Febbraio 9th, 2024 Riccardo Fucile
“NON DEVONO PRENDERSELA CON L’UNIONE EUROPEA O CON GLI STATI CHE LI FINANZIANO DA DECENNI. DEVONO ANDARE A PROTESTARE DALLE LORO ASSOCIAZIONI DI CATEGORIA CHE NON LI HANNO AIUTATI QUANTO OCCORREVA PER FARLI TRANSITARE VERSO UN’AGRICOLTURA PIÙ SANA, PIÙ PULITA”
È un ritornello: lo abbiamo già visto. Appena qualcuno tenta una riforma della agricoltura di poco diversa dal solco del peggior consumismo, una fetta dell’agricoltura monta sui giganteschi trattori (comprati inutilmente e in parte con finanziamenti pubblici) e cerca di spaventare opinione pubblica e politica. Questa volta la prima non si sta per nulla spaventando e non sta offrendo solidarietà a prescindere, la seconda al solito ci casca.
Credo che gli agricoltori che protestano stiano clamorosamente sbagliando indirizzo: non devono prendersela con l’Unione europea che li finanzia da decenni né con gli Stati che pure li finanziano da decenni e pure quando ci sono calamità e stati di emergenza (non dimentichiamolo). Devono andare a protestare dalle loro associazioni di categoria che non li hanno aiutati quanto occorreva per farli transitare verso un’agricoltura più giusta, più sana, più pulita e verso quelli che si prendono l’80% dei contributi della Politica agricola comune (Pac) senza mai mettere piede in un campo.
Se la devono prendere con chi impone loro agrofarmaci in abbondanza e sementi di un certo tipo per colture di un certo tipo (disastrose).
Dopodichè è inutile che ci nascondiamo dietro un dito: l’agricoltura convenzionale o industriale, a seconda di come piace chiamarla, è solo e soltanto il prodotto di sacrifici ecologici immensi. Se non ci diciamo questo, non siamo onesti. E piacerebbe sentirlo da quelle facoltà di Agraria che ancora non riescono a scollarsi di dosso il mito della super produzione, costi quel che costi, mentre dovrebbero solo virare verso la sostenibilità a tutti i costi.
Dopodichè visto che i trattori alzano la voce, ricordiamo loro che la coscienza di un bel pezzo di agricoltura ha il colore dei fumi di scarico di quei mezzi. È infatti lunga la serie di fatti che non depongono certo a favore di un’agricoltura che si può autodefinire sostenibile né ecologica.
L’eccesso di zootecnia (lo diciamo da tempo) è un problema. Innegabilmente un problema che genera un sacco di problemi all’ambiente e alle persone: eccesso di consumo idrico, monocolture a mais solo per produrre insilati, perdite energetiche in filiera, patologie sanitarie gravi per eccesso di consumo di carne, problemi enormi di spandimento dei liquami, problemi enormi per trattamento degli animali, etc.. A livello mondiale la superficie agricola dedicata alla zootecnia è oltre il 70% della superficie coltivata per produrre solo il 15-20% delle calorie alimentari. Non mi pare difficile commentare questo dato come uno sbilanciamento folle e insostenibile che è assurdo mantenere e che protegge un’industria della carne che si è eccessivamente ingrandita e che ha monopolizzato la dieta alimentare dei cittadini per fare profitto, non certo per migliorare la loro salute.
Non ricordo campagne informative delle associazioni della agricoltura che spingono a ridurre il consumo di carne. In Italia gli eccessi non mancano, la Pianura padana è un “maisificio” unico, inguardabile, disastroso. Vero è che l’agricoltura ci ha dato da mangiare, ma a quale prezzo in termini di salute e ambiente? Sono replicabili nel futuro? No. Può aiutarci l’agricoltura a cambiare in meglio? Sì, ma non con quelle proteste perché sono scentrate rispetto agli urgenti obiettivi di sostenibilità. Possiamo mangiare molta (molta, molta) meno carne e abbiamo il diritto di mangiare meglio e più sano e pulito. Questo è il diritto di noi cittadini. Non quello di abbuffarci di cibo molesto e a basso costo. Aiutateci a mangiare meglio, più sano e tutti.
Veniamo a un altro tema, disastroso: lo sversamento di liquami nei terreni.
Sappiamo perfettamente che il settore ha beneficiato di deroghe su deroghe in questi anni, il tutto per tenere in vita un’economia agricola eccessivamente sbilanciata. Sappiamo bene che sulla carta molte aziende agricole vantano superfici di spandimento sufficienti, ma che non utilizzano tutte, finendo per concentrare lo spandimento solo in alcune aree. È falso?
Sappiamo che le quantità di agrofarmaci utilizzati sono eccessive e mal dosate in molti casi. Sappiamo che molta manodopera è ancora mal pagata e sfruttata. Non ricordo le associazioni dell’agricoltura offrire seminari e incontri culturali ai loro iscritti per fargli conoscere le inchieste e i libri di Alessandro Leogrande sul caporalato (per fare un esempio a cui potremmo aggiungerne altri) o le inchieste di Stefano Liberti su temi paralleli. La strada da fare è molto lunga e queste proteste sul trattore non mi pare sollevino questi temi che sono nodali e urgenti, ma preferiscono tenere tutti sul filo del ricatto: “Senza di noi non c’è cibo”. Ma quale cibo?
Oggi il paradigma della quantità a tutti i costi non funziona. Occorre cambiare. È doloroso, mi rendo conto, ma mai come oggi è necessario che la protesta sia sinceramente ecologica e non protezionistica.
Ad esempio, nessuno parla di sprechi alimentari. A che cosa serve avere una agricoltura che produce-produce-produce per buttare via un quarto di quello che vende? Certo, fa cassa per chi vende, ma dal punto di vista della sostenibilità è un dramma e pure da quello della equità. Sarebbe meglio produrre meno pur spendendo uguale ma dando più soldi al produttore. E il mondo agricolo e dell’economia alimentare potrebbe fare molto molto molto di più in tal senso.
Proseguiamo con l’elenco. L’agricoltura contribuisce alle emissioni climalteranti per una quota enorme. Non usa le acque in modo sostenibile né evita scarichi inquinanti nei fossi.
C’è un problema di rifiuti: tremano le gambe quando si parla di gessi di defecazione. Poi, l’agricoltura convenzionale arriva a tagliare qualsiasi albero dia il minimo fastidio ai nuovi macchinari automatici. I trattori sono diventati pesantissimi sfondano argini (altro che le nutrie, per favore) e strade di campagna e locali. È enorme l’uso di acqua che va sprecato, tanto la si paga poco. E poi quando manca l’acqua, l’agricoltura alza la mano e la politica le concede i soldi dallo Stato invocando emergenze e calamità senza mai porsi i dubbi che tutto quel mais che richiede acqua nelle stagioni dove acqua non ce ne è mai stata, forse richiederebbe di ridurre la produzione di mais e non solo piangere la necessità di acqua a iosa.
Energia? Sappiamo che le associazioni dell’agricoltura sono arrivate tardi sulla partita della transizione energetica che sta rubando terre agli agricoltori (specie i più fragili) e dando redditi importanti ad altri agricoltori (sempre i più forti): forse l’associazionismo dell’agricoltura doveva aver capacità di prevenire tutto ciò, ma si è smarrita (che strano). Sappiamo perfettamente che le plastiche in campo sono diffuse in modo enorme (gli agricoltori sul trattore hanno letto i rapporti della Fao? Sanno che cosa stanno mangiando e facendo mangiare? Smaltiscono correttamente?) e non stanno facendo nulla per limitarle e fermarle. Sappiamo benissimo che tutte le azioni di miglioramento ambientale sono pregiudizialmente viste dalla maggioranza come una rottura di scatole, inutile, perfino dalle organizzazioni di settore. Mi chiedo di quanto sia cresciuta la sensibilità della base su un tema chiave come la biodiversità.
Chi protesta che cosa sa? Che cosa fa? Che cosa sa degli impegni internazionali che dobbiamo e vogliamo rispettare?
Sappiamo perfettamente che il cemento è un problema per l’agricoltura e sappiamo che l’urbanistica è famelica, ma sappiamo altrettanto bene che l’agricoltura industriale non ha mai fatto niente di concreto ed efficace per fermare l’emorragia dei suoli a causa del cemento perché con una mano si scandalizza, ma con l’altra lascia che le cose rimangano così perché gli agricoltori spesso sono contenti di vendere le terre e incassare: vedi quel che è successo con l’autostrada Brebemi (A35); vedi quel che succede con la logistica che va ad accaparrarsi terre facili; vedi quel che sta accadendo con i pannelli solari e le pale eoliche con le grandi aziende dell’energia che stanno spazzolando terre ben esposte senza trovare adeguata opposizione da parte dell’agricoltura e di chi dovrebbe difenderla. Sappiamo che nel 2012, quando eravamo a un passo dal portare in Parlamento una legge per la tutela dei suoli dal cemento, con l’allora ministro Mario Catania, furono le organizzazioni dell’agricoltura a essere fredde e a pretendere di non gettare vincoli sulla libera iniziativa di vendita delle terre da parte delle aziende agricole. E la proposta di legge naufragò.
Infine, sempre per non nascondersi dietro a un dito: molta agricoltura è ostaggio delle multinazionali sementiere, dell’agrofarmaco e del petrolio (che spesso coincidono) oltre che della distribuzione alimentare. Puntate i vostri trattori verso di loro. Puntateli anche verso chi, del settore, sta comprando sottocosto le aziende agricole in sofferenza anziché aiutare a risanarsi, e magari compra pure alcune catene di distribuzione alimentare così da fare filotto.
Ecco, non siamo ingenui. L’agricoltura industriale, lo ripeto, è un problema e non una soluzione. Men che meno oggi. Men che meno con lo schema di gioco di ieri. Quindi questa protesta somiglia più a qualcosa per garantirsi alcuni privilegi, per non mettersi in discussione, per dimostrare che non si è disposti ad alcun cambiamento, per favorire qualche parte politica che si avvantaggerà del solito serbatoio di voti del mondo agricolo. Non certo la miglior parte politica.
La politica che ritira un provvedimento per limitare i pesticidi non è una politica utile per il futuro. Per nulla.
Una politica che apre il borsellino del Piano nazionale di ripresa e resilienza ma non affronta la drammaticità ecologica e sociale di questa agricoltura industriale non è una buona politica perché non risolve i problemi strutturali e culturali di questo importante mondo.
Non mancano però pur piccoli elementi positivi nelle pieghe di questa protesta. Innanzitutto, vediamo non poche dissociazioni dentro il mondo della agricoltura. Aziende agricole che non sono scese in campo. Agricoltori che stanno dubitando ce ne sono.
Ci sono ottime aziende, responsabili, che purtroppo non riescono a farsi sentire ma resistono e stanno cambiando rotta: a loro tutta la nostra solidarietà, sono queste le aziende che la Pac dovrebbe premiare, smettendo di premiarne altre. E poi vediamo che le persone non stanno empatizzando con quei trattori e questo è un elemento di forte novità, cari agricoltori convenzionali. I cittadini sono cresciuti e ci pensano due volte prima di venire con voi sui trattori. Pensateci. Non avete il dubbio di essere dentro una nebbia e che oggi la questione sia diversa?
Paolo Pileri
ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)
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Febbraio 9th, 2024 Riccardo Fucile
NELL’INCONTRO DI DUE ORE CON GLI AGRICOLTORI A PALAZZO CHIGI, LA DUCETTA HA DOVUTO FARE CONCESSIONI PER PLACARE LE PROTESTE: OFFERTA L’ESENZIONE DELL’IRPEF PER I REDDITI SOTTO I 10MILA EURO, IL POTENZIAMENTO DEL FONDO DI GARANZIA PER IL CREDITO BANCARIO E 300 MILIONI PER LE EMERGENZE
Esenzione dell’Irpef ai redditi che non superano i 10 mila euro, rafforzamento dei controlli dell’Autorità di contrasto per per far rispettare i prezzi agricoli, difesa del Made in Italy (con una cabina di regia interforze contro le importazioni che non rispettano gli standard sanitari, la tracciabilità e le norme sull’origine), potenziamento del fondo di garanzia dell’Ismea per consentire alle imprese di accedere al credito bancario con tassi di interesse ridotti, stanziamento di 300 milioni per il prossimo triennio per far fronte alle emergenze in agricoltura: sono questi i punti chiave degli impegni che il governo ha preso con i rappresentanti delle sigle agricole nella riunione a palazzo Chigi, secondo quanto si apprende.
Ma il vicepremier Matteo Salvini incalza: «Le politiche europee sono folli, suicide, miopi. Occorre andare a Bruxelles rivendicando l’orgoglio e la difesa dell’agricoltura italiana». E poi attacca: «Stop all’Irpef fino a 10 mila euro? Si può fare di più».
Nel pomeriggio i rappresentanti di Cia-Agricoltori Italiani, Coldiretti, Confagricoltura, Fedagripesca e Copagri hanno incontrato la premier Giorgia Meloni, il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste Francesco Lollobrigida (Agricoltura) e il ministro per gli Affari europei, il Sud, le Politiche di Coesione e il Pnrr Raffaele Fitto.
Un incontro durato oltre due ore, ma che non ha fermato per ora la protesta dei trattori: con le bandiere tricolore e cartelloni con su scritto «Senza agricoltori niente cibo e niente futuro» i quattro trattori di «Riscatto agricolo» sono arrivati in mattinata nel centro di Roma.
Confermata la protesta di stasera sul Grande Raccordo Anulare. Mentre i quattro trattori provenienti dalla Lombardia in presidio sul lungomare di Sanremo faranno rientro a Milano perché, viene riferito, non è stato trovato l’accordo con la Rai per essere presenti sul palco del Festival.
La premier ha provato a placare gli animi, incontrando le sigle ufficiali: «Credo che voi possiate riconoscere che in questi mesi l’aumento delle risorse a favore del comparto c’è stato ed è stato rilevante, seppur in una condizione difficile di bilancio, che anche voi conoscete bene. In 16 mesi non è possibile fare i miracoli e correggere anni di scelte sbagliate, ma io credo che l’inversione di tendenza sia evidente», ha detto Meloni secondo quanto si apprende alle associazioni di categoria.
Meloni ha ricordato la scelta, nell’ambito della revisione del PNRR, di «aumentare i fondi destinati al settore agricolo da cinque a otto miliardi di euro per rilanciare gli investimenti per i contratti di filiera e aumentare l’indipendenza energetica dei produttori agricoli», ma anche il «Fondo per le emergenze con una dotazione di 300 milioni di euro per dare una risposta concreta, sostegni e ristori alle filiere più in difficoltà» o gli oltre 800 milioni stanziati «per innovare macchine e attrezzature, aumentare la produttività delle nostre imprese e migliorare la sicurezza sul lavoro».
(da Il Corriere della Sera)
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Febbraio 9th, 2024 Riccardo Fucile
CALVANI ACCUSA: “RISCATTO AGRICOLO E’ UN COMITATO CREATO DA FDI, ISCRITTI AL PARTITO E ALCUNI ADDIRITTURA CONSIGLIERI COMUNALI”
Dopo giorni di blocchi e proteste, i trattori sono arrivati alle porte di Roma. Ma gli agricoltori arrivano nella Capitale con un fronte più che spaccato e tutt’altro che compatto. Da una parte, infatti, c’è Riscatto Agricolo, che ha raggiunto un accordo con la questura di Roma per una sfilata sul Grande Raccordo Anulare in programma questa sera. Dall’altra c’è il Cra, ‘Comitato degli agricoltori traditi’, guidato dall’ex ‘forcone’ Danilo Calvani.
Proprio Calvani dai microfoni di Fanpage.it ha lanciato dure accuse a Riscatto Agricolo, sostenendo che sia un movimento creato da Fratelli d’Italia: “Quello è un comitato creato da Fratelli d’Italia, dopo, molto dopo. Sono loro, iscritti al partito e addirittura alcuni sono consiglieri comunali. Più di questo… Loro non esistevano. Noi siamo apolitici, dal 2007 abbiamo fatto soltanto battaglie agricole. Non siamo mai stati candidati in nessun partito, anche se va detto, le richieste ci sono state”.
Intanto, come detto, stasera è prevista una manifestazione sul Grande Raccordo Anulare con i trattori di Riscatto Agricolo.”E’ definitivo stasera sfileremo sul GRA di Roma. Ancora dobbiamo stabilire alcuni dettagli ma comunque sarà tra le 21 e le 22. ‘Ringraziamo il prefetto e il questore di Roma per la collaborazione perché noi siamo per la proposta e non per la protesta e devo dire che siamo stati capiti”, hanno annunciato i portavoce del movimento. Prevista la partecipazione di oltre 400 trattori.
Questa mattina invece sono appena partiti dal presidio di via Nomentana quattro mezzi agricoli, diretti verso il centro di Roma. Come avevano già annunciato ieri sera dopo l’incontro in prefettura, i trattori sfileranno nelle vie centrali della città, dal Colosseo al Circo Massimo, esponendo il tricolore, scortati dalle forze dell’ordine.
(da Fanpage)
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Febbraio 9th, 2024 Riccardo Fucile
‘GNAZIO NON HA PIÙ CONVOCATO IL CONSIGLIO DI PRESIDENZA, E SI È FATTO BASTARE UNA LETTERA DI GIUSTIFICAZIONE. LA DECISIONE È IL FRUTTO DELL’ACCORDO CHE HA PORTATO GASPARRI A DIMETTERSI DA VICEPRESIDENTE DI PALAZZO MADAMA E ASSUMERE IL RUOLO DI CAPOGRUPPO
A Maurizio Gasparri è bastata una lettera di giustificazione alla Presidenza del Senato per chiudere definitivamente il caso del suo potenziale conflitto d’interessi tra la carica di senatore e quella di presidente della società Cyberealm Srl che si occupa di cybersicurezza.
Il presidente del Senato Ignazio La Russa ha ritenuto di non dover approfondire né tantomeno ipotizzare una sanzione per la mancata comunicazione del doppio incarico: la seconda carica dello Stato non ha più convocato il consiglio di presidenza che si sarebbe dovuto occupare della questione, dicono tre fonti parlamentari a conoscenza della questione.
Quando Report a novembre ha scoperto l’incarico di Gasparri, mai comunicato al Senato, Palazzo Madama si sarebbe dovuta muovere in due direzioni: un’istruttoria della Giunta per le elezioni per decidere sulla compatibilità di Gasparri da senatore e una del consiglio di presidenza sulla mancata comunicazione.
Un doppio binario che però si è interrotto nel giro di due settimane. La giunta, guidata da Dario Franceschini ma a maggioranza di destra, ha deciso di chiudere il caso in pochi giorni sostenendo la compatibilità di Gasparri. Ma il consiglio di presidenza non si è mai mosso
Quest ’ultimo è un organo presieduto da La Russa e composto da 19 persone tra cui i vicepresidenti del Senato, i questori e i segretari di tutti i partiti. Un organo che, spiega un parlamentare di maggioranza, La Russa non convoca quasi mai. E quando lo ha fatto ha sempre rinviato la questione di Gasparri: quattro mesi dopo ha deciso di evitare di occuparsene.
Eppure c’è stato un caso eclatante in cui il presidente del Senato ha deciso di convocare il consiglio di presidenza per prendere delle decisioni: nel gennaio 2023 quando alcuni giovani di Ultima Generazione decisero di imbrattare la facciata di Palazzo Madama e il consiglio di presidenza fu convocato per prendere decisioni sulla sicurezza del Palazzo. Non lo ha mai fatto invece per Gasparri.
Secondo l’articolo 18 del Regolamento per la verifica poteri del Senato non sono previste sanzioni per chi non comunica una carica alla giunta per le Elezioni ma è allo stesso tempo molto chiaro: “I senatori sono tenuti a trasmettere alla Giunta l’elenco di tutte le cariche e uffici a qualsiasi titolo ricoperti, retribuiti o gratuiti”.
La Russa quindi si è accontentato della lettera, rivelata da Report, con cui Gasparri ha spiegato di non aver “ritenuto di dover comunicare la sua carica” perché avrebbe interpretato la legge solo per la “funzione di amministratore in senso stretto” e non anche per “la qualifica di amministratore in quanto componente del Cda”.
La decisione di La Russa, dicono due fonti di maggioranza, è frutto anche dell’accordo che ha portato Gasparri a dimettersi da vicepresidente del Senato per assumere il ruolo di capogruppo di Forza Italia.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Febbraio 9th, 2024 Riccardo Fucile
UNA SITUAZIONE LEGATA ALLO STRAPOTERE DEL SINDACATO DI DESTRA LIBERSIND DENTRO IL TEATRO – IL RUOLO DI SANDRO PASQUINI, IL CAPO DEL COMPARTO TECNICO, COINVOLTO IN UN’INCHIESTA PER CORRUZIONE, E LE MANOVRE DEL MELONIANO FEDERICO MOLLICONE
Giovedì 1 febbraio il presidente di Teatro di Roma Francesco Siciliano convoca tutti i dipendenti per un breve discorso di circostanza in una sala del Teatro Argentina. Niente di irrituale. Promette che le polemiche dei giorni passati saranno presto dimenticate e augura a tutti buon lavoro. Meno rituale è quello che accade dopo: tutti i dipendenti escono, tranne gli iscritti al sindacato Libersind. Passa qualche minuto e si sente uno scrosciante applauso e i festeggiamenti.
Libersind è un sindacato autonomo di destra e all’interno del Teatro di Roma organizza tutto il comparto del cosiddetto palcoscenico, ovvero i tecnici del teatro.
Secondo le testimonianze dei dipendenti che Fanpage.it ha ascoltato in queste settimane, alcuni appartenenti al Libersind creano una situazione di continua tensione, che in più di un’occasione è culminata in minacce, atteggiamenti di mobbing nei confronti dei colleghi e degli artisti presenti in teatro, piccoli ricatti e prepotenze. Un modus operandi reso possibile da una continua minaccia ripetuta negli anni con direttori e commissari: senza il palcoscenico gli spettacoli non si fanno. Minaccia che si è concretizzata nel 2021 con una lunga serrata del personale tecnico al Teatro India, come vedremo in seguito.
Per scrivere questo articolo abbiamo parlato con oltre quindici persone tra dipendenti, ex dipendenti, collaboratori e artisti. Racconti che hanno tutti alcuni elementi in comune.
Prima di tutto. Per lavorare e comunicare il reparto tecnico preferisce di norma imporre le proprie modalità anziché allinearsi a quelle in uso agli uffici, non lasciare traccia scritta è la regola. Niente mail, solo comunicazioni verbali. Di solito vengono convocati tutti, dipendenti del Teatro, registi, produzioni interne ed esterne, all’interno di una stanzetta al Teatro Argentina. Qui la scena che si ripete è sempre la stessa: al centro siede Sandro Pasquini, il capo del comparto, spesso attorniato dal suo staff e ha inizio una lunga trattativa. Un luogo – quella stanzetta – e una situazione che mette a disagio molti degli interlocutori.
Le lettere dei lavoratori: “Non mi sento sicura sul luogo di lavoro”
E se gli artisti e le produzioni vanno e vengono, ci sono poi i dipendenti del Teatro che ogni giorno devono rapportarsi con quello che è una specie di stato nello stato. Barbara Cosimi è la segretaria regionale dell’Slc Cgil, che organizza anche molti lavoratori e molte lavoratrici all’interno del Teatro di Roma, e che da anni, denuncia questo stato di cose.
“In teatro c’è un clima di vero e proprio terrore, dove si arriva anche alle minacce e agli insulti. Abbiamo fatto presente più volte questi problemi ai Direttori e ai Commissari straordinari”. “I nostri iscritti e le nostre iscritte hanno segnalato l’accaduto sia a voce che per iscritto inviato continue comunicazioni, ma non è mai stato preso alcun provvedimento”, spiega Cosimi.
Alcune lavoratrici hanno sottolineato di essere state accusate continuamente “di avere l’ansia” e di “non saper lavorare”. Scrive una lavoratrice, in evidente difficoltà, in una delle tante mail inviate ai suoi superiori: “So che vi sto scrivendo tanto, ma è l’unico strumento che ho per condividere con voi e per informarvi di ciò che avviene perché possiate trovare in qualità di responsabili una soluzione a una condizione molto faticosa”.
Il responsabile tecnico a una collega che gli pone quesiti e problemi di lavoro – sminuendo le sue competenze e mortificando la sua professionalità – risponde in una mail che è “inesperta”, la accusa di essere ansiosa, parla di uno “sfogo” a fronte di una comunicazione necessariamente formale. “Io ritengo di non dovermi sottoporre ai suoi modi sminuenti, aggressivi e intimidatori”, denuncia ancora la lavoratrice.
Una delle tante che decide alla fine di andarsene per non dover più sottostare a questa situazione: “La condizione di stress e di insicurezza sul luogo di lavoro che percepisco comincia a non essere tollerabile”. L’ufficio del personale promette di verificare e valutare sanzioni disciplinari, ma ancora una volta non succede nulla.
In un’altra lettera di una lavoratrice si parla della solita “modalità intimidatoria e umiliante che il responsabile tecnico mette in atto nei miei confronti”, e in un caso persino “davanti alla compagnia ospite che assisteva attonita alla scena”.
In un clima ormai surriscaldato un altro dipendente viene pesantemente insultato da una collega di fronte al responsabile dell’ufficio del personale; un episodio – anche questo – ritenuto grave dal sindacato, che chiede un incontro alla commissaria Giovanna Marinelli, che risponde così : “Evidenziamo di aver preso tempestivamente atto di quanto da Voi ivi riferito ed effettuato le necessario indagini e approfondimenti in merito agli episodi ivi descritti, adottando i provvedimenti più opportuni in relazione al contesto, al fine di evitare il ripetersi di situazioni analoghe a garantire al meglio un sereno svolgimento del lavoro.
Il muro di gomma dei vertici di Teatro di Roma
Nel corso della stesura di questo articolo abbiamo letto tre verbali di altrettante riunioni che si sono tenute tra i sindacati confederali e i vertici del teatro il 9 marzo, il 13 aprile e il 12 giugno del 2023. In tutte e tre le occasioni le rappresentanze sindacali di Cgil, Cisl e Uil chiedono che vengano presi provvedimenti disciplinari di fronte alle denunce presentate.
Addirittura arrivano a chiedere che alcuni spazi comuni e di lavoro vengano video sorvegliati a tutela della sicurezza dei dipendenti. La commissaria Marinelli il 12 giugno dichiara di aver preso provvedimenti di moral suasion, ma i sindacati li ritengono insufficienti e in una dura risposta parlano di persone “che si sentono impunite e che pertanto perseverano in atteggiamenti prevaricatori”, denunciano il “forte stress emotivo di alcuni lavoratori e lavoratrici a causa delle vessazioni subite, tanto da dover ricorrere a un supporto psicologico, mentre altre lavoratrici si sono persino licenziate dal posto di lavoro”.
Anche questa volta non saranno presi provvedimenti. “Siamo di fronte a un sindacato autonomo, Libersind, che di fatto ostacola anche l’attività sindacale. Per lavorare nel comparto tecnico non c’è alternativa, ti devi iscrivere, a meno che non vuoi lavorare tutte le domeniche dell’anno”, denuncia la Cgil. Un clima pesante, soprattutto nei confronti delle donne, sul quale però nessuno sembra intervenire, non da oggi, ma da anni.
Le condizioni di precarietà non aiutano ovviamente. “Al momento dentro al Teatro di Roma circa il 43% dei lavoratori è precario.
E Roma Capitale? “Non abbiamo mai incontrato l’assessore Miguel Gotor in questi mesi, siamo stati ricevuti solo da un collaboratore”. Ripetono sia i sindacati confederali che le Clap. I rappresentanti dei lavoratori hanno chiesto la stabilizzazione dei precari, ma hanno anche manifestato “grande preoccupazione per il clima all’interno del teatro, per le intimidazioni e la scarsa trasparenza di molte scelte operate al termine della stagione commissariale”, sottolinea Cosimi di Slc-Cgil.
“Voleva parlare solo con me, poi le battute sessiste”
Ma le difficoltà non riguardano solo i lavoratori interni. “Quando abbiamo lavorato al Teatro Argentina – racconta una regista teatrale – non so perché il capo del reparto tecnico aveva deciso che sarei stata io la sua unica interlocutrice. È iniziata così una lunga trafila, dovevo essere sempre gentile per ottenere quello che sarebbe stato normale avere per la produzione di uno spettacolo.
Questo voleva dire sopportare, ad esempio, che lui parlasse male dei miei colleghi, o che insistesse sul fatto che lo faceva solo per me, ci dava quello che ci serviva per andare in scena, perché gli stavo simpatica”. Il rapporto della regista con il capo dei tecnici si risolve con un’ultima telefonata: “Mi ha telefonato e mi ha chiesto di andare al Teatro Argentina. Quando gli ho chiesto perché ha cominciato insistentemente a farmi domande personali sulla mia identità sessuale, domande allusive e afferenti alla sfera personale e non a quella professionale”.
“Se stavo con un collega uomo io non esistevo”
Il racconto di un’altra ex collaboratrice tecnica del Teatro di Roma è ancora peggio: “Lavoravo da qualche tempo come esterna in alcune produzioni. Quasi l’unica donna in un ambiente, come quello del palcoscenico, fatto perlopiù di uomini. Quando ero al lavoro con un collega uomo era come se non esistessi, mentre quando ero da sola la mia professionalità veniva continuamente sminuita. Una volta sono entrata nella stanzetta che tutti conoscono al Teatro e dove si viene convocati e ho dovuto subire delle battute a sfondo sessuale”.
Se questi fatti accadono all’Argentina, anche al Teatro India la musica non cambia. “Al termine di uno spettacolo, durante il quale abbiamo avuto non pochi problemi con il comparto tecnico, alcuni di loro oltre a rendere evidente che non eravamo graditi, quando siamo andati via ci hanno salutati con il braccio teso”. Goliardia? Forse. Certo un clima non proprio semplice: se il fatto raccontato risale a qualche anno fa, le cose non sembrano essere cambiate di molto.
Durante la pandemia sempre al Teatro India si tengono workshop e residenze di artisti. In un’occasione in cui era necessario avere una cassa di amplificazione, dopo insistenti richieste per ottenerla, uno degli attori è stato “costretto a baciare la mano di chi gli portava il materiale per poter lavorare”.
Sandro Pasquini: il capo di Libersind a TdR sotto inchiesta per corruzione
Sandro Pasquini, il capo del comparto tecnico, lo conoscono tutti nel mondo del teatro, e nel 2023 esce fuori che è anche coinvolto in un’inchiesta giudiziaria che ancora non ha visto la sua conclusione. I fatti risalgono al 2019, quando Pasquini ancora non era responsabile tecnico ma aveva già un grande potere in teatro: in un’intercettazione del 2019 l’imprenditore Massimo Cicchetti promette una bustarella a Mario Fiore (consulente della sicurezza del Teatro) e a Sandro Pasquini, per il rifacimento della strada d’accesso al Teatro India, via Luigi Pierantoni. La vicenda è raccontata dal Corriere della Sera e ancora non risulta archiviata.
“Nessuno sa cosa c’è in teatro, devi chiedere a Sandrone”
E pensare che, nonostante tutto questo, è impossibile sapere cosa ci sia e non ci sia in teatro. A ogni livello, dall’amministrazione ai vertici, fino a chi organizza le produzioni, nessuno può consultare un catalogo o una scheda tecnica. Cosa c’è nei magazzini sembra essere un mistero insondabile.
Un metodo che rende impossibile in effetti verificare cosa è davvero necessario affittare da ditte esterne e cosa acquistare. “Le attrezzature appaiono o scompaiono a seconda della volontà del capo del comparto tecnico – racconta una ex collaboratrice del Teatro – Io ho lavorato per anni alle produzioni e non è mai stato possibile avere una scheda tecnica, ogni richiesta, anche la più banale, viene presentata come una concessione. Spesso e volentieri ci siamo trovati ad affittare a service esterni attrezzature che in teatro erano presenti”. “Devi chiedere a Sandrone”, è il leit motiv che tutti almeno una volta hanno sentito.
Libersind e la destra contro l’esperienza del Teatro India
C’è una circostanza in cui il potere contrattuale del comparto tecnico e del Libersind si manifesta con chiarezza: la serrata dell’estate del 2021 al Teatro India. Due settimane di sciopero per impedire così l’andata in scena degli spettacoli (i primi in presenza dopo le chiusure per il Covid); o meglio di sciopero degli straordinari organizzati su turni ,in modo da non impattare sullo stipendio di chi si astiene dal lavoro, proclamando lo sciopero giorno per giorno alle 16.00 al termine del turno ordinario. Uno sciopero le cui modalità vengono ricostruite da Christian Raimo in questo articolo in presa diretta.
Il contesto è questo: da una parte c’è la campagna elettorale, con Fratelli d’Italia e in particolare Federico Mollicone (lo stesso che è stato determinante nel portare a termine il blitz della destra di alcune settimane fa) che hanno messo il Teatro India nel mirino, accusando la consulente artistica di aver trasformato il teatro in un “centro sociale”. Un’accusa contenuta in comunicati stampa, interviste, addirittura interrogazioni parlamentari. Dall’altra la situazione interna al Teatro è delicata: Pier Francesco Pinelli, al termine di una vicenda tormentata rinuncia alla direzione del teatro e Libersind vuole a tutti i costi che si nomini Luca De Fusco come direttore e lo mette nero su bianco in molti comunicati.
La destra romana e Libersind se la prendono con l’esperienza del Teatro India così come si è data in quegli anni, aprendosi alla scena del contemporaneo “Quello che non gli piace è la cultura che entra nel teatro, le drammaturgie contemporanee al centro del progetto, spettacoli, incontri, talk, musica che attraggono tanti ragazzi e ragazze che trovano finalmente un’istituzione in grado di dialogare con la cultura indipendente”, spiega una delle compagnie in quei mesi in residenza a India.
Libersind annuncia l’agitazione sindacale in difesa del “buon nome del teatro” con un comunicato: “Questa paradossale situazione che ormai si protrae da troppo tempo sta affossando il buon nome Teatro di Roma, specie presso il Teatro India ove vengono proposti incontri radiofonici di livello men che amatoriale, baby club da villaggio turistico. La misura è colma”.
Non si nasconde dunque il disprezzo per progetti artistici che avranno poi premi e riconoscimenti importanti a livello nazionale tra i quali un UBU. Di lì a qualche mese, dopo Giorgio Barberio Corsetti, anche Francesca Corona lascia il suo incarico al Teatro di Roma chiamata a Parigi a dirigere il Festival d’Automne.
Dopo due anni quello che Libersind e Mollicone invocavano effettivamente si avvera e arriva Luca De Fusco. Intanto, in questi anni, lavoratori e lavoratrici hanno continuato a denunciare inascoltati un clima insopportabile. E la gestione del teatro continua a essere, per molti versi, opaca.
(da Fanpage)
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Febbraio 9th, 2024 Riccardo Fucile
“HANNO PROMESSO RICONGIUNGIMENTI FAMILIARI, IL GOVERNO CI HA PRESO IN GIRO”… “NON CI SONO CANALI LEGALI E SICURI”
“Se lui è uno di quelli che ha fatto salire 200 persone su una barca su cui potevano starcene settanta, allora la condanna è giusta. Ma i corpi dei nostri cari non potranno riposare in pace finché a rispondere non saranno anche i responsabili dei mancati soccorsi”. Afghana, per anni fuggita in Iran dalla furia dei talebani prima di riuscire a riparare in Europa, Zahra Barati parla dalla Finlandia, ma una parte di lei non è mai andata via dalla spiaggia di Steccato di Cutro, dove il corpo del fratello Sajad– 23 anni appena – si è arenato quasi due settimane dopo il naufragio. “Se non fossi stata lì ogni giorno a chiedere di continuare le ricerche non so se sarebbe mai stato trovato”.
Due giorni fa, per quel caicco che si è spezzato a pochi metri dalla riva, portando con sé quasi 200 persone, di cui solo 81 sono sopravvissute, è arrivata la prima condanna. Gun Ufuk, meccanico dell’equipaggio, perseguitato politico in Turchia che – ha raccontato in aula – con quell’impiego si sarebbe pagato la traversata, a dispetto del rito abbreviato che assicura lo sconto di un terzo della pena è stato punito con vent’anni di carcere. Ma per Zahra “non ci sarà giustizia piena finché non verranno giudicati anche coloro che potevano soccorrere tutte quelle persone e non sono mai intervenuti”.
È dolore, interrogativo, cruccio che la scava dentro da quasi un anno. “L’Italia si definisce un Paese civile, che rispetta i diritti umani. E allora perché quelle persone sono state lasciate sole? Sapevano che erano lì. È stata la mancanza di soccorsi a ucciderli”, chiede da lontano, con il video che rimanda l’immagine di un viso tondo, invecchiato prima del tempo “ da un’angoscia che non va mai via”. Chi parte, spiega, sa che il viaggio è pericoloso, ma non ha alternativa. “L’Italia, i Paesi europei sanno perfettamente cosa succeda in Afghanistan o in Iran. Dovrebbero facilitare vie legali d’accesso, i ricongiungimenti familiari”. Molti ne avrebbero avuto pieno diritto, ma a un uomo che ha perso la moglie è stato negato più volte prima che lei salisse su quella carretta diventata una bara. E anche Zahra, sulla sua pelle ha sperimentato quanto sia difficile: ha atteso sei anni prima di poter raggiungere il marito in Finlandia. “Se lo facessero queste tragedie non ci sarebbero più. Sono loro a obbligarci a salire su quelle barche”.
Dopo il naufragio, nell’incontro organizzato a Roma con i familiari ignorati durante la visita a Cutro – che la premier e tutto il suo governo hanno raggiunto per un consiglio dei ministri straordinario e lasciato senza neanche omaggiare le salme allineate al Palamilone, come fatto invece dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella -Giorgia Meloni “ci ha fatto intendere che l’Europa non vuole migranti, allora loro sono obbligati a scoraggiare gli arrivi”. La politica della deterrenza al prezzo di migliaia di vite.
In quell’incontro, “una truffa, un gioco politico” dice Zahra, Meloni ha promesso. “Ma ci hanno preso in giro”.Ai familiari a lutto, il governo aveva assicurato “supporto per i ricongiungimenti familiari, che ci avrebbero aiutato a portare in Italia e in Europa i nostri cari rimasti indietro. Hanno voluto sapere i nomi, poi non ci hanno più neanche contattato”. È ulteriore motivo di angoscia e dolore per lei, che in Iran ha genitori anziani e due sorelle piccole. Il fratello era partito per provare ad aiutarli, lavorare e studiare perché potessero finalmente lasciare il Paese.
Scajad oltivava un sogno comune a ragazzi di Paesi e generazioni diverse, quel pallone che aveva dovuto lasciare perché un afghano che gioca a calcio nella terra dei pasdaran non è ben visto. “Il suo allenatore mi diceva: ‘E’ un campione’”. Lui sognava la Spagna e le squadre di lì, ma qualsiasi Paese gli sarebbe andato bene pur di avere la possibilità di ricominciare”.Sogni finiti sul fondo del mare, mentre la famiglia affronta un quotidiano naufragio in Iran.
“Faccio un appello a tutti perché mi aiutino a portarli via da lì. Come me aspettano i sopravvissuti al naufragio e i familiari delle altre vittime. Com’è possibile che una premier prometta una cosa del genere e non la mantenga?”. Non ha intenzione di arrendersi Zahra. “Combatterò”. Per i suoi, per tutti gli altri. “La mia voce è la loro, anche per questo sarò a Cutro”. Anche se quella spiaggia, con il mare che sputava vestiti e corpi e i familiari in processione come in un sacrario, è incubo ricorrente. Anche se il momento in cui ha dovuto riconoscere il corpo del fratello è shock che non si cancella. “Sarò lì – promette – per non permettere a nessuno di non ricordare”. Governo incluso.
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Febbraio 9th, 2024 Riccardo Fucile
COME SAREBBE PARTITO IL COLPO E L’INVITO A METTERLA VIA
“Quando gli ho detto di metterla via [la pistola, ndr] e ho appoggiato la mano, ho sentito un forte calore alla mano sinistra. Ho capito lì che era partito un colpo”. Dal verbale delle dichiarazioni ai carabinieri di Pablito Morello, capo scorta del sottosegretario alla Giustizia, emerge una versione chiara di cosa è successo a Rosazza, in provincia di Biella, durante la festa di Capodanno in cui un colpo di pistola è partito dall’arma del deputato di Fratelli d’Italia Emanuele Pozzolo, oggi sospeso dal partito.
Le sue parole, riportate da Repubblica, sono ora al vaglio degli inquirenti di Biella, guidati dalla procuratrice Teresa Angela Camelio. Dovranno confrontarle con le altre testimonianze e con gli esami tecnici – come quello balistico – per ricostruire i fatti.
La versione di Morello – che dal giorno dell’incidente è in ferie e di fatto sembrerebbe essere stato sostituito come capo scorta di Delmastro – indica un solo responsabile: Pozzolo. “Ha estratto la pistola dalla tasca per mostrarla”, e “si limitava a fare questa lieve rotazione per farsi vedere”. L’arma non sarebbe mai passata di mano prima dello sparo, ma solo dopo: gli esami del Ris hanno rilevato le tracce di tre persone, e una con tutta probabilità è proprio Morello, che ha ammesso di averla presa per metterla in sicurezza quando il colpo era già partito .
Il proiettile ha ferito a una gamba il 31enne Luca Campana, parente di Morello. Che infatti racconta, prima dello sparo: “Io sentivo mio cognato dire: ma è una pistola vera o è finta?”. E ancora: “Tutti quanti gli abbiamo chiesto se fosse vera o no, ma Pozzolo non rispondeva. Restava zitto, faceva un sorriso, una specie di ghigno, e non diceva nulla. Ma continuava a maneggiare quella cosa”.
In quel momento ci sarebbero state quattro persone vicine al tavolo a cui si trovava Pozzolo. E Morello avrebbe insistito: “Ho continuato a chiedere a Pozzolo se fosse un giocattolo o meno. finché non gli ho detto: ‘Togli sta cosa!’. E per farglielo capire, gli facevo, con la mano sinistra, il gesto di riporla via, nella tasca, o comunque in maniera sicura”. Qui sarebbe avvenuto l’incidente: “Ma quando gli ho detto di metterla via e ho appoggiato la mano, ho sentito un forte calore alla mano sinistra. Ho capito lì che era partito un colpo. Ho sempre avuto quella sera, fin da subito, l’impressione che Pozzolo non fosse esperto nell’uso delle armi”.
Si tratta, naturalmente, solo della versione di uno dei testimoni. Altri presenti non hanno potuto confermare se Pozzolo avesse l’arma in mano al momento dello sparo – tra questi Luca Zani, consigliere comunale di Biella recentemente coinvolto in un grave incidente in bicicletta. Luca Campana, il ferito, avrebbe invece sostanzialmente confermato il racconto di Morello. Per quanto riguarda il deputato, al momento ha scelto di non parlare con gli inquirenti.
(da Fanpage)
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Febbraio 9th, 2024 Riccardo Fucile
“IL GOVERNO VUOLE METTERE LE MANI SULLA MAGISTRATURA”
Il Senato sta per approvare la riforma della giustizia firmata dal ministro Nordio, o ‘ddl Nordio’, che prevede diversi interventi: dall’abolizione del reato di abuso d’ufficio alla riduzione di quello di traffico d’influenze illecite, da regole più stringenti sulle intercettazioni e sulla custodia cautelare in carcere al divieto di fare appello per le sentenze di assoluzione nei confronti dei reati non gravi. Il voto finale a Palazzo Madama è atteso martedì 13 febbraio.
Roberto Scarpinato, ex magistrato e senatore del Movimento 5 stelle, è intervenuto più volte in Aula per criticare la norma, e soprattutto la cancellazione dell’abuso d’ufficio. In un’intervista a Fanpage.it, Scarpinato ha spiegato perché ritiene che il ddl Nordio faccia parte di una “politica classista” del governo, che protegge una visione del potere “per cui chi detiene l’autorità gode di un potere incontrollato in posizione di supremazia gerarchica sui cittadini”.
Uno degli aspetti più dibattuti del ddl Nordio è l’abolizione del reato di abuso d’ufficio. Chi l’ha proposta dice che semplificherà la vita dei sindaci, cancellando la “paura della firma”. Perché lei è fortemente contrario?
Dopo l’ultima riforma del 2020 il reato di abuso di ufficio non riguarda più l’attività discrezionale dei pubblici amministratori, ma si consuma solo in tre casi, che nulla hanno a che fare con la cosiddetta paura della firma, motivazione falsa addotta dalla maggioranza per giustificare l’abrogazione del del reato.
Quali sono questi tre casi?
Quando il pubblico amministratore intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale violando specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge dalle quali non residuino margini di discrezionalità. Oppure quando viola l’obbligo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti. O, infine, quando intenzionalmente arreca ai cittadini un danno ingiusto per motivi di odio, di rancore, di ritorsione e altri motivi biasimevoli.
La maggioranza sottolinea che ogni anno migliaia di fascicoli di indagine sull’abuso d’ufficio, la grandissima maggioranza, vengono archiviati. Secondo lei il reato andrebbe perlomeno modificato?
Sono state fatte puntuali proposte di modifica del reato che non sono state prese in alcuna considerazione, perché questa maggioranza è in realtà intollerante nei confronti di tutti i controlli, siano quelli della Corte dei Conti, siano quelli dell’Anac, siano quelli della magistratura, siano quelli della stampa indipendente. Il manovratore non deve essere disturbato. Quanto ai fascicoli archiviati, in sede di audizione alla commissione Giustizia, abbiamo verificato grazie agli esperti che il tasso medio nazionale di archiviazione di tutti i procedimenti penali è del 62%.
Quello per l’abuso d’ufficio però è molto più alto. Perché?
Ha superato questa soglia perché nel corso del tempo ha subìto quattro modifiche che ne hanno via via ristretto il campo operativo. Ogni volta che il reato veniva modificato, si aveva un rialzo statistico delle archiviazioni e delle assoluzioni perché fatti che sino al giorno prima erano considerati reati, non lo erano più. L’ultimo picco statistico non a caso si è verificato nel 2021, perché nel 2020 il reato ha subìto un drastico ridimensionamento. A ciò si aggiunga che tanti cittadini non si sono ancora resi conto di questo cambiamento, e continuano a presentare denunce per abusi per atti discrezionali che vanno subito archiviate perché il fatto non costituisce più reato. In realtà le statistiche dimostrano che, dopo che il reato di abuso di ufficio è stato ridotto all’osso, cioè è stato limitato solo alle sue forme più estreme, si è registrato un progressivo e costante decremento numerico dei procedimenti definiti in giudizio.
Se non serve per aiutare i sindaci che effetto ha la cancellazione del reato?
Si rendono lecite tutte le dolose strumentalizzazioni del potere pubblico per finalità profittatrici, clientelari e nepotistiche del pubblico ufficiale e del suo gruppo politico. Si legalizza il conflitto di interesse, si privano i cittadini di ogni difesa contro abusi di potere per fini di vendetta e ritorsione. L’Italia scivola così al rango di quegli staterelli di democrazia incompiuta nei quali vige una concezione patronale tardo-feudale dell’esercizio del potere pubblico, per cui chi detiene l’autorità gode di un potere incontrollato in posizione di supremazia gerarchica sui cittadini. Si passa a un rapporto padrone-suddito.
Pensa che nel tempo sul ddl Nordio sarà chiamata a intervenire la Corte costituzionale?
Tutto ciò che ho descritto è in palese contrasto con l’art. 97 della Costituzione, che tutela il principio del buon andamento e della imparzialità della pubblica amministrazione. Ma anche con l’art. 54 che impone ai cittadini che svolgono funzioni pubbliche il dovere di adempierle con disciplina e onore, e con l’art. 24 che garantisce ai cittadini il diritto di agire in giudizio per la tutela dei loro diritti. Credo che non solo interverrà la Corte Costituzionale, ma che rischiamo una procedura di infrazione da parte dell’Unione europea, perché si violano anche le direttive dell’Ue in materia.
Allargando il discorso al ddl nel complesso, poche settimane fa ha detto che il ministro Nordio promuove una politica per “adeguare il sistema penale all’assetto classista della società”. In che modo?
Le forze politiche che compongono l’attuale maggioranza governativa hanno un comun denominatore: l’avversione alla Costituzione del 1948, ai suoi valori basilari di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, al suo assetto dei poteri che si fonda sulla divisione e sul reciproco bilanciamento dei poteri, sulla centralità del Parlamento, sulla indipendenza della magistratura. Il ministro Nordio, nonostante dichiarazioni di facciata, condivide questa mancanza di affezione alla Costituzione e si è fatto promotore e interprete fedele di una politica classista caratterizzata da un doppio binario: pugno di ferro per i reati della gente comune e guanti di velluto per i colletti bianchi.
Perché l’intenzione sarebbe di “ricondurre l’ordine giudiziario sotto il controllo dei vertici politici”, come ha detto lei in Aula?
Lo stesso ministro Nordio ha sempre dichiarato che secondo lui il potere di indagine dovrebbe essere sottratto ai pubblici ministeri, come prevede l’art. 109 della Costituzione, ed essere invece affidato esclusivamente agli organi di polizia che, a differenza dei magistrati, si trovano in posizione di subordinazione gerarchica nei confronti del governo.
Mi ricorda tanto coloro che accusavano Falcone e Borsellino di essere “giudici sceriffi” perché dando attuazione all’art. 109 della Costituzione, avevano assunto la direzione delle indagini, dando così, non a caso, una svolta decisiva al contrasto alla mafia. È significativo che questo tipo di critiche veniva dagli ambienti politici che temevano che il pool antimafia alzasse il tiro delle indagini anche nei confronti dei colletti bianchi, come poi avvenne con l’arresto dei potentissimi cugini Salvo, terminali politici insieme a Salvo Lima del potere politico del tempo. Arresto che diede avvio allo smantellamento del pool antimafia. È bene che queste storie del passato le ricordiamo, perché viviamo in una fase storica nella quale giorno dopo giorno rischiamo di tornare al nostro peggiore passato.
A ottobre disse a Fanpage.it che il governo Meloni stava seguendo un disegno per “mettere sotto controllo la magistratura, la libera stampa, chiudere tutte le voci di dissenso”. Anche il ddl Nordio rientra in questo disegno? Quale pensa siano i prossimi passi?
Il disegno è in piena fase di attuazione. I prossimi passi sono l’approvazione del premierato con la costruzione di una piramide che concentra tutti poteri in un solo vertice, mettendo in un angolo il Parlamento e il presidente della Repubblica, e la riforma della Costituzione per consentire al governo di mettere le mani anche sulla magistratura riconducendola sotto il suo controllo.
(da Fanpage)
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Febbraio 9th, 2024 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE RUSSO HA POTUTO DIFFONDERE LA PROPAGANDA RUSSA GRAZIE ALL’INTERVISTATORE FARLOCCO
L’intervista di Tucker Carlson a Vladimir Putin è stata pubblicata sul suo sito e su Twitter/X poco dopo la mezzanotte (ora italiana). Il controverso giornalista americano, annunciando l’evento, ha diffuso una fake news presentandosi al pubblico come l’unico giornalista occidentale ad aver voluto intervistare il leader russo per raccontare agli americani una presunta verità sul conflitto in Ucraina. Oltre ad aver mentito e diffuso un pensiero di sfiducia nei confronti del giornalismo occidentale, Vladimir Putin ha ottenuto la possibilità di ribadire la propaganda del Cremlino, nota fin dal 2014 a oggi, senza essere smentito o contraddetto. In nessun caso, Carlson si è rivolto a Putin in merito ai crimini di guerra contestati, come quelli della strage di Bucha. Al contrario, ha permesso al leader russo di elogiare il sistema missilistico russo senza tirare in ballo le morti dei civili ucraini.
La premessa di Carlson
Nel corso di un monologo che introduce l’intervista, Carlson racconta agli spettatori le sue impressioni su come Putin abbia risposto, per quasi mezz’ora, alla prima domanda riguardante le motivazioni che lo avrebbero portato a invadere l’Ucraina nel febbraio 2022. Dichiarandosi inizialmente «scioccato» e riportando i suoi presunti sospetti su una «tecnica di ostruzionismo» da parte dell’intervistato, cambia idea e descrive l’intervento di Putin come «sincero, che siate d’accordo o meno», portando gli spettatori a prendere per buone le sue parole. Il leader russo non si è trovato di certo intimorito dal giornalista, sbeffeggiandolo un suo presunto tentativo di unirsi alla Cia («Dobbiamo ringraziare Dio che non ti hanno fatto entrare») e facendogli intendere fin dall’inizio di voler seguire una sua “scaletta” («Stiamo facendo un talk show o una conversazione seria?»). L’unico momento critico riguarda il caso del giornalista del Wall Street Journal Evan Gershkovich chiedendone la liberazione, ovviamente negata facendo intuire una soluzione: la liberazione di un sicario russo dal carcere in Germania.
I presunti “colpi di Stato” in Ucraina
Vladimir Putin ribadisce una teoria della propaganda russa nota al pubblico occidentale, quella dell’inesistente “colpo di Stato” nel 2014 in Ucraina. Nell’intervista, tuttavia, racconta di un altro presunto “golpe” nel 2004, quando il filorusso Viktor Yanukovich venne sconfitto durante le elezioni presidenziali da Viktor Juscenko. Carlson, sentendo questa storia, domanda a Putin se i fatti risalissero al 2014, dimostrando una scarsa conoscenza del tema trattato.
Nel 2004 ci furono tre votazioni per l’elezione del presidente ucraino. Viktor Yanukovich, all’epoca primo ministro, risultò vincitore al secondo turno, ma il voto venne contestato dagli sconfitti. La Corte Suprema dichiarò l’elezione non valida, confermando le accuse di brogli elettorali e ordinando la ripetizione del voto, che vide vincente Yushchenko. Secondo Putin, quella terza votazione non sarebbe stata accettata nemmeno negli Stati Uniti perché “non prevista dalla Costituzione americana”. Carlson ha seguito l’affermazione del leader russo senza contestarlo, nonostante lo stesso conduttore sia noto per aver alimentato attraverso palesi fake news le accuse di presunti brogli elettorali durante le elezioni del 2020 negli Stati Uniti.
Putin afferma che Viktor Yanukovich non avrebbe «utilizzato né le forze armate, né la polizia» durante le proteste dell’opposizione del 2014 «come richiesto dagli americani». Ciò non corrisponde al vero, in quanto nel corso della rivoluzione popolare sono ben documentati gli interventi della polizia antisommossa ucraina Berkut. L’unità venne accusata di vari crimini contro i civili ucraini e successivamente sciolta per decreto.
Secondo Putin, l’invasione dell’Ucraina non è colpa della Russia
Secondo Putin, sarebbe stata l’Ucraina a «iniziare la guerra nel 2014» a seguito della caduta di Yanukovich, minacciando la Crimea e lanciando l’intervento militare nel Donbass. L’intervento del 2022, dunque, sarebbe una forma da parte della Russia di fermare il conflitto “voluto da Kiev”. Sostiene, inoltre, che dopo il presunto “colpo di Stato” avrebbe «ripetutamente proposto di cercare una soluzione» con «mezzi pacifici».
I fatti storici dimostrano invece che il conflitto venne avviato proprio dalla Russia, la quale inizialmente negò il suo intervento. Nel 2014, poco dopo la fuga di Yanukovich, le truppe russe denominate “omini verdi” entrarono in Crimea occupando irregolarmente la penisola. Successivamente, i separatisti filorussi presero possesso dei palazzi governativi delle regioni del Donbass di Lugansk e Donetsk, avviando il conflitto armato con Kiev. Secondo quanto emerso durante il processo sulla strage del volo MH17 nel 2014, la Corte dell’Aja ha affermato senza alcun dubbio che la Federazione russa controllava le forze separatiste del Donbass. La sentenza ha chiaramente indicato che quello nella regione è un “conflitto internazionale”, contrariamente alla definizione di “guerra civile” portata avanti dalla propaganda russa. Nonostante ciò, Carlson non interviene, permettendo al leader russo di raccontare una versione dei fatti non corrispondente alla realtà.
La fantomatica “denazificazione”
Carlson, dichiarandosi ignorante, domanda a Putin cosa intenda per «denazificazione dell’Ucraina». Putin, a quel punto, si trova nella condizione di descrivere nuovamente un altro cavallo di battaglia della propaganda russa, come dimostrato dalle numerose fake news diffuse contro gli ucraini e Zelensky dal 2014 ad oggi. Infine, sostiene che durante le negoziazioni di Instanbul avrebbe chiesto all’Ucraina di vietare per legge il nazismo, ignorando che questa norma esiste fin dal 2015 ed è ben nota a livello internazionale perché vietava allo stesso tempo il comunismo. La legge venne osteggiata anche in Ucraina e sottoposta al giudizio della Corte Costituzionale che, con sentenza del 2019, la dichiarò legittima e per niente anticostituzionale.
Putin sostiene di aver parlato con Zelensky e di avergli rivolto una domanda sul suo fantomatico sostegno al nazismo: «Ho detto, Volodymyr, cosa stai facendo? Perché oggi sostieni i neonazisti in Ucraina mentre tuo padre combatteva contro il fascismo? Era un soldato in prima linea. Non ti dirò cosa ha risposto». C’è un problema: Oleksandr Semenovych Zelensky, padre del leader ucraino Zelensky, è nato nel 1947, due anni dopo il conflitto.
Non è la prima volta che viene presentata un’accusa infondata di nazismo nei confronti dei politici non vicini al Cremlino. Viktor Juscenko venne definito “nazista” dal suo avversario Viktor Yanukovich durante la campagna elettorale del 2004, nonostante il passato della sua famiglia: il padre, soldato dell’Armata Rossa, imprigionato nei campi di concentramento, mentre sua madre avrebbe protetto tre ragazze ebree durante la seconda guerra mondiale.
Il caso Evan Gershkovich e il sicario russo
L’unico momento in cui Tucker Carlson sembra voler incalzare Putin riguarda la detenzione di Evan Gershkovich, giornalista del Wall Street Journal, insistendo per una sua liberazione. Putin non è d’accordo, sostenendo che Evan sia stato identificato in quanto spia straniera in territorio russo. Il leader russo afferma che in Occidente ci sarebbe qualcuno accusato ingiustamente di essere collegate ai servizi del Cremlino. Il riferimento è al sicario russo Vadim Krasikov, incarcerato in Germania per aver ucciso una persona in pieno giorno nel centro di Berlino.
Putin descrive Vadim Krasikov come un «patriota» che «per sentimenti patriottici, eliminò un bandito in una delle capitali europee». Il suo merito, secondo il leader russo, sarebbe quello di aver ucciso una persona ritenuta colpevole di aver compiuto dei massacri nel Causaso contro i soldati russi.
Come riportato dal giornalista bulgaro Christo Grozev, principale investigatore russo di Bellingcat, il cognato di Vadim Krasikov ha dichiarato con certezza che fosse un membro effettivo del servizio FSB russo. Nel racconto, Alexander V. (il cognato) sostiene che Krasikov si sarebbe diplomato nella scuola militare di Ryazan per poi essere inviato in Afghanistan nell’unità Vympel all’epoca controllata dal KGB. Infine, afferma che Krasikov avrebbe ricevuto un premio direttamente dal Presidente russo per un’operazione in Asia centrale.
Non è la prima volta che si parla di uno scambio di prigionieri per liberare il sicario russo Vadim Krasikov. Il Cremlino ci provò nel 2022, proponendo la liberazione dell’ex marine Paul Whelan.
La teoria del Deep State amata dai sostenitori di Trump
Putin accusa la Cia di aver orchestrato il fantomatico “colpo di Stato” nel 2014 in Ucraina. Nel corso dell’intervista, l’agenzia americana viene indicata come la manovratrice degli governi di Washington. Raccontando di una sua proposta militare alla presidenza Bush che sarebbe poi naufragata, senza andare nel dettaglio in quanto la definisce una «conversazione confidenziale», porta Carlson a fargli una domanda molto chiara: «Hai descritto i presidenti degli Stati Uniti prendere decisioni e poi essere indeboliti dai capi delle loro agenzie. Quindi sembra che tu stia descrivendo un sistema che non è gestito dalle persone elette». Putin risponde: «Esatto, esatto». Di fatto, Carlson ha permesso a Vladimir Putin di insinuare negli americani la teoria del complotto del Deep State abbracciata dai sostenitori di Donald Trump. L’operazione viene ribadita anche in un altro episodio, quello in cui Putin sostiene di aver proposto a Clinton di far entrare la Russia nella NATO, ma dopo un primo interesse avrebbe risposto in maniera negativa a seguito di un colloquio con la sua «squadra».
La forzata narrazione storica
Risulta evidente che il leader russo abbia sostenuto con certezza personale che la Russia possa rivendicare i territori occupati e non solo, riportando una versione della storia a partire dall’862 al fine di negare l’esistenza del popolo ucraino, attribuendo un’origine russa precedente a quella di Kiev.
Putin indica come anno di fondazione dello stato russo l’862, ma risulta fuorviante. Tale data riguarda l’arrivo degli scandinavi a Novgorod, come da lui stesso raccontato nell’intervista abbracciando la teoria più accreditata sull’origine vichinga dei Rus’. Da questi prenderà il nome l’ex impero medievale Rus’ di Kiev, che comprendeva gran parte dell’attuale Ucraina, Bielorussia e parte della Russia. Putin cita un’altra data, ossia quella del 988 quando il sovrano di Rus’ di Kiev Vladimir I convertì il popolo di Kiev al cristianesimo ortodosso, diventando una provincia ecclesiastica del patriarcato bizantino. Vladimir il Grande (958-1015 d.c.) viene indicato come fondatore sia dell’Ucraina che della Russia, a seconda delle narrazioni. C’è da dire che la storia di Rus’ di Kiev risale a molto prima della fondazione di Mosca nel XII secolo (1147), così come del principato di Mosca e dell’Impero russo.
Putin descrive l’Ucraina come uno «stato artificiale» di recente creazione, definendo come responsabili in passato Lenin e oggi Stalin nel corso dell’intervista. La sua ricostruzione storica degli eventi per descrivere Kiev come una sorta di costola della Russia non è affatto una novità per i media occidentali. Una versione della storia recente che non coincide, visto che il sentimento nazionale ucraino era già presente nel corso della metà del 1800, non tollerato dallo zar Nicola I, così come si riscontrano opere letterarie in lingua ucraina fin dal 1794, attraverso pubblicazioni come l’Eneide travestita dello scrittore Ivan Petrovyč Kotljarevs’kyj.
Come riportato da Giorgio Cella, in un articolo di Limes dell’aprile 2022, «Putin vuole passare alla storia come il leader russo che ha riportato l’antica terra della Rus’ di Kiev, o parte di essa, nell’orbita di Mosca. Si tratta di forzate chiavi di lettura che, la storia ci ricorda, hanno spesso avuto risvolti esiziali». La narrazione di Putin potrebbe essere paragonata a una forzata pretesa dell’Italia nel ridisegnare i propri confini con i Paesi confinanti in base alle conquiste dell’Impero romano.
(da Open)
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