Febbraio 1st, 2024 Riccardo Fucile
DURANTE L’INTERROGATORIO LA SALIS HA CONFERMATO LA SUA DENUNCIA SULLE CONDIZIONI DETENTIVE
C’è una nuova lettera di Ilaria Salis. Ed è un’altra lettera di denuncia. La maestra antifascista di 39 anni detenuta da quasi un anno nel carcere di Budapest, ha scritto il 30 gennaio all’ambasciatore italiano in Ungheria Manuel Jacoangeli. E ha raccontato che dopo la prima udienza del suo processo del 29 gennaio, quella in cui è stata trainata ammanettata e al guinzaglio in tribunale, è stata interrogata in una stanza da due agenti donne della polizia penitenziaria del carcere di massima sicurezza in merito alle sue condizioni detentive.
Al termine del suo interrogatorio le è stato fatto firmare un verbale delle sue parole redatto in lingua ungherese. “Purtroppo in prigione dobbiamo seguire gli ordini e ho dovuto firmare pur non avendo capito”, ha scritto Ilaria nella nuova lettera dal carcere.
“Il timore di Salis – spiega da Milano il suo avvocato Eugenio Losco – è che le sue risposte sulle condizioni in carcere non corrispondano a quelle effettivamente fornite agli operatori penitenziari”.
Seppur intimorita, Ilaria ha confermato alle due agenti tutte le accuse mosse all’istituto penitenziario ungherese nella missiva scritta e inviata ai suoi avvocati il 2 ottobre scorso: dagli abiti sporchi tenuti per settimane dopo l’arresto al cibo scarso e di pessima qualità, dalle infestazioni di cimici nel letto alla presenza di topi e scarafaggi, dalla mancata consegna di referti medici dopo i controlli per un nodulo al seno alla mancanza d’aria nelle celle sovraffollate.
Una delle due agenti che l’ha interrogata parlava italiano. Ma al termine del racconto le è stato consegnato un foglio da firmare tutto in ungherese, una lingua che Salis non conosce. “Ho dovuto firmare – ha scritto in sintesi all’ambasciatore – perché rifiutarsi di eseguire un ordine in carcere non è una cosa ben vista. Ho avuto paura delle conseguenze”.
“È molto, ma molto preoccupata per quello che sta succedendo in carcere”, aggiunge l’avvocato Eugenio Losco, che oggi ha ricevuto la lettera per volontà della stessa Ilaria che ha chiesto all’ambasciatore di condividerla con i suoi avvocati.
“Le è stato praticamente ordinato di firmarlo – spiega ancora Losco – e mi inquieta che su quel foglio ci siano parole per screditare la mia assistita. Ho chiesto l’intervento dell’ambasciata per avere copia di queste dichiarazioni, ma mi chiedo che adempimento era, se era una forma di intimidazione o un tentativo di spaventarla”.
“È su questo che dobbiamo concentrarci – conclude l’avvocato, riferendosi alle polemiche della Lega sulle manifestazione a cui in passato ha partecipato Ilaria Salis – non su altre su altre vicende personali di Ilaria che sono irrilevanti”.
(da La Repubblica)
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Febbraio 1st, 2024 Riccardo Fucile
SU ILARIA SALIS È STATO CHIARO E DIRETTO, MENTRE MELONI NON SPENDEVA UNA PAROLA E LOLLOBRIGIDA TERGIVERSAVA
Ultimamente il fu mentore di Giorgia Meloni usa la carota ma anche il bastone nei confronti dei suoi ex discepoli che siedono a Palazzo Chigi. Fabio Rampelli, il leader della corrente dei gabbiani di Colle Oppio, negli ultimi giorni ha fatto più di un distinguo rispetto alla capa di Fratelli d’Italia e al suo cerchio magico su argomenti “sensibili”: dal caso di Ilaria Salis alla commemorazione della Shoah passando per le polemiche sui bracci tesi nel ricordo dei fatti di Acca Laurentia.
Rampelli, che Meloni non ha mai davvero promosso se non con un incarico di vice presidente della Camera, è spesso una voce fuori dal coro. Oppure semplicemente una voce che parla quando da Palazzo Chigi impongono il silenzio.
Una sorta di alter ego di Giovanbattista Fazzolari, il regista della propaganda meloniana. Per carità, fino a ieri Rampelli esaltava l’azione del governo “che c’entra gli obiettivi più importanti”. Ma in casa Fratelli d’Italia si sa, annotano più le note “stonate” che quelle intonate al coro meloniano.
Così non è passata inosservata la distanza siderale tra i commenti di Lollobrigida e Rampelli sul caso di Ilaria Salis, l’attivista italiana arrestata in Ungheria e portata in udienza con manette ai polsi e catene ai piedi. “Non ho visto le immagini, quindi non commento”, ha detto il ministro dell’Agricoltura, mentre Rampelli invece non si nascondeva dietro a un dito e anzi invitava la “sua” premier a riportare in Italia la connazionale: “Sono certo che il presidente Meloni – ha detto Rampelli – saprà usare tutto ciò che è in suo potere, nel rispetto delle prerogative della magistratura, per ottenere il rientro della signora Salis in Italia e lo svolgimento di un giusto processo, senza catene. Le immagini di ieri ci hanno turbati. Nonostante ci fossero giunte informazioni sul trattamento ai limiti della disumanità nel carcere ungherese nessuno si aspettava immagini così forti e così lesive della dignità umana”.
Chiaro e diretto, mentre Meloni non spendeva una parola e Lollobrigida tergiversava. Come ha fatto anche nel Giorno della Memoria. Se Giorgia Meloni e Ignazio La Russa mostravano ancora qualche reticenza, e il sottosegretario Alfredo Mantovano a domanda sul fascismo rispondeva parlando della Corea del Nord, il vicepresidente della Camera dava un giudizio senza possibilità di fraintendimento sui regimi totalitari: “Il nazismo e il fascismo ci fanno vergognare”.
Chiaro e diretto, ancora una volta, mentre i suoi ex allievi prendevano tempo. E non finisce qui. Rampelli dopo le polemiche sulla commemorazione per i fatti di Acca Laurentia con quelle file di braccia tese che hanno fatto inorridire mezza Europa, ha preso posizione. E non come ha fatto il presidente del Senato per dire che le braccia tese non sono reato. “Sono persone di varia provenienza, cani sciolti, organizzazioni extraparlamentari che non hanno niente a che vedere con FdI”, ha detto invece il vicepresidente della Camera.
Insomma, Rampelli non ci sta a seguire il coro anche se a intonarlo è Palazzo Chigi. E molti tra i fedeli meloniani iniziano a irrigidirsi. Chiedendosi perché Rampelli ama ogni tanto andare per la sua strada. Lui comunque non critica mai il governo, ma proprio perché Meloni non gli ha dato alcun ruolo vero di peso, di governo o parlamentare, e nemmeno lo candideranno alle Europee, se può dice la sua. Senza consultarsi e senza stare lì a vedere cosa hanno detto prima dal cerchio magico meloniano. Che intanto annota i suoi “disaccordi”.
(da La Repubblica)
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Febbraio 1st, 2024 Riccardo Fucile
“È TRISTISSIMO VEDERE COME CRESCANO I PROPRI FIGLI CON I VALORI DELLA CATEGORIA, DICONO ‘SE NON RUBI TU RUBA IL TUO AMICO, QUINDI CONVIENE FARTI FURBO”… POI RACCONTA DELLE TRUFFE AI DANNI DEI POVERI TURISTI STRANIERI
La situazione dei taxi in Italia è un argomento spesso dibattuto anche da persone del mondo dello spettacolo, della politica e da influencer che ne hanno denunciato le irregolarità sui social. Ma quando le critiche vengono da chi con i tassisti ci vive è lecito riconoscerne la veridicità?
L’utente anonimo, che ha scelto il nickname BlackJuniperDK, ha raccontato sui social di essere nato e cresciuto in una famiglia di tassisti che giudica «ignoranti, disonesti», ma soprattutto «grandi evasori fiscali». Il quesito del ragazzo è solo uno: «Cosa possiamo fare, come cittadini, per far crollare il loro castello di carte?»
Su Reddit BlackJuniperDK ha spiegato da cosa nasce il suo disprezzo per la categoria. Nato e cresciuto in una famiglia che conta ben sette tassisti – di cui quattro ancora in servizio – il ragazzo ha confessato che proprio non sopporta chi guida i taxi. I soldi non sono mai stati un problema nella sua famiglia, specialmente i contanti che «in casa giravano a iosa». Un riferimento a quel cash tanto preteso dai tassisti che spesso si rifutano di far pagare i clienti con carta di credito.
Storie non inventate, ma denunciate e anche riprese in video da cittadini, turisti e giovani donne. «Ci sono sempre state storie di truffe agli stranieri, facendo sgami del tipo: “Il Pos non funziona”», ha confidato. «È tristissimo vedere come i tassisti crescano i propri figli con i valori della categoria: “se non rubi tu ruba il tuo amico, quindi conviene farti furbo”», ha scritto il giovane, che ha spiegato di aver lasciato l’Italia e di essersi trasferito all’estero proprio per non dover sottostare a questa “tradizione”.
Poi ha raccontato di come questo tipo di lavoro venga tramandato di padre in figlio e guai se non si riesce ad avere la licenza. BlackJuniperDK ha ricordato di quando un membro della sua famiglia non riusciva a ottenere «la patente del taxi». Poi, il gran finale: «Vi giuro, io piuttosto che prendere un taxi faccio l’autostop: ho una repulsione viscerale verso questa nicchia di disonesti», ha concluso BlackJuniperDK.
(da agenzie)
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Febbraio 1st, 2024 Riccardo Fucile
LA “IVANOVETS” STAVA PATTUGLIANDO L’AREA VICINO ALLA CRIMEA, QUANDO IMPROVVISAMENTE È STATA ATTACCATA… PER PUTIN È UN DANNO DA 60-70 MILIONI DI DOLLARI
L’intelligence militare ucraina Gur ha affermato che una delle sue unità ha distrutto e affondato stanotte la nave Ivanovets della flotta russa del Mar Nero. Secondo quanto riferito dal Gur, che pubblica su Telegram un video dell’attacco, la nave nemica “stava pattugliando il Mar Nero vicino al lago Donuzlav, vicino alla Crimea occupata.
A seguito di una serie di colpi diretti allo scafo, la nave russa ha subito danni incompatibili con ulteriori movimenti ed è affondata. Secondo le prime informazioni, l’operazione di ricerca e salvataggio degli occupanti russi sul Donuzlav non ha avuto successo”, sostiene il Gur.
Non c’è stata alcuna notizia dell’incidente da parte delle autorità russe, sottolinea la Bbc riportando tuttavia che il blogger militare russo “Voenkor Kotenok” ha scritto su Telegram che la barca era affondata dopo essere stata colpita tre volte dai droni navali.
Diverse caratteristiche visibili sulla nave nel video ucraino corrispondono a quelle della classificazione Nato Tarantul o Progetto 12411, classe di navi missilistiche gestite dalla marina russa e da altre marine a cui appartiene l’Ivanovets. La direzione principale dell’intelligence ucraina ha affermato che l’imbarcazione è stata distrutta dai soldati della sua unità speciale “Gruppo 13” nel lago Donuzlav, una baia di acqua salata sul lato occidentale della penisola di Crimea che ospita una base navale.
Gli ucraini stimano il valore della nave in circa 60-70 milioni di dollari. Secondo il funzionario del ministero degli Esteri Olexander Scherba, citato da Bbc, l’attacco è stato “impressionante”: “Alle 03:45 (ora locale) c’è stato il primo colpo e alle 04:00 l’intero equipaggio era già stato evacuato.
Quindi non c’era alcuna possibilità che questa nave venisse salvata”, ha detto alla Bbc. Se confermato, quello dell’affondamento dell’Ivanovets sarebbe l’ultimo di una serie di successi nella guerra dentro e intorno al Mar Nero, dove le forze ucraine hanno danneggiato o distrutto navi da guerra russe nonostante non disponesse di una flotta propria. A dicembre, Kiev ha dichiarato di aver distrutto la grande nave da sbarco Novocherkassk a Feodosia, in Crimea, mentre la Russia ha confermato che la nave è stata danneggiata.
(da agenzie)
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Febbraio 1st, 2024 Riccardo Fucile
DALL’ABOLIZIONE DEL RDC ALLA SFORBICIATA SULL’ACCOGLIENZA AI MIGRANTI, DAI 3,5 MILIARDI TOLTI AL SUD ALLE RISORSE DIMEZZATE PER I COMUNI
Per i “patrioti” che governano il Paese c’è un’Italia di serie b. È quella di chi è povero, di chi accoglie i migranti, di chi si rivolge alla sanità pubblica, di chi aspetta invano un sistema ferroviario decente al Sud, ma anche di quei sindaci costretti a barcamenarsi per far tornare i conti del loro Comune.
Passare in rassegna i tagli di bilancio decisi dall’esecutivo restituisce una fedele cartina di tornasole per comprendere quali siano gli ambiti che per la destra non meritano attenzione. Uno – ed è una gran sorpresa – sembra essere la famiglia: per il 2024 Palazzo Chigi ha tagliato il budget a disposizione della ministra Eugenia Roccella del 9% rispetto al 2023.
L’anno scorso erano stati stanziati 166 milioni di euro, quest’anno 151 milioni. E dire che la premier Giorgia Meloni in passato ha definito la famiglia come la «priorità assoluta dell’azione di governo». Figurarsi se non lo fosse stata
La sforbiciata più netta, però, la Presidenza del Consiglio l’ha riservata ai fondi per il sostegno all’editoria, che crollano dai 204 milioni di euro del 2023 ai miseri 84 milioni di quest’anno. Il tutto mentre, al contrario, la premier si guadagna il poco sobrio primato di avere lo staff più costoso della storia della repubblica.
Per gli uffici di diretta collaborazione di Meloni, infatti, nel 2024 si prevedono spese per quasi 22 milioni di euro, mentre con Mario Draghi la cifra massima fu di 18,8 milioni, con Giuseppe Conte non si superarono mai i 16,8 milioni e con Matteo Renzi si era addirittura a quota 12 milioni. E chissà quanto potrebbero lievitare ancora i costi se andasse in porto la riforma del premierato
Intanto, una delle poche promesse mantenute dalla destra è stata la guerra ai poveri. Dallo scorso primo gennaio il Reddito di Cittadinanza non esiste più. Al suo posto il Governo ha introdotto due nuove forme di sussidio, distinguendo tra indigenti occupabili e indigenti non occupabili: secondo Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, chi ha in famiglia un disabile, una persona sopra i 60 anni o un minorenne va considerato “non occupabile”, mentre tutti gli altri sono dei potenziali «divanisti» che potrebbero comodamente trovarsi un lavoro.
Ebbene, adesso per i non occupabili c’è l’Assegno di Inclusione, con requisiti analoghi a quelli del Reddito di Cittadinanza: il direttore generale dell’Inps ha reso noto di recente che l’importo medio sarà di 630 euro al mese e che finora ne hanno fatto richiesta circa 500mila famiglie.
Per gli occupabili, invece, dallo scorso settembre è prevista solo un’indennità, chiamata Supporto per la Formazione e il Lavoro, pari a 350 euro mensili ricevibili per un massimo di un anno. In base agli ultimi dati disponibili, le domande per questo tipo di sostegno sono state finora 160mila, solo un terzo delle quali tuttavia provenienti da ex percettori del Reddito.
Secondo una stima fatta dalla Banca d’Italia, l’abolizione del Rdc ha privato del salvagente circa 900mila famiglie, che rischiano ora di annegare nel mare della povertà. In particolare, la platea di potenziali beneficiari dell’Assegno di Inclusione è pari a 1,2 milioni di nuclei famigliari, contro i 2,1 milioni di nuclei a cui si rivolgeva potenzialmente il Reddito.
Il risparmio per le casse dello Stato, per giunta, sarà molto inferiore rispetto alle cifre sbandierate dal centrodestra quando era all’opposizione: appena un miliardo di euro all’anno, a fronte di una spesa che non scenderà sotto i 7 miliardi annui.
Non solo. I tecnici di Bankitalia hanno anche rilevato che «le caratteristiche socio-demografiche dei componenti dei nuclei percettori di Rdc lasciano presagire difficoltà di (re)inserimento lavorativo»: tra gli ex percettori del Reddito, infatti, circa l’80% possiede al massimo la licenza media e circa la metà dei disoccupati lo era da oltre cinque anni.
Sindaci in mutande
Detto dei poveri, l’altro nemico pubblico numero uno per il Governo Meloni sono i migranti. E anche qui si è andati di mannaia. Il Fondo per l’accoglienza dei migranti e dei minori stranieri non accompagnati è stato depotenziato per finanziare un incremento delle risorse destinate alle forze di polizia, alle forze armate e ai vigili del fuoco: un «esempio di come questo governo sia impegnato nei confronti degli uomini e delle donne in divisa», ha sottolineato il ministro della Difesa, Guido Crosetto.
Il Fondo per i migranti è stato alleggerito di 17 milioni di euro per il 2024, di 21 milioni per il 2025 e di 15 milioni per il 2026. Non è ancora noto come sarà ripartito il taglio sul territorio nazionale, ma – come ha spiegato qualche giorno fa, durante il Consiglio comunale di Bologna, l’ assessore alle Nuove cittadinanze Luca Rizzo Nervo – è già «possibile affermare che ridurre le risorse per l’accoglienza significa ridurre i servizi per l’integrazione dei migranti, con il rischio concreto di favorire condizioni di grave marginalità, il lavoro sommerso e lo sfruttamento delle persone da parte della criminalità».
I Comuni sono – e non da oggi, a onor del vero – tra i più tartassati quando lo Stato centrale ha bisogno di denaro fresco. Le risorse assegnate direttamente agli enti locali dall’ultima legge di bilancio ammontano a circa 1,1 miliardi di euro: sono inferiori di un terzo rispetto agli 1,6 miliardi del 2023 e addirittura dimezzate rispetto ai 2 miliardi del 2022. Lo ha calcolato il Centro Studi Enti locali, secondo cui, «come evidenziato dall’Anci, dopo sette anni di stop, lo spettro della spending review si è ufficialmente riaffacciato sul mondo dei Comuni».
A questa sforbiciata vanno sommati i 13 miliardi di euro di progetti municipali che il ministro Raffele Fitto ha escluso dal Pnrr e spostato sul Piano energetico europeo RepowerEu. Sulla rimodulazione dei fondi, peraltro, il presidente dei sindaci Antonio Decaro, primo cittadino di Bari, ha recentemente lamentato poca chiarezza da parte del Governo.
Retromarce
La revisione del Pnrr elaborata dal ministro Fitto lo scorso agosto aveva escluso 3,3 miliardi di euro destinati a progetti per la riqualificazione delle periferie. A ottobre, però, il Governo ha fatto marcia indietro e stabilito che per i Comuni che si impegnano a concludere i lavori entro il 30 giugno 2026 le risorse saranno confermate.
Nella nuova versione del Pnrr, invece, è confermata la riduzione dei nuovi posti negli asili nido da 264mila a 150mila: una modifica che secondo la segretaria del Pd Elly Schlein «smaschera la vera natura di un governo che si muove contro le donne e contro i bambini e le bambine».
Molto clamore ha poi suscitato nei giorni scorsi la mancata proroga in legge di bilancio del Fondo per il contrasto dei disturbi alimentari. Il Fondo era stato istituito nel 2021 e per il biennio 2022-2023 erano stati stanziati complessivamente 25 milioni di euro. Lo stop ai finanziamenti deciso dall’esecutivo ha provocato la sollevazione di quaranta associazioni dei familiari dei pazienti, preoccupate dal rischio di veder chiudere decine di centri per la cura di anoressia, bulimia e altri disturbi di questo tipo, di cui in Italia soffrono circa 3 milioni di persone.
E la protesta si è rivelata efficace, tanto che la scorsa settimana il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha annunciato un emendamento al decreto Milleproroghe che rifinanzierà il Fondo con 10 milioni di euro.
Disabili nel limbo
Più complessa la situazione per i diversamente abili. Nel 2023 il Governo Meloni ha azzerato il Fondo da 350 milioni di euro per le politiche in favore delle persone con disabilità dirottando le risorse sui bonus edilizi.
Stessa cosa – va detto – aveva fatto il Governo Draghi l’anno precedente, quando i 300 milioni destinati al Fondo in favore dei disabili erano stati spostati altrove, in particolare per pagare i vaccini anti-Covid, gli straordinari degli agenti di polizia penitenziaria e le bollette energetiche del terzo settore. Il problema stava nel fatto che quello stanziamento per le persone diversamente abili restava lettera morta, in mancanza dei decreti attuativi alla legge delega sulla disabilità connessa al Pnrr.
Nel 2023, quindi, le persone disabili hanno potuto contare solo su altre singole forme di finanziamento previste dallo Stato, per un totale di circa 280 milioni di euro.
Anche per il 2024 il Fondo per le politiche in favore delle persone con disabilità è stato quasi interamente svuotato: in legge di bilancio si legge che è ridotto di 320 milioni di euro. La buona notizia, però, è che questi 320 milioni sono andati a ingrossare un nuovo Fondo, denominato Fondo unico per l’inclusione delle persone con disabilità, che da quest’anno sostituisce tutte le altre precedenti forme di sostegno economico ai disabili.
Questo nuovo Fondo parte con una dotazione complessiva di 552 milioni di euro, ma dal 2025 sarà più che dimezzato, scendendo a quota 232 milioni. A quel punto sarà fondamentale vedere a che punto saremo con l’attuazione della legge delega sulla disabilità, che teoricamente l’anno prossimo avrà a disposizione circa 450 milioni di euro.
Il divario Nord-Sud
E veniamo ora al Sud lasciato annaspare nei suoi problemi. La manovra firmata Meloni-Giorgetti ha aspirato quasi tutte le risorse del Fondo di perequazione infrastrutturale, che era stato introdotto dal Governo Conte 2 per ridurre il divario infrastrutturale fra le varie aree del Paese: lo stanziamento previsto da 4,6 miliardi di euro è stato ridotto a meno di 800 milioni.
La maxi-sforbiciata è stata denunciata dall’ex ministra del Sud, Mara Carfagna (Azione), ma sulle barricate è salito anche il governatore della Puglia, Michele Emiliano, che ha preso carta e penna e scritto al presidente delle Regioni, il leghista Massimilano Fedriga, lamentando «effetti particolarmente negativi per l’equità del sistema infrastrutturale per tutte le regioni e in particolare per quelle del Sud».
La questione è ancor più seria se si considera che queste risorse avrebbero potuto fungere anche da contrappeso rispetto al progetto dell’Autonomia differenziata a cui sta lavorando il ministro leghista Roberto Calderoli: un piano che lo Svimez (Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno) ha definito «anacronistico», anche alla luce degli choc economici degli ultimi anni, perché rischia di portare a una «frammentazione insostenibile delle politiche pubbliche».
Ma soprattutto, avverte lo Svimez, «a questo quadro di frammentazione si aggiungono i rischi di un “congelamento” dei divari territoriali di spesa pro capite già presenti e di un indebolimento delle politiche nazionali redistributive (tra individui) e di riequilibrio territoriale».
Infine, a proposito di divari infrastrutturali, durante l’esame della legge di bilancio alla Camera, la maggioranza ha bocciato un emendamento presentato dal deputato del Pd Andrea Casu insieme al pentastellato Antonino Iaria e a Francesca Ghirra di Alleanza Verdi Sinistra per potenziare il Fondo nazionale del Trasporto pubblico locale. La proposta era di incrementare gli stanziamenti di 700 milioni di euro nel 2024, di un miliardo nel 2025 e di 1,5 miliardi di euro nel 2026 utilizzando risorse attualmente destinate ai sussidi ambientalmente dannosi. Ma la destra ha detto no. Per i “patrioti” del nuovo millennio, evidentemente, è meglio continuare a incentivare petrolio e gas che investire in bus ecologici e tram.
(da TPI)
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Febbraio 1st, 2024 Riccardo Fucile
SI METTE ANCHE FORTEMENTE IN DUBBIO LA “CONTINUITÀ AZIENDALE” DELLA SOCIETÀ E SI EVIDENZIANO “CRITICITÀ SULLA GARANZIA DELLA “PITONESSA” (LA SUA CASA MILANESE DA 6 MILIONI)
bilancio al 31 dicembre 2022 e relazione semestrale al 30 giugno 2023 “non risultano correttamente” predisposti e “gli assetti organizzativi, contabili e amministrativi appaiono inadeguati”.
Sono alcuni passaggi della relazione ispettiva disposta dal Tribunale civile di Milano nella causa promossa da alcuni piccoli soci di Visibilia editore, una delle società del gruppo fondato dalla ministra Santanchè, che ora è in composizione negoziata della crisi. Nella relazione, depositata ieri, è stata messa in dubbio anche la “continuità” aziendale della società da cui la senatrice ha dismesso la carica di presidente nel gennaio 2022.
La relazione ispettiva della commercialista Daniela Maria Ausilia Ortelli è stata disposta lo scorso 4 ottobre dai giudici (Simonetti-Ricci-Zana) che hanno accolto la richiesta del gruppo di soci di minoranza, guidati da Giuseppe Zeno e rappresentati dall’avvocato Antonio Piantadosi, che hanno intentato causa per presunte irregolarità, e dei pm Laura Pedio e Marina Gravina, titolari di più filoni di inchiesta sul caso Visibilia.
Dagli accertamenti ispettivi, oltre a non essere risultati “correttamente predisposti bilancio e semestrale”, è stato appurato che “non vi sono ragioni per discostarsi” dai dubbi sulla “continuità” già sollevati dai revisori relativamente al bilancio al 31.12.2021. E poi che “gli assetti organizzativi, contabili e amministrativi appaiono inadeguati”.
Inoltre, si sottolinea, “il business plan 2023-2025 predisposto da Epyone è stato rinunciato a seguito del mancato avvio delle attività necessaria alla sua implementazione da parte di Sif”, azionista di maggioranza e società guidata da Luca Ruffino, che lo scorso autunno si è sfilata dal progetto di risanamento.
Ruffino – morto suicida lo scorso agosto – era pure ex presidente della stessa Visibilia Editore. Per questo Visibilia Editore holding che ha in pancia Visibilia Editrice, ha fatto ricorso alla “composizione negoziata della crisi (manovra di gruppo) allegando un business plan basato sulla sola attività editoriale e supportato da un necessario apporto dei soci”. La relazione si discuterà in aula il prossimo 22 febbraio. Nello scenario peggiore per vecchi e nuovi amministratori gli esiti dell’ispezione potrebbero portare al commissariamento della società e al fallimento, con i profili penali di bancarotta annessi.
“Il vincolo di destinazione sugli immobili della dott.ssa Garnero Santanchè, piuttosto che costituire una garanzia per Visibilia Editrice, in realtà l’ha ridotta”. Lo scrive la commercialista Daniela Maria Ausilia Ortelli nella sua relazione ispettiva su Visibilia Editore, depositata oggi dopo quasi 4 mesi di lavoro e disposta dal Tribunale civile di Milano nella causa promossa da un gruppo di soci di minoranza, capeggiati da Giuseppe Zeno e assistiti dall’avvocato Antonio Piantadosi.
Nelle 26 pagine del documento, che passa in rassegna anche i debiti infragruppo della galassia Visibilia, di cui la ministra Santanchè era presidente fino al gennaio 2022, si parla anche “dell’accollo” dei debiti da parte della senatrice di Fdi, la quale, come era già emerso, ha messo come garanzia la sua casa milanese del valore di quasi 6 milioni di euro.
In caso di “omologa dell’accordo di ristrutturazione di Visibilia srl in liquidazione (una delle società del gruppo, ndr), che è sub judice”, scrive l’esperta, “il vincolo di destinazione sugli immobili” di Santanchè, “giacché trascritto a beneficio della procedura concorsuale di Visibilia srl” sarà “opponibile anche a Visibilia Editrice”, di cui Visibilia Editore è la holding, “con la conseguenza – si legge – che il vincolo di destinazione sugli immobili della dott.ssa Garnero Santanchè, piuttosto che costituire una garanzia per Visibilia Editrice, in realtà l’ha ridotta”.
Tra i quesiti posti per l’ispezione, infatti, i giudici Simonetti-Ricci-Zana hanno posto anche la questione del “rispetto del piano di rientro da parte delle debitrici Visibilia Concessionaria srl e di Visibilia srl in liquidazione”, debitrici nei confronti di Visibilia Editore.
Il piano di rientro di Visibilia srl è stato, “sino al 31.12.2023, rispettato” e “in caso di omologa dell’accordo di ristrutturazione di Visibilia srl”, su cui manca ancora la validazione del Tribunale, “unico debitore di Visibilia Editrice”, al posto della srl, “diventerà la dott.ssa Garnero Santanchè personalmente”. La lettera di patronage di Visibilia Concessionaria, inoltre, “diventerà inefficace” e quest’ultima “non potrà dare corso a pagamenti a favore di Visibilia Editrice per debiti personali della dott.ssa Garnero Santanchè”.
E “il vincolo di destinazione sugli immobili” sarà “opponibile anche a Visibilia Editrice”. Nella relazione viene segnalato anche che Visibilia Concessionaria ha un debito commerciale a fine 2023 di quasi 750mila euro “che risulta relativo a fatture commerciali non scadute”. Nel biennio 2022-2023 Visibilia Concessionaria “ha pagato i debiti nei confronti di Visibilia Editrice sul conto corrente della stessa per” quasi 3 milioni di euro e “mediante pagamento diretto ai creditori di Visibilia Editrice” per quasi 3,5 milioni di euro
(da agenzie)
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Febbraio 1st, 2024 Riccardo Fucile
IERI ERA AD AOSTA PER IL PATTO SUI FONDI DI COESIONE E SVILUPPO 2021-2027. PRESTO SARÀ IN TOSCANA E ABRUZZO… DOPO PORRO E VESPA, TOCCA A DEL DEBBIO (SOLO GIORNALISTI AMICI)
Ieri Giorgia Meloni prima di volare a Bruxelles per il Consiglio europeo straordinario è stata ad Aosta per firmare l’accordo per i Fondi di Coesione e Sviluppo 2021-2027. Soldi europei già stanziati che vengono ripartiti con i patti firmati tra governo e Regioni.
Fino a oggi la premier ne ha già sottoscritti sei e nelle prossime settimane andrà anche in Toscana e Abruzzo. Su questi patti ha intenzione di costruire la campagna elettorale per le elezioni europee. A cui aggiungerà presto qualche comizio nelle Regioni in cui si vota e in alcune grandi città e diverse ospitate televisive per far sentire la propria presenza.
Negli ultimi giorni la leader di Fratelli d’Italia ha studiato con i suoi collaboratori più stretti la campagna elettorale per le elezioni europee. Si dovrebbe candidare in prima persona escludendo la sorella Arianna e i ministri e l’obiettivo è chiaro: […[ non vuole dare l’idea di togliere tempo al suo incarico istituzionale per candidarsi alle europee. Per questo cercherà di unire impegni istituzionali ai pochi comizi elettorali.
I patti nelle regioni sui Fondi di Coesione e Sviluppo sono uno dei modi per uscire da Palazzo Chigi, anche perché Meloni in queste occasioni aggiunge sempre altri eventi che coinvolgono cittadini ed elettori […]. Nei mesi scorsi la premier è stata in Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto, Lazio e Marche e nelle prossime settimane aggiungerà Toscana e Abruzzo (dove si vota il 10 marzo) e le altre Regioni, soprattutto quelle del Sud. […] Meloni sommerà la partecipazione a eventi sul territorio in cui possa stare a contatto con imprese ed elettori, come la Fashion Week di Milano a fine febbraio.
Inoltre, la presidente del Consiglio non rinuncerà del tutto a fare comizi ma li concentrerà solo nelle Regioni in cui si vota […] mentre li farà per le europee solo a maggio: dovrebbe scegliere una città per circoscrizione e provare a trainare la lista di Fratelli d’Italia con comizi di partito solo nella fase finale della campagna elettorale, dicono due esponenti di FdI a conoscenza della questione.
Meloni nelle prossime settimane aumenterà la sua presenza in televisione, dove dovrebbe annunciare anche la sua candidatura […]. È già stata a Quarta Repubblica da Nicola Porro, tornerà da Bruno Vespa su Rai1 e vuole concedere interviste anche ad altri conduttori con cui ha più feeling come Paolo Del Debbio su Rete 4.
(da agenzie)
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Febbraio 1st, 2024 Riccardo Fucile
ALTRO CHE MELONI, IL COMPROMESSO FINALE È STATO IDEATO DAL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO EUROPEO, CHARLES MICHEL E DA EMMANUEL MACRON… L’UE AVEVA MINACCIATO LO STOP AI FONDI A BUDAPEST
A Bruxelles l’accordo sui fondi all’Ucraina e sulla revisione del quadro finanziario pluriennale c’è. Arriva già a metà mattinata, tra i capi di stato e di governo europei riuniti per sciogliere gli ultimi nodi. Che l’accordo ci sia, significa anche che il premier ungherese ha dovuto ritrarre il suo veto. C’era infatti Viktor Orbán a ostruire la strada verso i cinquanta miliardi.
Serviva un via libera dei leader alla revisione del quadro finanziario pluriennale anche per poter aiutare con cinquanta miliardi l’Ucraina, ma anzitutto per le politiche comuni; la premier italiana ad esempio contava sui dieci miliardi previsti sul versante migratorio.
A metà dicembre il premier ungherese aveva consentito, con una assenza concordata, il via libera ai negoziati per l’ingresso dell’Ucraina in Unione europea, ma non aveva sbloccato i soldi.
Negli ultimi giorni ci sono state pressioni da Bruxelles, e poi la sera prima del vertice ci sono stati incontri bilaterali con Orbán. Gli incontri coi leader hanno sbloccato un accordo finale.
Orban dunque cede. La pressione su di lui era stata fortissima.
Di prima mattina Meloni, con il presidente francese, Emmanuel Macron, e il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, hanno avuto un incontro con il premier ungherese, Viktor Orban, prima dell’avvio dei lavori del vertice. All’incontro hanno partecipato anche il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e la Segretaria generale del Consiglio, Therese Blanchet. L’obiettivo del meeting era convincere Orban a ritirare il suo veto contro l’approvazione della revisione del bilancio Ue che stanzia 50 miliardi di euro per l’Ucraina. Alla fine ce l’hanno fatta, annuncia Michel.
(da Editoriale Domani)
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Febbraio 1st, 2024 Riccardo Fucile
GLI ASSESSORI MELONIANI HANNO DISERTATO LA SEDUTA DI GIUNTA PER SCEGLIERE I NUOVI MANAGER DELLA SANITÀ. MA SCHIFANI È ANDATO AVANTI LO STESSO SCATENANDO LA FURIA DEI BIG SICILIANI DI FDI
In Sicilia il partito di Giorgia Meloni apre la crisi della giunta di centrodestra guidata dal forzista Renato Schifani. A scatenare la resa dei conti il no dell’Assemblea regionale alla legge “salva-ineleggibili”, cara a Fratelli d’Italia che vorrebbe evitare la decadenza di tre suoi deputati. Un no a scrutinio segreto, con il voto contrario di almeno nove franchi tiratori del centrodestra. Uno schiaffo al quale i quattro assessori meloniani — su indicazione della segreteria nazionale — hanno risposto disertando la seduta di giunta convocata per scegliere i 18 nuovi manager della sanità.
Schifani è andato avanti lo stesso, nominando i vertici di aziende sanitarie e ospedali. Un colpo di mano che ha mandato su tutte le furie i big siciliani di FdI, pronti a scaricare il presidente della Regione: «La sua decisione apre la crisi», è la nota dettata alle agenzie alle 21, dopo una giornata di guerriglia nel centrodestra.
In mattinata Schifani aveva provato a ricucire lo strappo, convocando un vertice con i segretari delle cinque forze di maggioranza in vista della seduta pomeridiana del Parlamento regionale. I meloniani hanno invocato una corsia preferenziale per il disegno di legge che offriva un salvagente ai tre deputati di FdI eletti mentre ricoprivano cariche in enti regionali, in violazione della legge.
Ma Forza Italia, Lega e Dc di Cuffaro — che già nelle settimane scorse avevano espresso dubbi sulla norma, giudicata incostituzionale dagli stessi uffici dell’Ars — hanno chiesto di procedere con il disegno di legge per l’elezione diretta di presidenti e consiglieri delle ex Province, con l’obiettivo di andare alle urne a giugno nella stessa tornata delle Europee.
A quel punto i meloniani hanno minacciato di bocciare la riforma delle Province. E Schifani ha accolto la richiesta di FdI, chiedendo al presidente dell’Assemblea regionale Gaetano Galvagno, fedelissimo di Ignazio La Russa, di mettere ai voti la norma salva-ineleggibili. Ma l’accordo non ha retto. La maggioranza è andata al tappeto con 34 no e 30 sì, sotto gli occhi di Schifani che si era presentato in aula per fare da garante all’intesa. Dopo il voto, il governatore ha abbandonato infuriato il Palazzo
(da agenzie)
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