante «Do.Ra», noto gruppo dichiaratamente neonazista con base ad Azzate, vicino al capoluogo prealpino, gruppo che nel 2017 fu al centro di un’inchiesta della Procura di Busto Arsizio per «ricostituzione del partito fascista».
In città il fatto non è passato inosservato, e il video ha cominciato a girare sui social.
A celebrare il matrimonio Alessandro Limido, riconosciuto come capo dei Do.Ra., 44enne al centro di svariati procedimenti penali per diffamazione aggravata e apologia di fascismo. Il fatto ha suscitato indignazione. Ester De Tomasi, presidente provinciale di Anpi Varese, ha chiesto di verificare come sia stato possibile l’«accreditamento» del gruppo.
Sul fatto è intervenuto il sindaco di Varese Davide Galimberti (Pd): «Quanto accaduto al termine della celebrazione a Palazzo Estense è inaccettabile e invito le forze dell’ordine a fare piena chiarezza su quanto avvenuto, individuando al più presto i responsabili e avviando le necessarie azioni penali».
(da agenzie)
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
PER OGNI EURO SPESO PER LE INTERCETTAZIONI LO STATO NE INCASSA ALMENO 10 CON I SEQUESTRI DEI BENI DI MAFIOSI E CRIMINALI…I PROCURATORI ANTIMAFIA COMPATTI CONTRO IL TETTO DI SPESA VOLUTO DAL GUARDASIGILLI: “È UN’INGERENZA POLITICA”
C’è grande confusione sotto il cielo di Roma su uno dei temi più dibattuti del mondo della giustizia: le intercettazioni. Più della trascrizione o meno dei nomi di terze persone che parlano al telefono con gli indagati che – parola del ministro Carlo Nordio – «rovinano vite intere senza razionalità giuridica», più dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, contestazione penale “nemica” dei sindaci e dei pubblici amministratori rientrante – sempre copyright Nordio – in un sistema di reati contro la pubblica amministrazione «ormai obsoleto» non foss’altro perché le intercettazioni incidono sulla maggioranza delle inchieste non su una singola condotta di reato.
In questo quadro di progressiva distanza tra esecutivo e toghe una cosa è certa: alla ventilata ipotesi del ministro di razionalizzare le spese per questo strumento di indagine («il suo utilizzo è eccessivo, sproporzionato, nel numero e nei costi rispetto ai risultati. E la sua spesa sfugge a ogni controllo perché le procure non hanno un budget e anche su questo interverremo») c’è il muro dei dirigenti delle principali procure italiane, investigatori di prim’ordine e dell’associazione nazionale magistrati.
E a poco sono servite, perlomeno nell’ottica di rasserenare i capi degli uffici giudiziari – le supposte garanzie che nulla sarebbe cambiato «sui reati di mafia e terrorismo e per altre condotte di certa gravità». Perché qui la partita è molto più ampia.
«Queste due categorie sono abbastanza vaghe – ragiona il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia – perché investigativamente radicano da reati fine per i quali non si comprende la casistica del ventilato taglio». Nicola Gratteri, procuratore di Napoli rincara la dose: «Sappiamo ogni giorno, perché emerge nelle indagini che portiamo avanti, che ascoltando i mafiosi finiamo per sentire anche pubblici amministratori, professionisti e anche politici. Se si esclude la possibilità, ad esempio, di utilizzare il Trojan (un virus informatico inoculato nello smartphone che permette di ascoltare) per reati come corruzione, concussione e peculato è ovvio che si configura una limitazione rilevante. Molte volte partendo da queste condotte si arriva alla mafia e viceversa».
Sui costi lamentati dal ministro: «Un anno e mezzo fa a Catanzaro abbiamo fatto un listino prezzi con il quale abbiamo abbassato la spesa per le intercettazioni del 50%. A questo listino si sono prima adeguate le procure di Napoli e Milano e il 15 dicembre scorso il ministero della giustizia ha fatto entrare in vigore un listino delle intercettazioni con gli stessi standard di costi. Ogni anno in Italia si spendono 200 milioni e il ministro dice che sono troppi ma basta guardare a quanto torna nelle casse dello Stato con sequestri e confische».
Ed effettivamente i numeri sono il primo solco che scava il fossato tra le parti. Il tema del tetto alla spesa, di un ipotetico e fumoso budget da imporre alle procure è percepito dai capi degli uffici giudiziari come confine ideale (ma anche pratico) invalicabile. Dice Santalucia a La Stampa che «con quest’idea del budget il potere esecutivo interferisce con l’azione giudiziaria. È a ben vedere una forma surrettizia per introdurre una dipendenza della magistratura dalle scelte dell’esecutivo. Le inchieste realizzate grazie – anche – alle intercettazioni generano un beneficio all’erario in generale ma anche ai ministeri della Giustizia e dell’Interno. Il processo è dunque anche un fattore di ricchezza, ma il ministro sembra quasi legato a un’idea da superare e cioè quella che la giustizia sia solamente un fattore di spesa».
A Napoli, ad esempio, la spesa complessiva nel 2023 per effettuare intercettazioni è di 5,89 milioni ma il valore di beni mobili e immobili sequestrati è di 197,9 milioni. A Reggio Calabria, nella procura guidata dal magistrato Giovanni Bombardieri spesi 7,9 milioni, sequestrati (e confiscati) beni e contanti per 825 milioni. A Milano (spesa circa 10 milioni, sono stati una trentina negli ultimi 3 anni) e Torino (3,5) si contano sequestri per centinaia di milioni.
E poi ci sarebbe da discutere su quante tonnellate di droga vengono intercettate e distrutte (decine all’anno) con conseguente mancato ingresso nella società e relativo valore di attenuazione del danno. Un parametro incalcolabile.
A Palermo dove insistono indagini complesse e articolate (per esempio quella, tra le tante, sulla latitanza – che segue all’arresto – di Matteo Messina Denaro) le captazioni informatiche sono costate 30,47 milioni ma alla voce “sequestri” il jackpot segna 322,1 milioni.
Il procuratore Maurizio De Lucia (come già detto all’inaugurazione dell’anno giudiziario una settimana fa) parte proprio dalla cattura dell’ultimo degli stragisti dei Corleonesi avvenuta a Palermo poco più di un anno fa, per raccontare come a fronte «di un apparente grande massa di denaro, solo nel corso delle perquisizioni effettuate (a casa del boss ndr) nel gennaio 2023 sono stati sequestrati 500 mila euro in gioielli e 300 mila in contanti: somme subito confluite nel fondo unico della giustizia (Fug)».
A chiudere la questione “costi” ci pensa Giuseppe Cascini procuratore aggiunto di Roma. «Escludo possa esserci un problema di eccesso di spesa. C’è stato un periodo, anni fa, in cui ogni procura aveva le sue regole e le sue prassi; furono creati dei listini prezzi fatti dai singoli uffici giudiziari che trattavano direttamente con le ditte. Oggi si è arrivati a una drastica riduzione con prezzi prestabiliti e costi definiti».
(da La Stampa)
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
STUDI SCIENTIFICI DIMOSTRANO CHE LA MORTALITÀ IN UN IMPATTO FRONTALE PASSA DAL 90% A 50 KM/H ALLO 0-5% A 30 KM/H… SALVINI PREFERISCE AIZZARE LA POPOLAZIONE CONTRO I SINDACI CHE HANNO AVUTO IL CORAGGIO DI PRENDERE UNA DECISIONE IMPOPOLARE IN NOME DELLA SICUREZZA
Bologna è la prima grande città italiana a introdurre il limite dei 30 chilometri orari su una vasta zona della città, esclusi i viali e le strade a grande scorrimento. Il limite in realtà c’è da 6 mesi, però dal 16 gennaio il sindaco ha deciso di farlo rispettare. I vigili dotati di telelaser hanno fatto le prime multe e il caso è diventato politico.
Entriamo nel merito con gli ultimi dati Istat sul 2022: in Italia gli incidenti stradali hanno causato 223.475 feriti e 3.159 morti. I numeri riferiti agli anni precedenti dicono che i feriti gravi sono sempre oltre i 15 mila.
Il 73% degli incidenti avviene sulle strade urbane. Tanti, non solo da noi, ma ovunque nel mondo il maggior numero di incidenti e vittime avviene proprio nei centri urbani. Per ridurli in Europa i sindaci hanno cominciato a introdurre i limiti a 30 km orari già dagli anni Novanta. La prima è stata Londra in alcune zone del centro nel 1991; oggi si va a 20 miglia (32 km orari) su 140 chilometri di strade.
Negli ultimi cinque anni si sono aggiunte altre 34 grandi città europee, su aree molto vaste: da Barcellona, a Madrid, Parigi, Bruxelles, Berlino, Monaco, ecc.. Con quali risultati?
Di quanto calano le vittime
Lo studio pubblicato degli esperti della London School of Hygiene and Tropical Medicine – pubblicato sul British Medical Journal – ha valutato le conseguenze dell’introduzione delle zone 20 miglia, comparando i risultati su un arco temporale di vent’anni (dal 1986 al 2006) tra le vie con il limite di velocità e quelle adiacenti a 30 miglia (48 km orari).
L’introduzione delle 20 miglia orarie viene associata a una riduzione del 41,9% delle vittime della strada. La riduzione percentuale, scrivono gli autori, «è stata maggiore nei bambini più piccoli e per le vittime o feriti gravi rispetto ai feriti lievi». Sotto i 15 anni c’è un dimezzamento netto di morti e feriti gravi.
Gli stessi esperti hanno confrontato anche le categorie: tra i pedoni, i morti e i feriti gravi sono calati del 34,8% nelle zone 20 miglia, mentre nelle vie adiacenti sono saliti del 2,1%. Tra i ciclisti il calo delle vittime è del 37,6% nelle strade 20 miglia, mentre in quelle a 30 miglia salgono di oltre il 2%. Altri 9 studi analizzando i dati fino al 2019 indicano tutti una diminuzione degli incidenti, dei feriti gravi e morti.
Il costo sociale
Ogni incidente ha un impatto significativo. Il costo sociale degli incidenti stradali lo stima anche l’Istat: nel 2022 su tutto il Paese, e inclusi quelli che si sono verificati nelle aree extraurbane, è stato di 17,9 miliardi di euro, pari allo 0,94% del Prodotto interno lordo di quell’anno. Una cifra enorme.
Impatto veicolo-pedone
Un’analisi molto dettagliata sull’impatto veicolo-pedone è stata realizzata dall’ing. Salvatore Golfo dell’Università di Palermo, che ha studiato le conseguenze dopo lo scontro con un veicolo che procede a velocità differenti – 20, 30, 40 e 50 chilometri orari – e con un punto di impatto frontale o laterale. Alla fine ne ha calcolato – tra le altre cose – anche l’«Hic» ( Head injury criterion ), cioè l’indicatore che misura la probabilità di trauma cranico derivante da un impatto. Tradotto: rischio trauma cranico grave del 9% nell’impatto frontale a 30 km orari in frenata. Rischio che sale al 30,5% se l’impatto avviene a 50 orari. A velocità costante si passa dal 9,5% al 36%.
Se si va a vedere il tasso di letalità, nei diversi test di laboratorio condotti dall’ing. Golfo si arriva al 50% di mortalità se l’auto colpisce il pedone lateralmente a 50 chilometri orari, ma va dallo zero al 5% se il veicolo procede a 30 chilometri orari. Probabilità che non cambia in caso di impatto frontale a velocità costante, mentre sale al 90% di mortalità se lo stesso mezzo viaggia a 50 chilometri orari.
Impatto ambientale
Le auto che vanno più piano inquinano di più o di meno? La letteratura scientifica non è ancora molto vasta sul tema, ma al momento sembra che l’introduzione delle zone 30 abbia effetti positivi. Uno studio ha effettuato delle simulazioni al computer e dei test reali su strada — a Berlino — e l’esito è che la riduzione della velocità da 50 a 30 chilometri orari taglia del 40% le emissioni di NOx (ossidi di azoto) e del 10% di PMx (polveri sottili).
Il Journal of Transport & Health nel 2022 scrive che una guida a 20 miglia orari comporta una riduzione del 33% di accelerazione e frenata e quindi una riduzione delle emissioni di ossidi di azoto. Più in generale porta un beneficio ambientale perché c’è un minor consumo di carburante del 12%.
La direttiva Salvini
I dati sulla sicurezza dovrebbero essere noti al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, visto che il ministro Salvini aveva promosso l’iniziativa di abbassare il limite di velocità finanziando con 13 milioni una legge entrata in vigore a febbraio 2023. Il 24 gennaio 2024 cambia idea ed emette una direttiva di 7 pagine la cui sostanza è: mettere un limite sotto i 50 km orari generalizzato può risultare anche pericoloso. Il limite, come mostra la mappa della città, non è generalizzato, ma la questione diventa politica, e i sindaci si dividono fra favorevoli e contrari.
Il Comune di Padova ha annunciato che seguirà l’esempio di Bologna; Milano doveva partire il 1° gennaio 2024, ma il sindaco temporeggia. Intanto contro l’ordinanza «Bologna città 30» è partita una petizione, mentre FdI ha aperto un banchetto di raccolta firme in piazza.
Nella sua direttiva Salvini – tra le altre cose — scrive che «l’imposizione di limiti di velocità eccessivamente ridotti potrebbe risultare pregiudizievole sotto il profilo ambientale, nonché dell’ordinata regolazione del traffico, creando ingorghi e code stradali». Cioè l’esatto contrario di quello che si sta registrando a Londra, Bruxelles, Madrid, Monaco, Berlino, ecc.: tutte grandi città dove hanno pensato che andare più piano è solo una questione di abitudine.
E anche i più refrattari hanno ormai capito che perdere un semaforo in cambio di maggior sicurezza conviene a tutti. Per il nostro ministro è più conveniente preparare un decreto con cui impedire i limiti smontandone i controlli. E contemporaneamente aizzare la popolazione contro i sindaci che hanno avuto il coraggio di prendere una decisione impopolare per evitare il più possibile ai loro cittadini che un vigile, a un’ora del giorno e della notte, vada a suonare il campanello di casa.
Leonard Berberi e Milena Gabanelli
per il “Corriere della Sera”
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
“FU L’INVENTORE DEI BENI CULTURALI, LA SUA OPERA È LA FUCINA DELLA NOSTRA MODERNITÀ CULTURALE E POLITICA” …EDONISTA, COCAINOMANE E EROTOMANE, DISSE NO ALL’ALLEANZA DI MUSSOLINI CON HITLER: “IL MARRANO DALL’IGNOBILE FACCIA, PAGLIACCIO FEROCE”
Mussolini e d’Annunzio? Hanno assai poco in comune. La figura di Gabriele d’Annunzio è ancora oggi oscurata da una marea di pregiudizi». No, il Vate, che venne definito il Giovanni Battista del fascismo, non fu per nulla al fianco del Duce nell’edificazione e nel consolidamento del regime. Andando controcorrente e contestando tanta produzione storiografica, Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale degli Italiani, tra i massimi esperti della storia e delle opere del poeta-soldato, da anni è impegnato a restituirci, priva di preconcetti, la figura del giornalista, politico, lirico, drammaturgo e romanziere, nonché uno degli scrittori italiani più ammirati all’estero.
In questi giorni, Guerri è al lavoro per allestire un’insolita mostra (curata da Andrea Baldinotti) che si terrà al Vittoriale, la storica dimora del poeta. Arriverà al lago di Garda, proveniente dagli Uffizi di Firenze, una raccolta di capolavori artistici (circa una trentina). Sono le tele a cui si è ispirato d’Annunzio nei suoi soggiorni fiorentini e che per la prima volta – a partire dal 9 marzo – verranno esposte insieme ai manoscritti di poesie, drammi e narrativa dello scrittore per il quale sono state fonte di illuminazioni.
Nell’opera del Vate la relazione tra immagini e parola scritta è molto stretta: Guerri è pronto alla sfida per farci comprendere quanto sia moderna e anticipatrice la sensibilità estetica dell’autore di Pescara. Altro che romanità e gagliardetti: D’Annunzio è la fucina della nostra modernità, questa è la linea interpretativa che guida da anni la ricerca del suo biografo.
Qual è l’attualità del “rivoluzionario”, come il poeta veniva definito da uno che di rivoluzioni se ne intendeva, Vladimir Ilic Lenin?
«Con la sintesi di letteratura e vita, di comportamento provocatorio e produzione di testi apprezzati dai maggiori autori a livello internazionale, da Proust a Hemingway, d’Annunzio ha rivoluzionato il modo di sentire e di essere della società italiana e l’ha influenzata arrivando fino ai nostri giorni. Nel 1904 confidava a Eleonora Duse il bisogno “imperioso della vita violenta, della vita carnale, del piacere, del pericolo fisico, dell’allegrezza”. Edonista, cocainomane ed erotomane, non sublimava l’eccesso ma lo praticava.
Trasformando la sensibilità collettiva, anticipava, per esempio, una delle nostre maggiori conquiste, la libertà di scelta nell’amore e nell’eros. Per secoli non è mai stato così. Ma oggi per la prima volta nella storia, anche grazie all’esempio anticonformista di d’Annunzio, siamo privi d’insensate barriere morali e possiamo individuare i nostri partner senza pregiudizi o limiti di nessun tipo. È stato inoltre un apripista anche sulla strada del consumismo.
Il gusto della lussuria si accompagnava nel dandy a quello del lusso. Spendaccione e maestro di eleganza, provava un’attrazione fatale per i beni materiali. Aveva creato una nuova marca di profumo, Aqua Nuntia, convinto che si sarebbe venduta in quanto associata al suo nome. Era un mago del marketing, un influencer che però non condizionava le masse bensì la classe dirigente, le élite».
Era un genio della politica e della comunicazione?
«Ipnotizzatore delle folle, ebbe tanti punti di contatto con i futuristi ma fu anche un precursore della politica attuale. In Parlamento, nel 1900, facendo molto clamore transitò dalla destra storica alla sinistra per protestare contro la sanguinosa repressione dei moti popolari da parte del generale Bava Beccaris. Rivendicò la libertà per i deputati di mutare opinione: “Di là i morti, vado verso la vita”, disse. Analogamente, almeno la metà dei nostri politici in quest’ultima legislatura ha praticato il cambio di casacca. Lanciò volantini su Vienna e altre città: da allora le aviazioni di tutto il mondo hanno cominciato a fare propaganda allo stesso modo e, da ultimi, gli americani in Afghanistan».
Torniamo allo stretto rapporto con il fascismo e Mussolini. Pregiudizio o verità?
«Pregiudizio originato dal fatto che il futuro Duce, che pativa molto il carisma del Vate, si appropriò di riti e miti creati dal poeta-guerriero. Quando nel 1919 i legionari guidati da d’Annunzio presero possesso di Fiume, contesa tra l’Italia e la Jugoslavia, lo scrittore impresse grande vitalità a quell’occupazione.
All’attuale governo di destra cosa può insegnare il letterato-politico?
«Non solo per questo governo ma per tante istituzioni d’Annunzio deve essere un punto di riferimento. È un maestro di audacia. Al momento di essere eletto deputato, nel 1897, si presentò come “il candidato della Bellezza”, spiegando che la ‘fortuna d’Italia è inseparabile dalle sorti della Bellezza, cui ella è madre nei secoli’. Fu l’inventore dei Beni culturali, non è poco».
Nazionalismo dannunziano e sovranismo attuale: c’è un rapporto?
«Il tratto in comune con il Duce fu l’ideologia nazionalista. D’Annunzio condivise la mussoliniana campagna di Etiopia, desideroso di ampliare i possedimenti della nazione, ma fu contrario all’intervento in Spagna e all’alleanza con Hitler, “il marrano dall’ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce… pagliaccio feroce”, come lo definì. D’Annunzio voleva recuperare all’Italia Trento, Trieste e la Dalmazia, il sovranismo è altra cosa, è nato come reazione all’unità europea».
Il Vate si può considerare un esempio di libertarismo per i giovani del 68?
«I giovanissimi legionari di Fiume e i ragazzi delle barricate di Roma e Parigi volevano cambiare il mondo. In entrambi i casi si è trattato di un empito rivoluzionario senza un orizzonte preciso, tipico anche dell’avanguardista coraggioso. Per questa e tante altre eredità e condizionamenti oggi non possiamo non dirci dannunziani».
(da “la Stampa”)
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
SOFFRI’ PER ALDO MORO (“L’HO UCCISO IO”), FRANCESCA MAMBRO E GIUSVA FIORAVANTI “PER LA STRAGE DI BOLOGNA LI CONSIDERAVA INNOCENTI”… “UNA VOLTA TROVAI IN CASA LA BRIGATISTA FARANDA: “MI DISSE LO STATO DEVE FARE PACE CON I TERRORISTI SCONFITTI”
Anna Maria Cossiga, qual è il primo ricordo di suo padre Francesco?«Siamo bambini a Sassari, io e mio fratello Giuseppe, di due anni più piccolo, e babbo per divertirci ci fa la casette di carta. Lo rivedo chino a ritagliare il cartone, aprire le finestrelle, mettere il cellophane al posto dei vetri…».
Il suo mentore era stato Giovanni Battista Montini.
«Sì. Ma poi aveva legato molto con Ratzinger, prima ancora che diventasse Papa. Quando fu eletto Wojtyla ci invitò a colazione, con tutta la famiglia. Lo ricordo gioviale, aperto, divertente. Mi chiese: “Quanti anni hai?”. Diciassette, Santità. “Ecco, adesso cominciano i guai”».
Lei quindi non ha mai votato Dc?
«No, sono sempre stata di sinistra, senza rimorsi; anche perché la prima volta votai solo per la Camera e babbo stava in Senato. Avevamo discussioni molto accese, molto libere. Una volta in un ristorante di Londra ci guardavano preoccupati, pensavano che stessimo bisticciando… Ma lui rispettava le mie idee. Anni dopo con un amico gallerista facemmo una mostra con le foto di tutte le scritte sui muri contro di lui: Kossiga con la kappa, Cossiga babbeo beccate ’sto corteo…».
Come reagì?
«Si divertì molto. Era severo su altre cose».
Quali?§«Mio fratello poteva andare in discoteca, io no: “Figlia mia, una brava ragazza in discoteca non ci va”. Quando feci il primo buco nelle orecchie si arrabbiò molto: “Figlia mia, cosa ti è venuto in mente, sembri una selvaggia!”. Quando feci il secondo ero già sposata, e lui disse a mio marito: “Adesso è un problema tuo”».
Era geloso dei suoi fidanzati?
«Sì. Difficilmente gli piacevano».
Con Andreotti com’era il rapporto?
«Un po’ freddo. Però quando mi stavo laureando, con una tesi sugli ebrei romani, babbo mi mandò da lui, dicendo che mi avrebbe indicato fonti e testimoni. Andreotti fu gentilissimo. Ogni tanto andavo a prendere il caffè con lui al Senato. Quando poi finì sotto processo, babbo lo difese a viso aperto. Era certo che le accuse fossero del tutto infondate».
A casa si parlava di politica?§«Molto. Anche di teologia. Di storia. E del conflitto israelo-palestinese».§
Suo padre come la pensava?
§«Babbo era sionista. Con Israele sino alla morte. Anch’io ero abbastanza filoisraeliana. Mio fratello invece era filopalestinese».
E del fascismo cosa diceva?
«Lo considerava il male assoluto. Veniva da una famiglia fortemente antifascista».
È vero che era massone?§«Suo nonno Francesco era massone: trentatré di rito scozzese. Lui no: troppo cattolico. Però andava orgoglioso del nonno».
Chi era Moro per Cossiga?
«Il maestro di politica. Aveva per lui grande ammirazione e grande affetto».
Con suo padre ho fatto molte interviste. L’unica che volle rileggere fu quella sul rapimento Moro. Mi disse che a un certo punto il governo l’aveva dato per perduto.
«È così. Proprio per questo babbo era umanamente disperato. Si decise di anteporre lo Stato. Lui era d’accordo, ma fu un colpo terribile. Subito gli venne questo ciuffo di capelli bianchi…».
Lei come apprese la notizia del sequestro?
«Avevo 17 anni, ero a scuola dalle suore irlandesi. La professoressa di latino e greco mi vide e disse: ma come, non sono ancora venuti a prenderti? Avevo la scorta, cambiavamo sempre strada per andare a scuola».
Come ricorda quei giorni?
«Babbo non c’era quasi mai. Ne parlammo poco. Quando giunse la notizia dell’assassinio ne soffrì enormemente. Ogni tanto ripeteva: “L’ho ucciso io”. E non nel sonno, com’è stato scritto. Da sveglio».
Si dimise da ministro dell’Interno, ma un anno dopo era presidente del Consiglio. Non aveva mai pensato a lasciare davvero la politica?
«No. La passione politica lo possedeva».
Aveva anche una grande passione per lo spionaggio.
«Sì, perché gli piaceva spiare. Lui stesso era un gran ficcanaso. Amava scoprire cose che altri non potevano sapere. Quando scoppiò la prima guerra del Golfo, babbo era già al Quirinale, io in America. Pensai di rientrare. All’aeroporto di New York notai quattro tizi che mi tenevano d’occhio, avevano le borse di un negozio dove gli italiani andavano a comprare gadget elettronici: erano palesemente uomini dei servizi segreti. Anni dopo ho scoperto che papà l’aveva battezzata “operazione Biancaneve”. La fanciulla tornava a casa».
Aveva continuato a seguire i suoi studi?
«Sono antropologa, ma iniziai l’università studiando storia delle religioni. Con un compagno stavamo ripetendo la parte sui popoli primitivi, in particolare gli zulu, che credono in un essere superiore chiamato Nkulu Nkulu. Babbo entrò in stanza: “Figlia mia, cosa sono queste porcherie?”. Era convinto della supremazia dell’Occidente. Io no».
Si parlò di un’infatuazione platonica per Federica Sciarelli, allora giornalista di punta del Tg3.
«Gliel’abbiamo chiesto pure noi figli! (Anna Maria ride). Ha negato nel modo più assoluto!».
Ci sarà stata qualche donna che lo affascinava.
«Margaret Thatcher. Con lei era galante, le mandava fiori, si scrivevano. Rimasero in contatto anche quando lei lasciò il governo. Certo, era una fascinazione politica: la lady di ferro.
Stimava molto anche Kohl. Meno Mitterrand.
Babbo non era filofrancese, preferiva gli anglosassoni. Era un amerikano con la kappa».
Al Quirinale all’inizio appariva silente. Poi cominciò a picconare.
«All’epoca abitavo a Londra. Lo chiamai: ba’, che succede? E lui: “Ho deciso di dire tutto quello che penso. E finalmente mi diverto”. A volte nella sua scrittura cuneiforme buttava giù note durissime; il prefetto Mosino e io tentavamo di ammorbidirle, ma lui le pubblicava tali e quali. Ogni tanto penso a cosa avrebbe combinato se avesse avuto i social…».
Scalfari, che era stato suo amico, schierò Repubblica contro di lui.
«Ci rimase malissimo perché Scalfari scriveva che prendeva il litio, lo faceva passare per matto».
Cosa prendeva, per davvero?
«Curava la depressione. Era bipolare. Lui stesso parlava dell’omino bianco — gioioso, allegro — e dell’omino nero, che vedeva tutto negativo. È una delle tante cose che ha passato anche a me, anche se in forma più leggera. Ma mi ha insegnato anche a non vergognarmi di avere un disagio psicologico».
Dopo il Quirinale tornò protagonista creando un partito e portando D’Alema al governo.
«Babbo si era innamorato di D’Alema. Considerava il suo capolavoro politico aver portato il primo ex comunista a Palazzo Chigi e avergli fatto combattere una guerra della Nato».
Com’era il rapporto tra loro?
«Affettuoso. Una volta lo incontrammo per strada e babbo mi presentò così: “Mia figlia vota Rifondazione”. E D’Alema: “Sia più moderata, voti per noi…”. A casa spesso venivano Minniti e Latorre. Quando Berlusconi disse che i comunisti mangiavano i bambini, babbo mandò a D’Alema un bambino di marzapane».
E Berlusconi?
«Babbo lo trovava irresistibilmente simpatico, ma non era il suo tipo di politico. Non l’ha mai votato. Mio fratello invece andò in Parlamento con Forza Italia».
Craxi?
«Quand’era potente non avevano un gran rapporto. Ma quando finì ad Hammamet babbo andò a trovarlo, e lo difese sempre».
Incontrava le persone più disparate.
«Aveva sempre la casa piena di gente. Una volta trovai in salotto Francesca Mambro e Giusva Fioravanti che prendevano il tè. Rimasi basita. Ma lui mi disse: “Figlia mia, per la strage di Bologna sono innocenti”. Un’altra volta trovai Adriana Faranda, la brigatista. Quella volta spiegò: “Figlia mia, lo Stato deve fare pace con i terroristi sconfitti”».
Aldo Cazzullo
per il Corriere della Sera
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
“NON SI HA RAGIONE PERCHÉ SI OCCUPA UN CERTO RUOLO, MA PERCHÉ SI ESIBISCONO FATTI CHE PROVANO LA TUA TESI. HA SBAGLIATO PERSINO EINSTEIN”
Il fisico e docente universitario Piero Martin, autore di un saggio sul tema, ci spiega perché – nella scienza come nel calcio o nella vita – sbagliare ci fa bene
Eppure, errare non solo è umano, può essere anche utile per imparare qualcosa di nuovo, su se stessi e sul mondo. La scienza è costellata di errori che, lungi da rappresentare un fallimento, hanno in realtà fatto fare grandi progressi alla conoscenza. E una rassegna di sbagli (e abbagli) scientifici, forieri di nuove scoperte, è quella contenuta in Storie di errori memorabili (Laterza), ora in libreria e firmato da Piero Martin, professore ordinario di Fisica sperimentale all’Università di Padova.
Rievocare le “cantonate” degli scienziati (anche di grandissimi come Einstein e Fermi) permette a Martin di raccontare in modo originale vicende già note: dalla scoperta della doppia elica del Dna alla nascita del mito dei marziani. Ma l’elogio dell’errore scientifico, nelle intenzioni di Piero Martin, ci aiuta anche a essere più indulgenti con noi stessi
Professor Martin in che senso l’errore può avere un ruolo positivo, nella scienza come nella vita, o su un campo di calcio?
«Preferisco far rispondere Karl Popper, secondo cui “evitare errori è un ideale meschino: se non osiamo affrontare problemi che siano così difficili da rendere l’errore quasi inevitabile, non vi sarà alcuno sviluppo della conoscenza”. Inoltre la scienza ci insegna che se si vogliono fare progressi, in qualsiasi campo, bisogna essere lasciati liberi di sbagliare. E poi non vale il principio di autorità: non si ha ragione perché si occupa un certo ruolo, ma perché si esibiscono fatti che provano la tua tesi».
Perfino Albert Einstein, il genio per antonomasia, ha sbagliato?
«Ha sbagliato anche lui. E in un certo senso ha sbagliato due volte sullo stesso argomento. Scrive la teoria della Relatività generale, in un contesto in cui l’universo è considerato statico. Ma dalla sua teoria emerge un universo in movimento, che si espande. E allora Einstein introduce una “correzione” alla teoria, la costante cosmologica. Ma di lì a poco si dimostra che l’universo è in espansione: il padre della Relatività ammette l’errore e toglie la correzione. Alla fine degli anni Novanta però si comprende che il cosmo non solo si espande, ma lo fa a velocità crescente: per descrivere questo fenomeno c’è bisogno di reintrodurre nella teoria di Einstein una costante cosmologica».
Ci sono errori dovuti al fatto che gli scienziati si “affezionano” a una teoria e finiscono per non “vedere” i fatti e i dati che la confutano?
«Cito il caso di Giovanni Battista Riccioli, gesuita-scienziato che nasce una trentina d’anni dopo Galileo e fa esperimenti cruciali per provare le teorie galileiane. A un certo punto teorizza quello che poi sarebbe stato l’effetto Coriolis, una dimostrazione plastica che la Terra ruota intorno al Sole. Riccioli è però così legato alla sua visione geocentrica da non riuscire a fare l’ultimo passo».
Gli errori della scienza che lei racconta possono essere alla base della crescente sfiducia nella ricerca da parte di un pezzo della società?
«Temo che questo non dipenda dagli errori della scienza, ma dall’essersi disabituati alla fatica dell’apprendimento. Manca sempre più la consapevolezza che il sapere, quello dello scienziato, come quello dell’artigiano, richiede fatica».
(da la Repubblica)
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