Febbraio 17th, 2024 Riccardo Fucile
“HA FATTO DIVENTARE LA LEGA UN PARTITO DI ESTREMA DESTRA MENTRE AL GOVERNO C’È GIORGIA MELONI CHE HA IL SIMBOLO DELLA FIAMMA. C’ERA UNO SPAZIO POLITICO (DI FORZA ITALIA) RIMASTO VUOTO E DOVEVA RIEMPIRLO”… LA STRONCATURA DI VANNACCI, L’IDEA DI UNA ASSOCIAZIONE E IL PIZZINO AI SUOI: “NIENTE STRAPPI. OCCORRE PREPARARSI AL DOPO”
Bossi dice ai suoi ospiti: «Soffro a vedere la Lega ridotta così».Attorno a lui ci sono una trentina di persone: compagni di strada della prima ora, alcuni rappresentanti locali, ex ministri ed ex parlamentari.
Non è un’occasione conviviale, bisogna discutere dell’associazione politica alla quale stanno lavorano da qualche tempo, con discrezione, per evitare che si dia anche solo l’impressione di un gruppo impegnato in una qualche velleitaria operazione scissionista.
«Adesso invece la Lega è la copia meno fortunata di Fratelli d’Italia», si inalbera Bossi. Che sarà «segnato nel corpo — racconta uno dei presenti — ma non è rimbambito come viene descritto apposta da qualcuno. È lucido nelle sue analisi. E anche se il fisico non è più quello di un tempo, s’inc…za ancora di brutto».
E fa sempre sfoggio del suo linguaggio colorito, di cui si serve per parlare di Matteo Salvini e della sua linea politica: «Ha fatto diventare la Lega un partito di estrema destra, proprio mentre al governo c’è Giorgia Meloni che ha il simbolo della Fiamma. Ma tra la copia e l’originale, chi vuoi che voti la gente?».
Bossi dà voce al senso di disorientamento collettivo, che i presenti avvertono ormai distintamente anche nell’attuale gruppo dirigente. Lo percepiscono da certe telefonate carbonare con cui vengono informati della situazione a Roma e sui territori. La storia della «Lega nazionale» non ha mai convinto il Senatur. Ci aveva pensato anche lui più di vent’anni fa di sbarcare al Sud, ma aveva desistito.
Perché temeva allora quanto sta avvenendo adesso: che la Lega venisse usata come un taxi, da cui scendere a fine corsa. Oggi teme ancor di più la contromossa di Salvini, che per rattoppare il «fallimento del suo progetto» innesta nella Lega personaggi che «non hanno nulla a che fare con la nostra storia»: «Ha sbagliato a scegliersi i compagni di strada in questi anni, ma non può ora affidarsi a tipi come quel generale lì… Vannacci…».
Secondo Bossi, il segretario aveva a disposizione un’altra soluzione: «C’era uno spazio politico rimasto vuoto e doveva riempirlo lui». Il fondatore della Lega si riferisce chiaramente all’area occupata da Forza Italia, rimasta orfana di Silvio Berlusconi: è lì che Salvini avrebbe potuto espandersi. La conseguenza della mossa «sbagliata» è che gli azzurri adesso ambiscono al sorpasso del Carroccio alle Europee.
A ottantatré anni Bossi non ha alcuna intenzione di tornare in prima linea, figurarsi, ma il modo in cui si infervora testimonia la sua «sofferenza» per le condizioni del partito e il desiderio di dare un contributo, non foss’altro per la sua esperienza. «Il fatto è che Salvini non gli risponde al telefono», spiega uno dei testimoni della riunione: «Non so da quanto tempo non lo vede. Ogni tanto viene a trovarlo Giancarlo Giorgetti. C’è stato anche il governatore della Lombardia, Attilio Fontana.Ma il segretario…».
“Avevi la rappresentanza di tutto il Nord imprenditoriale. E cosa hai fatto? Hai portato la Lega all’opposizione. Ma così non conti niente. Nel 1989 accettammo di far gruppo con degli scappati di casa pur di contare qualcosa».
(da Corriere della Sera)
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Febbraio 17th, 2024 Riccardo Fucile
NEL PARTITO SI RAGIONA SUL DOPO-EUROPEE: IN CASO DI RISULTATO NEGATIVO SERVE UNA NUOVA LEADERSHIP, SPERANDO CHE SALVINI SI FACCIA DA PARTE SPONTANEAMENTE (IL CHE NON SARA’)
La scritta “game over” dopo le europee non è più una fantasia da romanzo distopico. Matteo Salvini, alla fine del conteggio dei voti a giugno, rischia davvero di dire addio alla leadership della Lega. E chiudere il suo decennale ciclo per lasciare spazio a un suo erede: Massimiliano Fedriga, presidente della regione Friuli-Venezia Giulia.
È il profilo considerato più spendibile di tutti. Anche perché in grado di evitare scossoni al governo. E in possesso di un titolo raro: lo standing nazionale, che sta forgiando con un afflato moderato. Certo, in parlamento gli alleati non credono alla successione: sono convinti che Salvini non mollerà, in qualsiasi caso.
Fatto sta che, al netto delle valutazioni esterne, i maggiorenti leghisti, dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti al presidente della Camera Lorenzo Fontana, fino al presidente della regione Veneto Luca Zaia, al capogruppo alla Camera Riccardo Molinari, non hanno alcuna intenzione di sottovalutare il dato delle europee.
L’asticella è fissata alla doppia cifra, quel 10 per cento che diventerebbe il salvavita politico per Salvini. Al di sotto della soglia vitale, l’auspicio è che il vicepremier in carica prenda atto della fine della sua leadership, che ha portato la Lega alla rinascita ma anche a una nuova caduta. L’eventuale uscita di scena non deve essere un redde rationem cruento, ma deve configurarsi come un’operazione ordinata. Quindi con delle dimissioni volontarie.
FEDRIGA L’EREDE
E qui entra in gioco Fedriga che, secondo i ragionamenti dei big leghisti, ha il physique du rôle per rimpiazzare Salvini. Prima di tutto per una ragione pratica: ha dimostrato di saper prendere i voti. Alle ultime regionali in Friuli-Venezia Giulia non c’è stata competizione.
Poi c’è il fattore Meloni. I rapporti con Fratelli d’Italia sono buoni. E questo metterebbe al riparo il governo da eventuali ripercussioni. Ci sarebbe anche l’eterna candidatura di Zaia, ma il diretto interessato non vuole saperne. A maggior ragione dopo le polemiche con i meloniani, addirittura con il solitamente mite ministro Luca Ciriani.
Zaia vorrebbe solo la norma sul terzo mandato. Sarebbe l’assicurazione di poter governare il suo regno in Veneto. Fontana è invece fuori dai giochi per il ruolo istituzionale da presidente della Camera.
La lista degli aspiranti successori include anche Molinari, capogruppo leghista a Montecitorio. Nel partito vedono però due macigni lungo il suo tragitto verso la segreteria. Anzitutto la provenienza regionale, il Piemonte. La Lega è molto cambiata, ma mantiene saldamente le radici in Lombardia e Veneto. Ed è da lì che dovrà arrivare il nuovo segretario federale. Inoltre Molinari, a differenza di altri, è percepito come uomo di apparato, non certo un acchiappavoti alla Zaia o alla Fedriga.
Al massimo può essere il traghettatore da un leader all’altro. Peraltro i rapporti con Salvini non sono più quelli di un tempo. Da qualche mese si sono deteriorati per incomprensioni politiche.
Tra le tante cose non è stata gradita dai vertici del gruppo la mossa di dialogare con l’Udc di Lorenzo Cesa, mettendo sul piatto l’ipotesi di dare “in prestito” due deputati ai centristi. Fedriga, invece, vanta tuttora un buon rapporto con Salvini, ed è un vantaggio irrinunciabile.
INCUBO PAPEETE
L’idea che circola nei conversari privati è quella di avere sempre “Matteo” nel ruolo di regista politico, una sorta di padre nobile. Nessuno vuole mandarlo in pensione anticipata né tantomeno voltargli le spalle e farne un nemico. Finora, viene sottolineato, gli è stato perdonato tutto, e non potrebbe certo accusare gli amici di tradimento.
In particolare gli è stato perdonato il colpo di testa del Papeete quando, in un’estate, ha sperperato il capitale di consenso politico conquistato dalla Lega. Il partito ha anche soprasseduto sul tracollo elettorale alle ultime politiche. Salvini è andato in conferenza stampa rivendicando addirittura l’esito del voto. E nessuno ha battuto ciglio.
Le preoccupazioni ci sono, eccome, per quelli che saranno i prossimi mesi. Nella Lega era stato molto gradito il nuovo corso avviato dopo l’insediamento del governo. Salvini aveva indossato i panni istituzionali, soffermandosi sul lavoro al ministero delle Infrastrutture. Dopo pochi mesi, però, il leader è tornato alle origini: toni urlati, polemiche di bassa lega, sfoderando il marchio del populismo doc.
Per le europee la rotta è tracciata: uno spostamento sempre più a destra fino ad abbracciare gli impresentabili dell’estremismo europeo, dalla Germania alla Danimarca.
Il leader leghista è convinto che sia la soluzione ideale, l’unica praticabile, nonostante i maggiorenti leghisti osservino: «Giorgia Meloni conserva il proprio consenso per un approccio rassicurante, lontano dal vecchio populismo». Non funziona più l’attacco all’Europa, è la loro tesi. Le cose sono cambiate e gli elettori chiedono toni meno barricaderi.
Ed è a questo punto che si innesca il pericolo di un cortocircuito: se Salvini non è intenzionato a rendere moderate le sue posizioni in campagna elettorale, potrebbe decidere di non fare un passo indietro in maniera spontanea.
Al momento è convinto di riportare la Lega sopra il 10 e quindi non accetta discorsi ipotetici. Perciò, di fronte alla possibile sconfitta, c’è l’eventualità che si irrigidisca, rispolverando il modello Papeete. Trascinando a fondo il partito e con lui il governo. Perché, alla fine, si tratta di una sua creatura fin dalla denominazione: la Lega per Salvini premier.
(da editorialedomani.it)
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Febbraio 17th, 2024 Riccardo Fucile
E L’OCCIDENTE? OSSERVA, REGALA COMPASSIONE, QUALCHE PREMIO, MA CONTINUA A STRINGERE LA MANO AL DESPOTA. CHE SERVE, CHE FA PAURA, CHE LUSINGA. E LA SOCIETÀ RUSSA? QUELLA TACE
Lo Zar, la dittatura del proletariato, il putinismo: una lotta contro un dispotismo mostruoso e senza via d’uscita. Occorre davvero un disperato eroismo per fronteggiare un potere viziato, abituato a non trovare resistenza, che si sfrena in ogni atto, in ogni rapporto con i sudditi in una spudorata sfrontatezza.
Sicuro che, zarista bolscevico o putiniano, non deve render conto di nulla a nessuno e che alla fine l’individuo russo mugiko, bolscevico o postcomunista sopporterà tutto, potrà esser corretto con il gulag, l’ospedale psichiatrico, l’esilio, la galera. La morte.
Essere dissidenti in un luogo dove la libertà di parola è sempre stata considerata insolenza, il pensare autonomamente un atto sovversivo perché l’uomo deve dissolversi nella Grande Madre, nel Paese del socialismo realizzato, o come ordina l’omino dagli occhi trasparenti che si è ritagliato un trono da Zar, nella combinazione del vitello d’oro e della patria. Altrimenti… Da Herzen a Navalny l’unica compagna di questa turba eroica è stata la solitudine, il silenzio, le frustate della calunnia: traditori, venduti, rifiuti sociali…
Riuscite a vedere qualcosa di più tragico del sapere che alla fine, accasciati da una sovrumana fatica, scoprirete che la vostra testimonianza non costruirà nulla, non demolirà nulla della menzogna, non annuncerà, neppure quando il re sembra nudo, la palingenesi dell’89! una nuova rivelazione? Quante volte la Grande Svolta è stata annunciata e poi tutto si raggruma e si allarga in un aspro vuoto e una labile incoscienza. Eppure non bisogna fermarsi sulla “vecchia sponda”, anche a costo di morire in un giorno qualunque in un carcere irraggiungibile per salvarsi dall’ospizio della reazione e della complicità.
Dissidenti in Russia. Persino la lingua testimonia la difficoltà a definirli, a farli uscire dal vuoto. Due termini: quello antico slavo, “chi pensa diversamente”, e “dissidente”, lanciato negli Anni settanta dai giornalisti occidentali quando raccontarono qualcosa di nuovo: quelli che pensavano diversamente adesso firmavano documenti, organizzavano manifestazioni a Mosca. E il potere sovietico la adottò, quella definizione: ecco, vedete questi che protestano sono venduti al capitalismo, traditori del proletariato universale.
In Russia milioni di persone hanno sempre pensato diversamente. Ma in privato, sottovoce, a monosillabi. I veri dissidenti sono coloro che come si dice “sono usciti dalle cucine”, e sono andati in piazza, dove si è soli in faccia al potere e ai suoi mezzi repressivi. Tra la cucina di casa e la piazza c’è la paura. La dissidenza è questo, il coraggio di scavalcare la paura, una battaglia a viso aperto per il rispetto dei diritti inalienabili della persona umana, condotta con regole rigide, il rispetto della legge, la non violenza, la trasparenza.
Da un lato lo Stato, Behemoth onnipotente e feroce, dall’altro il singolo. E in mezzo l’Occidente che osserva, regala compassione, qualche premio, ma continua a stringere la mano al despota. Che serve, che fa paura, che lusinga. E la società russa? Quella tace. Di molti sappiano i nomi, scolpiti nei libri: Sacharov; Solzenitzin; Bukovski, internato a 27 anni nell’ospedale psichiatrico; Amalrik che scandì al processo che opporre a delle idee una condanna penale è in sé un delitto; il generale Grigorenko comunista e leninista convinto, Vera Lachkova che batteva a macchina montagne di scritti vietati… «non ho fatto altro che quello che il mio cuore mi dettava. Tutto qui…».
La prigione di Lefortovo, il carcere del kgb a Mosca, da cui sono passati prima o poi tutti i dissidenti… Ma gli altri, quelli che hanno avuto coraggio ma rifiutano di essere considerati eroi? Larissa Bogoraz nel 1968 manifestò sulla piazza Rossa contro l’invasione della Cecoslovacchia (erano in sei! e oggi sono solo poco più color che ancora protestano contro un’altra invasione). Disse a un giornalista sovietico, nell’89 quando quel mondo anche per merito loro andava in frantumi e sembrava arrivata l’ora della verità: «Non descriveteci come eroi, siamo della gente comune!».
La loro lotta è ancora quella scritta su un cartello che i dissidenti del 1968 levarono sulla piazza Rossa: «Per la vostra libertà e per la nostra!». Fino a Navalny una delle più strazianti avventure umane del secolo. Con la caduta dell’Urss i dissidenti erano passati di moda. Eppure Kovalev levava la voce contro la sporca guerra in Cecenia e già governava Eltsin, “l’americano” con la sua banda criminale. Riprendevano come se nulla fosse accaduto le campagne di calunnie, lo si isolava… i vecchi metodi.
L’esistenza dei dissidenti rammentava ai nuovi padroni i compromessi e le vigliaccherie di ieri. In quello che avrebbe dovuto essere il mondo nuovo, nessuno, in fondo, ha riconosciuto loro il merito di aver lottato per una Russia degna di sé. Entravano nella cronaca dei processi, e dei delitti senza colpevoli, nomi nuovi, la Politkovskaja, Navalny, Rachinsky: perché il nazional capitalismo con i suoi petrodollari, i night da 10 mila dollari a sera, aveva ricostruito l’ossessione del controllo, la convinzione che chi non obbedisce ciecamente è un nemico.
Loro erano ancora lì, prima timidi e poi veementi, perché tutto fluisce di nuovo, la prepotenza, la guerra, i divieti, legato da un filo invisibile ma terribilmente vivo. Il Potere e la società: la distinzione che attraversa tutta la storia russa. E allora bisogna costringere il Potere a svelarsi. A ogni costo.
(da La Stampa)
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Febbraio 17th, 2024 Riccardo Fucile
GLI SLOGAN PER LO “STOP AGLI AIUTI ALL’UCRAINA” GRIDATI DURANTE LE MANIFESTAZIONI E IL MISTERO DEGLI INGENTI FONDI A DISPOSIZIONE DEGLI AGRICOLTORI. CON QUALI SOLDI VENGONO PAGATE LE PROTESTE?
Dopo il provvidenziale intervento del governo sull’irpef agricola, con la perdita di interesse della gran parte degli agricoltori, a protestare è rimasto solo uno sparuto gruppo. Ma la faccenda non sembra destinata a chiudersi facilmente. Elementi sospetti e una possibile strategia potrebbero riaprirla a breve.
La protesta sembra essere infatti stata agevolata da forze straniere, possibilmente legate a interessi russi e mirata a indebolire l’unione europea in vista delle elezioni di inizio giugno. A suggerire questa ipotesi ci sono alcuni elementi chiari.
Il primo, i leader della protesta sono esponenti di estrema destra di tutta Europa, molti di loro sono no vax che hanno avuto già in occasione del covid un ruolo di destabilizzazione rispetto alle misure governative.
Il secondo, è che sarebbero state riscontrate notevoli disponibilità economiche, la qual cosa poco si addice ad una protesta per avere pochi euro in più di sgravi e aiuti.
Infine, ciliegina sulla torta, gli slogan per lo stop agli aiuti all’Ucraina gridati durante le manifestazioni. Tutti elementi che hanno fatto drizzare le antenne alle intelligence di mezza Europa verso le proteste e verso la possibile strumentalizzazione in atto.
(da Il Giornaled’Italia)
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Febbraio 17th, 2024 Riccardo Fucile
“NIENTE SARA’ PIU’ COME PRIMA, OGNI NORMALIZZAZIONE E’ DIVENTATA IMPOSSIBILE, L’EUROPA DEVE PREPARARSI ALLA GUERRA”
Una cosa importante sarà capire come e dove sarà fata l’autopsia. E da chi. Ma il direttore della Novaya Gazeta Europe, Kirill Martinov, non ha dubbi sul fatto che lo abbiano ammazzato. Fonti del giornale all’interno dell’ente carcerario di stato, il Fsin, dicono che si sa decidendo sul post-mortem. Se venisse fatto nella sessa colonia penale dove Alexei Navalny stava scontando la pena, “allora forse il Fsin ha qualcosa da nascondere”, ha detto una delle fonti. Ma la garanzia indiretta che si stiano coprendo tracce verrebbe dal trasferimento del cadavere nella vicina struttura penitenziaria di Salekhard, dove c’è un crematorio pronto a cancellarle tutte col fuoco. “Comunque — dice il Kirill Martinov — quel che è successo oggi cambia completamente la prospettiva: il regime non si fermerà più davanti a niente”. Terrore in patria e guerra oltre confine, secondo l’ex vice del premio Nobel Dmitry Murato. Che dopo la persecuzione del giornale “madre” in Russia è espatriato e ha fondato la versione europea della Novaya Gazeta. E ora dice all’Europa di prepararsi al peggio.
Kirill Martinov trova il tempo di parlare a lungo al telefono con Fanpage.it mentre sta preparando con i colleghi il giornale.
Kirill, lo hanno ucciso?
Si tratta chiaramente di un assassinio politico. È stato ucciso il più importante oppositore del presidente Putin. Probabilmente l’unica persona in Russia che ha avuto una sua carriera politica negli ultimi 15 anni. Ha cercato inutilmente di essere eletto. E ha semplicemente chiesto una protesta pacifica contro la dittatura e contro la guerra.
Che cosa significa la morte di Navalny in questo momento storico?
Penso che sia un punto di svolta per la storia della Russia contemporanea. È un messaggio chiaro, da parte di Putin: significa che non esiste alternativa alla dittatura e alla guerra. Che dittatura e guerra saranno per sempre. E le persone che chiedono cambiamenti e vogliono un Paese normale, democratico e pacifico, verranno semplicemente uccise.
Terrore staliniano?
È un enorme passo avanti in termini di terrore contro quella parte della popolazione russa che sogna solo una vita normale. Non esisterà mai una vita normale. Non esiste più da quando Putin ha ordinato l’invasione dell’Ucraina.
Dittatura e guerra per sempre, diceva…
Sì. Ci hanno scommesso tutto. La scelta non è più negoziabile. Niente più compromessi neanche minimi. Saranno in grado di fare qualsiasi cosa. Penso che sia una cesura anche nei confronti del più aggressivo passato recente. Sarà molto peggio. Aspetteranno finché Trump non sarà eletto. La sognano a occhi aperti, l’elezione di Trump. E dopo, vogliono dividere l’Europa in due, come era nel 20° secolo
Una nuova cortina di ferro?
Che comporterà un enorme livello di violenza per quelle persone che si troveranno nel territorio controllato da Putin o dai suoi satelliti. Come il regime di Lukashenko in Bielorussia, per esempio.
Quale dovrebbe essere la reazione dell’Europa, cosa dovremmo fare? Cosa ci insegna, insomma, la morte in carcere di Alexey Navalny?
L’Europa deve prepararsi alla guerra. È abbastanza chiaro, quel che succederà. Abbiamo avuto due anni. E durante questi due anni di invasione su vasta scala dell’Ucraina, abbiamo discusso di come opporci all’invasione di Putin. Ma non ci sono stati grandi investimenti nella difesa. Non vedo alcuna idea su come l’Europa possa proteggersi senza l’aiuto dell’esercito americano.
E Putin questo la sa bene…
È una finestra di opportunità spalancata, per Putin. So che si sta davvero divertendo. Era molto felice quando gli è stato consegnato il messaggio su Navalny. L’Europa dovrebbe prendere sul serio il fatto che non c’è alcuna normalizzazione. L’unico modo di fermare Putin è la forza. Tutto punta in questa direzione. E non sono sicuro che l’Europa sia effettivamente pronta per questo.
A Mosca, per ora pochi commenti ufficiali. Le autorità sembrano prender la morte di Navalny con una ostentata sufficienza che somiglia all’arroganza: “Queste cose succedono”, ha detto il presidente della Commissione esteri del Senato russo. Che significa?
Come sempre, insisteranno sul fatto che è solo una coincidenza. Una specie di ironico incidente. Non hanno nemmeno la decenza di crearsi delle scuse credibili.
Potrebbe esserci una reazione popolare. Non che i sostenitori di Navalny siano molti, ormai. Ma anni fa, quando ancora in qualche modo era possibile manifestare, la sua lotta contribuì a mobilitare molte decine di migliaia di persone.
La società russa può ancora reagire in qualche modo. Anche molti funzionari di stato, ignari che le azioni violente del regime potessero arrivare ad avere una tale portata, potrebbero cominciare ad aver paura per il loro futuro. Niente è più prevedibile. Non capiscono quale potrà essere la reazione nel mondo e quale quella interna al Paese. Vediamo in queste ore che anche persone che di solito non menzionano affatto la politica della Russia stanno scrivendone sui social e su blog. Provano a fare alcune domande.
Ma andranno a manifestare contro il regime?
Non so se ci sarà un tentativo di organizzare una protesta di massa o qualcosa del genere. Perché è troppo pericoloso e tutti capiscono che lo è. Dovrebbero affrontare il terrore. Ma la gente capisce che non può più sognare una vita normale in questo Paese. Ed è un cambiamento enorme. Anche per chi per il regime lavora, come dicevo.
Che Navalny sia stato ucciso dal regime o sia morto naturalmente, è certo che a un mese dalle elezioni presidenziali Putin è passato all’offensiva. Se non altro mediatica, con l’intervista data all’ex anchor di Fox News Tucker Carlson. C’è una strategia precisa?
Sono abbastanza sicuro che con la scusa dell’intervista qualche messaggio sia stato consegnato a Putin non pubblicamente. Carlson fa parte della campagna politica di Donald Trump. Penso che abbia ispirato Putin ad essere — diciamo così — più coraggioso nel fare ciò che vuole veramente. E sicuramente è come un regalo per il dittatore russo prima delle cosiddette elezioni che lo riconfermeranno al potere.
Quanto rischiano gli atri prigionieri di coscienza nelle carceri di Putin? Sono oltre cinquecento. Tra loro, il più “pericoloso” per il regime è forse Vladimir Kara-Murza. Che è da poco stato trasferito in una sezione punitiva di un carcere siberiano, in una cella di isolamento simile a quella che aveva Navalny.
Putin vuole davvero essere la persona che può decidere su ogni singola vita in Russia. Certo, i prigionieri politici sono in pericolo, ma sono in pericolo anche quelle persone che sono ancora libere e che possono essere facilmente raggiunte dal governo. Possono davvero uccidere chiunque vogliano, dopo quello che hanno fatto oggi.
(da Fanpage)
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Febbraio 17th, 2024 Riccardo Fucile
LE ISTITUZIONI EUROPEE SONO PIU’ APPREZZATE AL CENTRO E AL NORD RISPETTO AL MERIDIONE… LE EMOZIONI IN MERITO ALL’UE, SONO IN PREVALENZA FIDUCIA (31%), PREOCCUPAZIONE (24%) E RABBIA (9%)
Italia divisa sull’Europa, tra fiducia e diffidenza, rabbia e preoccupazione. E’ la fotografia scattata in esclusiva per l’Adnkronos da Vis Factor tramite Human, piattaforma di web e social listening sviluppata a partire dal 2018 da un team interamente italiano con algoritmo a base semantica italiana.
Il 54,52% degli italiani esprime sui social network in prevalenza un sentiment positivo nei confronti dell’Europa, contro il 45,48% che la guarda con sospetto e attacca in Rete. Le emozioni che emergono dalle conversazioni sui social sono in prevalenza fiducia (31%), preoccupazione (24%) e rabbia (9%). Ma c’è anche un 17% di indifferenti.
Dell’Europa si dibatte maggiormente su Instagram (45,3%), ma anche su Facebook (30,1%) e su X (24,6%). Il tema interessa più gli uomini (61,9%) che le donne (38,81%). Chi mostra un giudizio favorevole sostiene che l’economia è in ripresa ed è cautamente ottimista verso il futuro, inoltre mostra fiducia nelle istituzioni europee. I critici sono invece preoccupati per il ruolo dell’Europa nello scacchiere internazionale, oltre che per l’immigrazione e la sicurezza.
Tra i concetti più citati in relazione all’Europa svettano le elezioni europee, il caso Ilaria Salis, la protesta dei trattori. Ma sui social si dibatte anche di green deal, di politiche europee e di banche centrali, con tutte le critiche del caso.
E’ interessante tuttavia notare che l’Italia è spaccata sostanzialmente in due sulla visione di Europa: infatti al Centro e, soprattutto, al Nord, prevale nettamente un sentiment positivo. Al sud e sulle isole, invece, negativo. Nel dettaglio, l’analisi realizzata da Vis Factor, società leader a livello nazionale nel posizionamento strategico, ha preso in considerazione le differenti circoscrizioni elettorali che andranno al voto a giugno per il rinnovo del Parlamento europeo.
Ecco quanto emerge riguardo alla visione di Europa: il sentiment positivo si attesta al Nord Ovest al 65,05%, al Nord Est 62,88%, al Centro 57,12%. Di segno opposto, dunque pollice verso, per le isole -52,84% negativo- e Sud, 57,43% negativo.
Anche i temi più dibattuti all’interno di ogni circoscrizione sono differenti, con l’economia a farla da padrona al Centro e al Nord e il lavoro che polarizza le conversazioni sui social nel Meridione. Per quanto riguarda il Nord est, online si parla di Europa in relazione a economia (31,16%), immigrazione (19,13%), lavoro (18,34%). Al Nord ovest di economia (27,56%) sanità (20,39%) e ambiente (17,14%). Al Centro di economia (29,33%), infrastrutture (19,87%) e ambiente 18,11%). Al Sud lavoro (30,24%), economia 22,55%), Mezzogiorno (16,11%). Sulle isole di infrastrutture (27,14%), lavoro (24,32%), economia (20,11%).
L’analisi di Vis Factor è stata realizzata prendendo in considerazioni le conversazioni social generate dagli utenti in relazione all’Europa in vista delle elezioni europee all’orizzione, a giugno 2024. Al fine di analizzare la semantica, il sentiment e le emozioni sono stati monitorati post e commenti dal 17 gennaio al 14 febbraio 2024 su X, Instagram, Threads e Facebook. Nel corso del periodo considerato, le menzioni rilevate sul tema Europa sono state circa 12.600, con 3 milioni e 200mila interazioni generate.
(da agenzie)
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Febbraio 17th, 2024 Riccardo Fucile
LE MANI SU VIALE MAZZINI: VIETATO ESPORRE IDEE NON CONFORMI AL REGIME
L’idea di proporre una sorta di “Daspo” per gli artisti che manifestano le proprie opinioni politiche in Rai dopo le parole di Ghali a Sanremo sulla guerra nella Striscia di Gaza (“stop al genocidio”) non è solo una boutade del sottosegretario alla presidenza del Consiglio leghista Alessandro Morelli.
L’uscita era concordata con il vicepremier Matteo Salvini – di cui Morelli è un fedelissimo – e a breve si trasformerà in una proposta concreta: la Lega sta preparando una risoluzione da presentare la prossima settimana in commissione di Vigilanza Rai, che chieda alla tv pubblica di allontanare per un tempo che va da sei mesi a un anno gli artisti come Ghali, dicono due dirigenti di primo piano del Carroccio a conoscenza della questione. E non solo da Sanremo, ma anche da tutti gli altri programmi che vanno in onda sulla televisione di Stato.
La risoluzione un limbo di 6 mesi o un anno
Un testo, che non è ancora definitivo, ma è in fase di preparazione e sarà presentato dai componenti della commissione di Vigilanza Rai Giorgio Maria Bergesio, Ingrid Bisa, Stefano Candiani, Elena Maccanti, Clotilde Minasi ed Elena Murelli: nell’impegno finale la Lega chiederà alla Rai di “valutare l’opportunità” di sospendere la partecipazione dell’artista che ha espresso opinioni politiche da tutti i programmi della Rai. Non è ancora chiaro quale sarà il “limbo” di questa sospensione, ma ci sono due ipotesi allo studio da parte del Carroccio: la prima è quella di metà stagione, circa sei mesi, la seconda è quella di una sospensione per un intero palinsesto. Insomma, l’artista ribelle dovrà sparire dalle reti della tv pubblica per un anno.
L’altra questione allo studio in via Bellerio riguarda quanto circoscrivere il concetto di “artista”: l’idea iniziale era quella di includere solo i cantanti nella risoluzione, ma adesso è più probabile che si parli anche di escludere tutti i personaggi del mondo dello spettacolo. L’importante, sarà il senso del documento presentato dalla Lega, è che non vengano espresse opinioni politiche all’interno dei programmi di intrattenimento. Non sarà facile metterla in pratica, perché la definizione di opinione politica resta troppo generica (una frase come quella di Dargen D’Amico sui migranti lo è?).
Lo scontro sul tavolo la sfida sulle nomine
Una risoluzione che si inserisce all’interno di una sfida per le prossime nomine della televisione pubblica. Il ministro delle Infrastrutture sta cercando di ottenere un posto di peso ai vertici di Viale Mazzini sponsorizzando la permanenza dell’attuale amministrazione delegato Roberto Sergio che dovrebbe essere sostituito dal meloniano Giampaolo Rossi. Non è un caso che nei giorni scorsi proprio Salvini si sia espresso più volte contro Ghali, in difesa dell’ad Sergio che è stato messo sotto scorta. Inoltre il vicepremier della Lega ha attaccato Trenitalia per il Frecciarossa che ha portato, a spese della Rai, giornalisti e manager da Roma a Sanremo. Chi c’era su quel treno? Rossi e non Sergio.
Imbarazzo fi e fdi restano in silenzio
Una risoluzione così pesante però rischia di creare qualche imbarazzo nella maggioranza. Giovedì il forzista Alessandro Cattaneo ha parlato di misura con una logica “illiberale”, mentre da Fratelli d’Italia nessuno ha voluto commentare.
Tra i meloniani però l’idea è che non sia questo il metodo per affrontare la questione delle opinioni degli artisti, anche perché l’approvazione di un provvedimento come questo si presterebbe alle accuse di censura proprio nel momento in cui si parla di “TeleMeloni” a proposito della Rai. Anche il presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia della Lega, Massimiliano Fedriga, ieri si è detto in disaccordo “sull’esclusione di qualcuno” anche se bisognerebbe garantire “il contraddittorio”.
Ieri anche il conduttore di Presadiretta, Riccardo Iacona, si è detto estremamente contrario: “La ritengo una cosa barbarica, quasi ungherese e lo dico io che sono figlio dell’editto bulgaro…”. “La Lega farnetica – dice la deputata del M5S Dolores Bevilacqua – la prossima mossa sarà il confino per Ghali e Dargen D’Amico?”.
Il diktat: via Damilano
Ma la Lega non si ferma qui. Un atto scritto per alzare i toni con i vertici della Rai è già stato presentato. Si tratta di un’interrogazione, che Il Fatto ha letto, firmata dai sei componenti leghisti della commissione di Vigilanza e rivolta all’amministrazione delegato della Rai contro il giornalista Marco Damilano e l’attivista e scrittrice Flavia Carlini. Nello specifico questi ultimi vengono attaccati per la puntata del Cavallo e la Torre (il talk serale di Damilano) in cui l’attivista Carlini si permetteva di criticare Salvini per le sue posizioni sul caso di Ilaria Salis sostenendo che “la sua posizione ci dice tantissimo sullo stato di salute della nostra democrazia”. Inoltre l’attivista aveva spiegato quanto il governo non accettasse più ogni forma di dissenso. Proprio Carlini, attivista con posizioni pro-Palestina, il 13 febbraio è stata tra i manifestanti manganellati dalla polizia fuori dalla sede Rai di Napoli solo per aver protestato contro la televisione pubblica dopo la censura nei confronti del cantante Ghali.
Ai leghisti la critica di Carlini in prima serata nei confronti del capo non è piaciuta e quindi nell’interrogazione scrivono: “Sarebbe d’uopo un maggior supplemento riflessivo se non dell’ospite almeno del conduttore”. Poi i leghisti parlano di “affermazioni gravissime al limite dell’istigazione, del tutto sottovalutate dal conduttore che non è mai intervenuto avallando nei fatti la tesi dell’attivista”. Proprio per questo la Lega chiede all’ad Rai Sergio “se non ritenga incompatibile” con il contratto di Servizio la puntata del Cavallo e la Torre, secondo quali “prescrizioni del contratto di servizio” vengono scelti i personaggi e se i vertici Rai “considerano la scelta editoriale del programma coerente con il ruolo e la funzione del servizio pubblico”. Insomma, si critica Salvini e la trasmissione va chiusa.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Febbraio 17th, 2024 Riccardo Fucile
ALTRO CHE CANDIDATI UNITARI AI CONGRESSI, DA NORD A SUD NEI TERRITORI E’ IN CORSO UNA GUERRA INTERNA E FRATRICIDA
Fratelli d’Italia veleggia sempre altissimo nei sondaggi, occhieggiando il 30 per cento alle europee spinto dal carisma della leader Giorgia Meloni. Se la punta dell’iceberg si gode l’indiscussa leadership anche rispetto agli alleati di centrodestra, sotto il pelo dell’acqua si agitano scontri fratricidi e faide locali.
Da molte sezioni periferiche sta emergendo il malcontento rispetto alla gestione della struttura partito, oggi in mano alla sorella della premier, Arianna, che è capo della segreteria politica e responsabile del tesseramento, e al deputato Giovanni Donzelli, che è responsabile dell’organizzazione.
Le bocche dei dirigenti, soprattutto a livello nazionale, rimangono cucite e nessuno è disposto a riconoscere in chiaro che effettivamente qualcosa non stia girando per il verso giusto. Eppure, dai territori emergono fatti che raccontano di un partito che forse è cresciuto troppo in fretta dal 4 per cento all’exploit delle politiche del 2022. E sta creando piccoli ras locali in contrapposizione l’uno con l’altro e a caccia di tessere, difesi o spalleggiati da altrettanti big nazionali in cerca di espandere la loro influenza in bacini elettorali.
Il primo sintomo oggettivo di questo malessere interno sempre più forte sono i congressi locali, dove sono scoppiati problemi con il tesseramento che hanno prodotto rinvii in molti territori.
La linea ufficiale fatta veicolare da via della Scrofa è stata quella di «congressi possibilmente con un solo candidato, per dare segno di unità», spiega un esponente locale in rotta con la linea ufficiale.
L’obiettivo è quello di mostrare un partito granitico, tanto che il più contestato tra gli articoli del codice etico di FdI, per le cui violazioni si finisce davanti ai probiviri, è il 4: vietato esprimere pubblicamente una linea diversa rispetto a quella dei vertici, il dissenso si può esprimere solo dentro gli organi di partito. Dietro questo velo, però, si stanno consumando vendette e formando leadership contrapposte sulla pelle degli iscritti locali.
IL TRIVENETO
Domani ha raccontato in questi giorni lo scontro che si sta consumando per la leadership in Trentino, dove la deputata Alessia Ambrosi (l’unica donna in tutta Italia candidata a un congresso locale) è stata esclusa nella corsa alla presidenza di FdI Trentino dai probiviri, che l’hanno sospesa per 15 giorni.
Gli iscritti – che la sostenevano in maggioranza rispetto al candidato espressione del commissario e deputato Alessandro Urzì – hanno tentato di far slittare il congresso per permetterle di correre, ma sono stati redarguiti direttamente da Donzelli.
Risultato: il congresso sarà plebiscitario, ma a costo di un partito lacerato e nel caos. Il Trentino come il Veneto sono i territori in cui si sta misurando la contrapposizione nazionale tra i ministri Adolfo Urso (che appoggiava Ambrosi) e Francesco Lollobrigida.
Se Urso ha metaforicamente perso il Trentino, ha conquistato il congresso in Veneto con la vittoria di Elena Donazzan, storica consigliera regionale di FdI che a lui fa riferimento. Lei sta scaldando i motori in vista di una potenziale successione a Luca Zaia, forte del suo grande radicamento.
A reclamare pubblicamente la candidatura, però, è anche il deputato Marco De Carlo, che sui quotidiani parla già da presidente in pectore forte del sostegno di Lollobrigida.
Tra i due Donazzan è convinta di vincere sui numeri, ma la scelta del candidato, soprattutto in una regione così importante, sarà certamente appannaggio dei vertici romani e il caso Trentino insegna che la volontà dei territori non è determinante.
L’EMILIA-ROMAGNA
Anche nella terra guidata da Stefano Bonaccini, la contrapposizione interna è forte: il vero regista è il fidatissimo capogruppo alla Camera Tommaso Foti, espressione istituzionale del partito e molto sostenuto dall’area emiliana.
Si sta però sempre più facendo largo la figura del sottosegretario Galeazzo Bignami, ancora perseguitato dalla foto in uniforme da nazista: viene dalla destra estrema ma è passato da Forza Italia e lo zoccolo duro locale del partito non gli riconosce l’autorità per esercitare – come sta facendo – il ruolo di plenipotenziario in regione.
Tanto che il suo pugno duro sulla scelta del candidato alle comunali di Molinella, piccolo comune alle porte di Bologna, ha provocato la fuoriuscita del segretario locale Giuseppe Pastore e in blocco di tutti i 50 militanti, che costituiranno una loro lista civica.
«Sono profondamente deluso e offeso dalle scelte effettuate da una classe dirigente provinciale e regionale, distratta e poco conoscitrice del territorio e delle sue problematiche, ma attenta alle consultazioni europee e regionali, la quale impone scelte non condivise dalla base», ha detto Pastore.
LA CAMPANIA
Come già successo ad Avellino e per la provincia di Napoli, anche nel capoluogo il clima è burrascoso, tanto che il congresso cittadino sarà una battaglia all’ultimo voto. I due competitor in gara sono Marco Nonno, potente ex consigliere regionale entrato a gamba tesa nella competizione e considerato un ras delle preferenze, e Diego Militerni, che fa riferimento al gruppo del deputato Edmondo Cirielli.
La probabile vittoria di Nonno porterebbe il partito su posizioni decisamente estreme rispetto all’approccio più moderato degli ultimi mesi e non c’è aria di pacificazione interna. Anzi, lo scontro si sta trascinando già da mesi e ha portato a rimandare di settimana in settimana il congresso, fino a questo fine settimana.
Sullo sfondo, intanto, rimane anche il congresso forse più importante: quello della città di Roma, dove si scontrano le due anime storiche, i Gabbiani di Fabio Rampelli da una parte e il cerchio magico di Meloni con Lollobrigida dall’altro.
Anche qui la data è stata rinviata più volte fino alla prossima settimana, con guai sul tesseramento e dubbi sul regolamento. Il segno di un partito diventato troppo grande troppo in fretta, con molte ambizioni che cozzano dall’unanimismo gradito alla leader.
(da editorialedomani.it)
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Febbraio 17th, 2024 Riccardo Fucile
LA LEGA: “LO QUERELIAMO”… CALENDA REPLICA: “PERO’ QUERELAMI SUL SERIO, COSI’ PARLIAMO DEI LEGAMI TRA LEGA E RUSSIA, TI ASPETTO”
Carlo Calenda attacca la Lega sul caso di Aleksej Navalny, morto ieri in prigione. “Matteo Salvini non ha ritenuto di dire una parola sull’assassinio di Navalny. Il legame con Putin e il suo partito rimane forte”, ha accusato sui social il leader di Azione.
Calenda, ai microfoni di Radio 24, ha anche sottolineato che “non capiamo che se Mosca non verrà contenuta arriveremo al conflitto diretto con la Russia. La storia russa è di un’aggressiva penetrazione in Europa. La storia è tornata”.
E ha attaccato ancora il Carroccio: “I putiniani d’Italia sono coloro che fanno finta di non vedere che abbiamo un confronto con la Russia putiniana. Dopo l’omicidio di Navalny – perché di omicidio si tratta, perché una passeggiata a meno 50 gradi è omicidio – ieri tale Crippa della Lega ha detto: non sappiamo ancora nulla. Ma chi può essere stato, Gamba di Legno? Questo è anche disdicevole, c’è l’idea di solleticare una parte del Paese che dice: ma chi se ne frega se la Russia è così”.
Non si è fatta attendere la replica della Lega: “Carlo Calenda mente o non sa di cosa parla: il comunicato con il cordoglio di Matteo Salvini e della Lega per la morte di Navalny è di ieri pomeriggio e si parla di scomparsa ‘sconcertante’ su cui fare ‘piena luce’. Questa volta, oltre alla smentita, Calenda riceverà anche una querela”, si legge in una nota del partito.
Alla quale è seguita subito una contro-replica del leader di Azione: “Sì, però Matteo Salvini querelami sul serio. Così facciamo un bel confronto sui legami tra Lega e Putin. Ti aspetto”.
(da agenzie)
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