Febbraio 21st, 2024 Riccardo Fucile
INSORGONO LE OPPOSIZIONI E PERSINO IL PRESIDENTE LEGHISTA DELLA CAMERA FONTANA SBOTTA: “DAL GOVERNO PIU’ RISPETTO PER L’AULA”
Caos alla Camera sulle sei mozioni in materia di tutela della professione giornalistica. La seduta in cui il governo avrebbe dovuto esprimere i pareri sulle mozioni è stata rimandata a causa della confusione tra i testi nel fascicolo. È stato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, scusandosi, a chiedere una prima pausa di mezz’ora a inizio seduta per esaminare i documenti, presentati da Avs, Azione, Italia Viva, M5S, maggioranza e Pd.
Una volta ripresa la seduta, Ostellari ha chiesto del tempo in più “per fare una nuova verifica” perché i pareri dati alle prime due mozioni “erano sbagliati” per il “sovrapporsi di testi in uno stesso fascicolo”. “Vi chiedo scusa e di pazientare ancora una mezz’oretta”.
Una richiesta che ha fatto insorgere le opposizioni.
“Noi eravamo in aula alle 9 del mattino – dice Anna Laura Orrico (M5s) – le mozioni erano state depositate tutte ieri sera. E’ imbarazzante l’atteggiamento del governo. Siamo pronti per votare e il governo ci rinvia di 10 minuti in 10 minuti. Presidente, se il governo non è in grado di esprimere parere ce lo dica, e si rinvia”.
Le fa eco Valentina Grippo di Azione: “Si lavora tutti e ci sta si facciano errori, ma parliamo del diritto all’informazione e della governance del sistema radiotelevisivo. Sarò all’antica, mi sarei aspettata Meloni. Non c’è lei, ma almeno un pochino di attenzione per questa discussione che è all’ordine dei lavori da tempo”.
“Siamo in una situazione imbarazzante – attacca Elisabetta Piccolotti (Avs) – prendiamo atto che il governo non riesce a dare pareri su un tema importante e sentito come quello libertà informazione. Ero qui alle 8 per discuterne”. E Federico Fornaro del Pd chiede a Fontana di riprendere tra una settimana i lavori sulle mozioni.
Dopo le polemiche, anche il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, ha “bacchettato” l’esecutivo: “Pur ringraziando dell’onestà il sottosegretario Ostellari – chiaramente un errore lo si perdona a chiunque – serve anche da parte del governo, e lo richiedo, maggiore attenzione e rispetto dell’Aula”.
(da agenzie)
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Febbraio 21st, 2024 Riccardo Fucile
IL SINDACO LEGHISTA DI PONTOGLIO (BRESCIA) L’HA NEGATA A UNA PERSONA DI ORIGINI MAROCCHINE CHE VIVE IN ITALIA DA 23 ANNI… L’AVVOCATA SIMONELLI SPIEGA PERCHE’ NON POTEVA FARLO
Il sindaco di Pontoglio (Brescia) ha raccontato di aver negato la cittadinanza italiana a una persona di origini marocchine. La donna vive in Italia da ventuno anni e precisamente dal 2003. Il primo cittadino Alessandro Pozzi, che fa parte del partito della Lega, ha affermato che la richiesta è stata rigettata per evidenti carenze linguistiche.
“È stato un gesto doveroso, di rispetto verso i cittadini di origine straniera che sono diventati italiani e si sono integrati nella nostra comunità”, ha sostenuto.
Ma un sindaco ha davvero la facoltà di poter respingere una domanda di cittadinanza? A Fanpage.it lo ha spiegato l’avvocata Simona Stefanelli, esperta in Diritto dell’Immigrazione e cittadinanza.
Qual è l’iter da seguire per chiedere la cittadinanza italiana e quali sono i requisiti?
La richiesta di cittadinanza italiana va presentata attraverso il portale del ministero dell’Interno e tramite Spid. E si può fare in base a diversi criteri: la naturalizzazione ovvero essere residenti continuativamente per dieci anni sul territorio nazionale e avere negli ultimi tre anni un reddito di almeno 8263,31 euro senza persona a carico o di 11.362,05 con coniuge più 516 euro per ogni figlio o dopo un matrimonio con un cittadino italiano, ma bisogna essere residenti da almeno due anni.
Occorre produrre un certificato penale e l’atto di nascita, che devono essere tradotti, legalizzati e apostillati dal Paese di origine. È necessario poi allegare il passaporto e il documento di identità.
È fondamentale dover conoscere perfettamente la lingua italiana per avere la cittadinanza?
Per la richiesta di cittadinanza è richiesto un certificato che dimostri di aver superato un test di conoscenza della lingua italiana di livello B1. L’attestato è rilasciato dalle scuole autorizzate dal ministero competente. Chi però ha un permesso di soggiorno di lungo periodo Ue non deve fare il test. Credo che la signora di Pontoglio avesse un permesso simile considerato che era in Italia dal 2003. Per lei non era quindi obbligatorio l’esame di lingua. È inoltre molto probabile che, dovendo produrre un documento che attesti il proprio reddito, abbia un impiego o comunque paghi le tasse in Italia.
Un sindaco può negare la cittadinanza?
Non rientra nei suoi poteri. È sempre la Prefettura a decidere e a dover verificare che vi siano i presupposti a concederla o meno. È vero però che ogni Prefettura gestisce queste questioni a proprio modo. Attualmente la più tollerante è Milano. Sulla base di quanto disposto dalla legge, è necessario che tutti i criteri previsti al momento della presentazione della domanda siano soddisfatti. Non devono esserci vuoti relativi alla residenza, ma è pur vero che alcune volte i Comuni cancellano i cittadini stranieri che magari si allontanano proprio da quel comune per due anni per questioni lavorative.
(da Fanpage)
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Febbraio 21st, 2024 Riccardo Fucile
PER IMPRIMERE UNA SVOLTA MODERATA AL PARTITO PIER SILVIO E MARINA HANNO SCELTO UN POLITICO DISTANTE DAI SOVRANISTI
L’intervista con cui Letizia Moratti annuncia il suo impegno con Forza Italia ha molto colpito gli attenti osservatori delle vicende berlusconiane. L’ex sindaca di Milano sbarca nel partito fondato dal Cav non certo per fare la comparsa: avrà potere e possibilità di influenzare l’azione politica.
“Mestizia” non è certamente un profilo politico di destra, tanto è vero che alle ultime elezioni regionali in Lombardia è scesa in campo, sostenuta dal Terzo Polo, contro la destra di Meloni e Salvini. Non ha mai mancato di ricordare il padre partigiano, l’impegno civile con San Patrignano e l’intervista che la consacra nuovo astro di Forza Italia non l’ha certo rilasciata al “Corriere della Sera” filo-meloniano né all’antipatizzante “Repubblica”, ma ha scelto una via di mezzo, cioè “La Stampa” di Andrea Malaguti.
La “moderazione” sarà probabilmente al centro della sua avventura: un baluardo da opporre a certi estremismi di Salvini e ad altre sbandate fazzolar-meloniane. Aver coinvolto Letizia Moratti nel partito è la dimostrazione che Pier Silvio e Marina Berlusconi vogliono imprimere un cambiamento concreto, evidente, per rendere il giocattolino sempre meno supino a Fratelli d’Italia.
L’arrivo di Lady Brichetto Arnaboldi non ha trovato la resistenza del merluzzone con origini ciociare, Antonio Tajani. Dovendo tutto a Silvio Berlusconi, e avendo ottenuto dalla politico più di quanto il suo carisma floscio avrebbe lasciato immaginare, l’ex monarchico si fa concavo e convesso per rispettare la volontà dei figli del Cav. Il 70enne, già ex presidente dell’Europarlamento e commissario UE, e adesso ministro degli Esteri e vicepresidente del Consiglio, ballerà qualche altro anno prima di ritirarsi a un’onorevole pensione.
Per questo non si opporrà al nuovo progetto di Forza Italia tendenza Moratti-Berlusconi.
L’idea del trio è dare una nuova identità e un profilo più marcato, in chiave centrista-popolare, al partito. Anche la scelta dei quattro vicesegretari, che dovranno coadiuvare Tajani, risponde a una strategia più ampia di riorganizzazione.
I “fab four” prescelti sono Alberto Cirio, in quota Nord, Roberto Occhiuto in quota Sud (la Calabria è un feudo azzurro e proprio Occhiuto, vicino a Tajani, potrebbe essere il fantomatica “vicario”), Deborah Bergamini, in quota Roma (dovrebbe raccogliere l’eredità diplomatica di Gianni Letta) e infine il “golden boy” Stefano Benigni, in quota “giovani”, in quota Marta Fascina, con l’imprimatur del mondo siciliano (Dell’Utri).
Il governatore della Sicilia, Renato Schifani, avrebbe voluto essere tra i vice, ma, dimostrando una certa ingordigia, sembra non ricordare come sia diventato presidente della Regione: per consegnargliela, Berlusconi convinse Giorgia Meloni a immolare l’incolpevole Musumeci, che avrebbe ottenuto facilmente un secondo mandato, e invece ha dovuto levare le tende da Palermo per far posto all’ex presidente del Senato.
Nell’intervista alla “Stampa”, Letizia Moratti manda un avvertimento anche alla “vedova morganatica”, Marta Fascina: la sprona a impegnarsi di più in politica, e dunque a sloggiare da Arcore, per tornare finalmente a Roma, tra gli scranni di Montecitorio. A tal proposito, la giovane deputata dovrà iniziare a pagare di tasca proprio le due segretarie che ha a disposizione, visto che Forza Italia non intende più provvedere all’incombenza.
La strategia della moderazione, che Pier Silvio e Marina vogliono imprimere a Forza Italia attraverso Letizia Moratti, è già in corso a Mediaset: l’ennesima conferma di questa tendenza è la mielosa profferta di “Pierdudi” a Fabio Fazio, con cui gli ha spalancato le porte del Biscione nel prossimo futuro.
La scelta di affidare a Fabiolo, tanto caro al Pd tendenza Veltroni, la conduzione dello speciale per ricordare Maurizio Costanzo, è il chiaro segnale di un cambio di strategia: Fazio non è mai stato molto vicino a Costanzo, che non lo considerava, a differenza di altri talenti da lui scovati e allevati, una sua “creatura”. Il conduttore savonese, inoltre, non ha mai nascosto le proprie simpatie politiche, che non solo non si sono mai incrociate con l’epopea del Cav, ma che lo hanno trasformato in uno dei televolti più detestati dal centrodestra.
Pier Silvio non vuole che Mediaset sia ancora una tv per casalinghe, ma immagina un polo editoriale intellettualmente più vivace, motivo che lo ha spinto a ingaggiare le “sinistrelle” Bianca Berlinguer e Myrta Merlino, e a congedare la Regina del trash, Barbara D’Urso, tanto cara a Babbo Silvio.
Non è, probabilmente, una scelta solo editoriale. A muovere “Pier Dudi” c’è, da un lato, l’esigenza di rendere più pluraliste le sue reti (una televisione al servizio di Forza Italia fa meno ascolti e rende meno). Dall’altro, emergono profili personali quasi freudiani: Pier Silvio vuole dimostrare la sua autonomia di giudizio nella gestione dell’azienda. Per questo, pur ricordando sempre e con toni amorevoli il padre, non perde occasione per discostarsi dalle sue scelte. Vuole rendere evidente la diversità della sua guida. Una discontinuità editoriale nella continuità affettiva, utile ad affermare la sua leadership.
(da Dagoreport)
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Febbraio 21st, 2024 Riccardo Fucile
DAL SINDACO “VENDICATIVO” AL DIRIGENTE CHE ASSUME LA NIPOTE: I CASI VERI
Il sindaco che non rinnova l’incarico a un funzionario “per fini ritorsivi e discriminatori“. Quello che requisisce l’immobile oggetto di una causa civile a cui è personalmente interessato. Quello che nega un’autorizzazione perché “il marito della richiedente non gli aveva fornito adeguato sostegno in occasione delle precedenti consultazioni elettorali”. O quello che ordina “la revoca dell’incarico dirigenziale ricoperto da un dipendente candidatosi in una lista contrapposta“. Sono tutti esempi recenti di pubblici amministratori condannati in via definitiva per abuso d’ufficio, cioè per aver violato la legge allo scopo di favorire qualcuno danneggiando qualcun altro. Domani, quando il reato non esisterà più, quelle condotte non saranno più punibili, e le condanne irrevocabili già emesse (3.623 dal 1997 al 2022, in media 140 all’anno) saranno cancellate con effetto retroattivo. A ricordarlo è il Consiglio superiore della magistratura nella bozza di parere sul ddl Nordio, il progetto di riforma che abolisce la fattispecie penale più odiata dai primi cittadini, approvato nei giorni scorsi dal Senato e ora all’esame della Camera per il via libera definitivo. Nel documento licenziato all’unanimità dalla Sesta Commissione – oggi all’esame del plenum, l’organo al completo – i consiglieri di palazzo dei Marescialli inseriscono una rassegna di casi concreti tratti dalla giurisprudenza della Cassazione, per mettere in guardia il Parlamento sulle conseguenze dell’abrogazione: ne viene fuori, scrivono, “un quadro alquanto variegato delle condotte di abuso di vantaggio (profittatorio) o di danno (vessatorio, discriminatorio, ritorsivo o prevaricatorio)” che con la nuova legge non costituiranno più reato. Salvando i sindaci disonesti, certo, ma non solo loro.
I soprusi per cui la Suprema Corte ha confermato le condanne negli ultimi anni, infatti, sono stati commessi dalle figure più varie. C’è “un dipendente comunale che (…) aveva intenzionalmente procurato a sé e ai propri familiari un ingiusto vantaggio patrimoniale consistente nell’affidamento diretto alla società di cui essi erano parte di numerosi incarichi per lavori per un importo di svariate migliaia di euro” (sentenza n. 10067 del 25/02/2021); “un dirigente comunale del settore politiche sociali che (…) omettendo di astenersi dal predisporre il bando di gara e dal presiedere la relativa commissione esaminatrice (…), ha, con affermazioni generiche e non verificabili, dichiarato vincitrice del concorso sua nipote, assumendola e stipulando personalmente il contratto di collaborazione” (sentenza n. 33240 del 16/02/2021); “un assessore che aveva autorizzato una lavoratrice contrattista, moglie del sindaco, a svolgere prestazioni lavorative aggiuntive rispetto a quelle previste dal contratto, pur in assenza dei presupposti di legge” (sentenza n. 37517 del 02/10/2020). Ma anche il direttore di un ente di gestione di un’area protetta che conferisce alla compagna “un incarico retribuito per lo svolgimento di un’attività lavorativa che avrebbe potuto essere svolta da dipendenti dell’ente” (sentenza n. 7972 del 06/02/2020); o ancora il “responsabile comunale della Polizia municipale che, in violazione di legge, aveva affidato a una società, con procedura diretta e senza alcuna preventiva determinazione della giunta municipale, il servizio di misurazione elettronica della velocità media dei veicoli” (sentenza n. 8057 del 28/01/2021).
Nella proposta di parere, i consiglieri della Sesta Commissione – presieduta dal giudice genovese Marcello Basilico, della corrente progressista di Area – esordiscono ricordando che “la decisione di rinunciare a qualsiasi forma di presidio penale (…) contro abusi compiuti dall’amministrazione e non riconducibili” a reati più gravi rappresenta una novità assoluta nel nostro ordinamento, almeno dal 1930 a oggi. “Si tratta di una soluzione”, si legge, “che richiederà una valutazione approfondita ed effettiva dei suoi effetti concreti, onde evitare il rischio che l’abrogazione del delitto di abuso d’ufficio – norma che assolve ad una funzione di chiusura del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione – determini un depotenziamento del microsistema penale dedicato alla lotta contro la corruzione“. Il documento, seppur tra molti equilibrismi lessicali (è stato votato anche dai consiglieri di area centrodestra) contesta anche l’argomento principe dei fautori dell’abolizione, basata sul numero irrisorio di condanne rispetto ai procedimenti aperti: “Un approccio fondato sul mero dato quantitativo rischia di restituire una visione parziale“, scrivono i membri del Csm, ricordando peraltro che “l’alto tasso di archiviazioni si innesta in un contesto generale in cui la percentuale delle archiviazioni dei procedimenti penali si attesta intorno al 62%” e che “il divario tra iscrizioni e condanne rivela la capacità della giurisprudenza di svolgere, sin dalla fase delle indagini preliminari, la necessaria opera di filtro degli abusi penalmente rilevanti”.
Secondo la commissione del Csm, cancellare l’abuso d’ufficio potrebbe non servire nemmeno a liberare i sindaci dalla famigerata “paura della firma“, “non essendo rari” – si legge – “i casi in cui l’abuso d’ufficio è contestato al pubblico amministratore in concorso con altri reati, anche più gravi, quali il delitto di falso o di truffa o le contravvenzioni in materia edilizia”. Il documento all’esame del plenum si sofferma inoltre sui “vincoli derivanti dagli obblighi internazionali” sottoscritti dall’Italia in questa materia: in primis la Convenzione Onu di Mérida contro la corruzione, che “caldeggia” agli Stati membri di prevedere dell’abuso d’ufficio come reato, “nella consapevolezza che la sanzionabilità della condotta (…) rappresenta un tassello importante nella costruzione di un efficace sistema di contrasto ai fenomeni corruttivi“. Ma anche la proposta di direttiva elaborata dalla Commissione europea dopo lo scandalo Qatargate, che impone “di prevedere sanzioni penali” agli amministratori pubblici che abusano dei propri poteri a fini privati. “Laddove la proposta, attualmente all’esame del Consiglio dell’Unione in prima lettura, dovesse essere approvata”, segnala la bozza di parere, “potrebbe prospettarsi un problema di compatibilità tra la soluzione abrogativa e il diritto eurounitario”, con il conseguente rischio dell’apertura di una procedura d’infrazione contro l’Italia. Peraltro, una volta approvato il ddl Nordio, il nostro diventerà l’unico Paese dell’Unione in cui la condotta attualmente prevista dall’abuso d’ufficio non costituirà reato. Che stiano sbagliando tutti gli altri?
(da ilfattoquotidiano.it)
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Febbraio 21st, 2024 Riccardo Fucile
È SCONTRO TRA GIORGETTI E FITTO PER 3 MILIARDI DI COPERTURE PER LE NUOVE OPERE, A RISCHIO I 6 MILIARDI PER LA “TRANSIZIONE ENERGETICA”: URSO HA COMBINATO UN PASTICCIO CON I CREDITI D’IMPOSTA … IL “FINANCIAL TIMES”: “COSI’ IL PNRR DIFFICILMENTE ALIMENTERÀ LA CRESCITA FUTURA”
“Non è fattibile” rinviare la scadenza al 2026 del Pnrr. Lo ha detto il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis presentando la valutazione intermedia dell’esecutivo comunitario del dispositivo per la ripresa e resilienza. “Cambiare le scadenze è questione molto complessa ed una decisione che implica l’unanimità tra gli stati membri, il passaggio al Parlamento europeo relativamente per esempio alle risorse proprie Ue”, ha spiegato Dombrovskis. “Invece di concentrarsi sulle scadenze il focus andrebbe riferito all’attuazione dei Pnrr”.
Lavorare con lentezza. Così lento, il governo, che il decreto chiamato a muovere il nuovo Pnrr è ancora pieno di norme da correggere e riscrivere. E sei miliardi, quelli del piano Transizione 5.0, sono in pericolo. A due mesi e mezzo dal via libera dell’Europa, l’attuazione della revisione «possibile e doverosa » del Piano nazionale di ripresa e resilienza, come l’ha definita Giorgia Meloni, è ancora incagliata. E così stamattina, quando riunirà i suoi ministri a Palazzo Chigi, la premier dovrà prendere atto dell’ennesimo rinvio.
Non risolutivo perché il ministro-regista del Piano Raffaele Fitto va ripetendo da giorni che «non c’è alcuna scadenza » e che quindi si può arrivare all’approvazione del decreto «entro marzo». Ma più tardi parte il Piano rivisitato, più difficile diventa recuperare i ritardi accumulati. Il rischio, al contrario, è accrescerli.
Lo stato dell’arte del decreto è la spia di questo pericolo. A iniziare dai crediti d’imposta per i progetti sulla transizione energetica e digitale, una delle voci più corpose, per risorse e obiettivi, di RepowerEU, il nuovo capitolo del Pnrr chiamato a mettere a terra in tutto 11,2 miliardi. Più della metà – 6,3 miliardi – sono destinati alle imprese, ma il veicolo scelto dal governo, appunto i crediti d’imposta, ha un difetto: è incompatibile con la scadenza del Piano, fissata al 30 giugno 2026. Entro quella data l’Italia, come tutti gli altri Paesi Ue che hanno attinto dal Recovery Fund, dovrà spendere tutte le risorse e rendicontare le spese, fino all’ultimo centesimo.
Al ministero delle Imprese, che gestisce il piano Transizione 5.0, erano convinti che i crediti d’imposta fossero associabili al timing del Pnrr, ma la Ragioneria ha spento gli entusiasmi. I tecnici del Mef, infatti, hanno spiegato al Mimit che i crediti, fruibili in più anni, generano un disallineamento tra il bilancio di cassa e quello di competenza: i saldi, così, non tornano. Soprattutto si scavalla l’estate del 2026, la dead line del Pnrr.
Ecco perché non regge più lo schema degli investimenti da realizzare nel 2024-2025, come c’è scritto nel nuovo Piano. La correzione, dopo il pasticcio: allo studio ci sono sovvenzioni dirette o accordi di sviluppo, ma le ipotesi devono essere sempre validate dal Tesoro. Il disco verde non si è acceso. E il governo cerca ancora 3 dei circa 20 miliardi che deve anticipare per attuare le nuove misure del Piano. «Stiamo risolvendo», assicurano fonti di Palazzo Chigi. L’idea è utilizzare le risorse che fanno riferimento ai progetti cancellati dal Pnrr, che Fitto aveva promesso di ripescare.
(da agenzie)
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Febbraio 21st, 2024 Riccardo Fucile
SECONDO L’ULTIMO RAPPORTO CENSIS L’OBIETTIVO PER IL FUTURO DI 6 ITALIANI SU 10 È LAVORARE MENO E LE DIMISSIONI SONO CONSIDERATE UNA FUGA PER UN’OCCUPAZIONE MIGLIORE… IL 67% DI COLORO CHE SI DIMETTE TROVA LAVORO ENTRO 3 MESI
Ridurre il tempo di lavoro è l’obiettivo per il futuro di oltre 6 occupati italiani su dieci. E spesso le dimissioni sono una fuga verso un lavoro migliore: tra i lavoratori con meno di 60 anni dimessisi dal lavoro, il 67% entro tre mesi si è ricollocato in un altro impiego. Sono questi i principali risultati del nuovo rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale che descrive come “nuovo paradosso italiano” la voglia di lavorare meno e il mercato del lavoro dinamico.
I dati indicano che il 67,7% degli occupati italiani in futuro vorrebbe ridurre il tempo dedicato al lavoro: lo desidera il 65,5% dei giovani, il 66,9% degli adulti e il 69,6% degli over 50. Già oggi il 30,5% degli occupati (il 34,7% tra i giovani) dichiara di impegnarsi nel lavoro lo stretto necessario, rifiutando gli straordinari, le chiamate o le mail fuori dall’orario di lavoro ed eseguendo solo quel che gli compete per mansione.
Per il 52,1% degli occupati il lavoro attualmente influenza meno la vita privata rispetto al passato, perché si dedica ad attività e ha valori che reputa più importanti. Condivide tale condizione il 54,2% dei giovani, il 50,1% degli adulti e il 52,6% degli anziani. Quasi il 28% ha rinunciato a un lavoro migliore di quello attuale perché la sede era troppo distante dalla propria abitazione.
Il rapporto Censis-Eudaimon sottolinea il dinamismo del mercato del lavoro italiano che vede un livello record di occupazione e un aumento della stabilità. In questo contesto l’81,8% degli occupati sa cos’è il welfare aziendale (il 32,7% in modo preciso e il 49,1% a grandi linee), mentre nel 2018 era il 60,2%. In questo contesto il welfare aziendale, secondo il rapporto, “può diventare uno degli strumenti migliori per trattenere o attrarre i lavoratori”.
Tra i lavoratori che ne beneficiano l’84,3% lo vorrebbe potenziato, e tra coloro che non ne beneficiano l’83,8% vorrebbe fosse introdotto nella propria azienda. Inoltre, il 79,5% degli occupati apprezzerebbe un aumento retributivo sotto forma di una o più prestazioni di welfare. In generale, il 61,5% degli occupati reputa adeguata l’attenzione aziendale in relazione alle esigenze dai lavoratori con figli, il 71% quella alle esigenze delle donne che rientrano dalla maternità, il 62,9% alle esigenze delle persone con una salute fragile, e il 52,3% alle condizioni basiche dei lavoratori, ad esempio la sicurezza.
Invece, per il 61,7% degli occupati l’azienda non è abbastanza attenta al benessere psicofisico generale di tutti i lavoratori, anche di quelli senza problematiche specifiche. Sottolineano di più questo deficit di attenzione aziendale gli impiegati (62,3%) e gli operai (68,4%).
(da agenzie)
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Febbraio 21st, 2024 Riccardo Fucile
IL SINDACO SOVRANISTA RIFIUTA L’ACCOGLIENZA, IL VESCOVO E’ CON GLI ULTIMI; CENTINAIA DI RICHIEDENTI ASILO TRA LE MURA ABBANDONATE
Sono vivi. Respirano tra l’immondizia. Sono vivi, con i piedi rosicchiati dai ratti nascosti tra le tende. Sono del Bangladesh, del Pakistan, alcuni dell’Afghanistan. Sono più di duecento, ma meno di trecento. Sono i figli del Silos, l’immensa struttura abbandonata accanto alla stazione di Trieste, da anni riparo di migranti in attesa di una risposta per rimanere in Italia.
Il silos ormai da anni è abitato dai disperati della rotta balcanica che arrivano via terra, nonostante qui il trattato di Schengen sia stato sospeso nel 2023 e i controlli fortemente inaspriti. Una scelta del governo Meloni per contrastare l’accesso di possibili terroristi.
La luce non ha ancora fatto capolino. Sono le quattro e mezza del mattino. Gli unici a correre nella notte sono decine di topi che non hanno alcuna paura dell’uomo. Fuori dalle mura di questo edificio, pronto a piegarsi su se stesso, arrivano i primi operai delle Ferrovie dello Stato.
Babbul viene svegliato da un amico. Indossa le scarpe ai piedi. È in una posizione fetale. Si alza ed esce dalla tenda: «Dobbiamo andare in Questura a fare la richiesta», gli dice. Vacilla nel risveglio precario. Stira la schiena, e facendo sì con la testa si incammina con Tanvir in mezzo alla fango. Trieste è buia. Inizia la marcia verso la Questura. Sono le cinque del mattino e lungo la via iniziano ad aggiungersi altri migranti. Ridono, è la festa del documento, quando tutti sanno che andranno e otterranno un pezzo di carta che come unica risposta avrà: «Attendete».
Si mettono in fila. Babbul è qui da qualche giorno. Ha speso novemila dollari per arrivare in Italia. Ha due bambini e una moglie e il compito preciso di mandare dei soldi in una terra dilaniata dalle alluvioni e conosciuta per la sua premier Sheikh Hasina, appena riconfermata con un’affluenza alle urne bassissima, accusata dall’opposizione di sparizioni politiche ma osannata dai suoi come la donna che sta guidando il Bangladesh lungo la strada della prosperità.
Tanvir è pakistano. Terra appena uscita da una campagna elettorale attesa e contestata che da sempre ha nello sfondo l’eccezionale influenza dell’esercito in tutti i settori, dai media all’economia. Tanvir guarda sempre di lato: «Non c’è nulla qui per noi, nulla di quello che mi aspettavo». Perché sei venuto? «Mi avevano detto che se pagavo questa cifra mi davano un lavoro». Si avvicina un uomo, ha 36 anni: «Io ho un visto». Come hai un visto? «Sì, ho pagato tredicimila dollari in Bangladesh e mi hanno detto che una volta atterrato in Italia mi sarebbero venuti a prendere in aeroporto. Ma non è arrivato nessuno». Chiediamo di vedere il passaporto. Il visto italiano, eccolo. Scadenza: agosto 2024. Carta straccia che gli permette di stare qui regolarmente, ma non gli dà la possibilità di lavorare.
Si affollano e si ascoltano. Domandano. La polizia alle sette e trenta apre i cancelli. Si mettono in fila ordinati. Cala un silenzio rispettoso. Il sole inizia a farsi largo. Un poliziotto esce e chiede i documenti anche a noi. «Potete stare ma non entrare, e soprattutto dovete stare attenti ai nostri volti. Non vogliamo che vengano visti da nessuna parte», lo dice in tono conciliante.
Le sbarre del cancello ci dividono dai migranti. Vengono fatti sedere su delle sedie e chiamati uno a uno. Un poliziotto esce e parla senza dire il nome: «Noi facciamo il nostro dovere, ma qui non c’è volontà». Volontà per cosa? «Non è normale che delle persone vivano così, ma la struttura è privata. Non possiamo sgomberare nessuno». E allora? «Volontà politica», dice.
LA MECCANICA DEI CONTROLLI
Sono le otto e mezza. Nel Silos sono partiti i controlli settimanali. Ogni mercoledì, solitamente, agenti, finanza e carabinieri parcheggiano le camionette fuori. I topi sono nascosti nelle tane. I migranti sono in fila con i piedi piantati a terra e il loro foglietto in mano che mostrano diligentemente. Contano una ad una le persone e le segnano in un foglietto. Sembra un censimento, mentre i cani della finanza si infilano nelle tende in cerca di droga. Non viene trovato niente.
Chi è senza foglio viene portato in Questura. Gli altri tornano nelle tende.
C’è chi cucina su un fuoco acceso con la legna che si procura in giro. Il silos ha due piani. Il piano terra è sempre bagnato, l’acqua filtra ovunque e in ogni tenda dormono all’incirca tre o quattro persone. C’è una parte, sempre a pian terreno, destinata a donne e bambini. Ma oggi non ci sono. Loro sono riusciti ad ottenere un letto entrando nel sistema di accoglienza. Al secondo piano si accede abbassando la testa e passando per un piccolo buco. Due rampe di scale e si arriva in una zona aperta dove dormono all’incirca una cinquantina di migranti. Se non tira la bora e non piove è la suite del Silos perché la terra è asciutta e la notte il corpo non si irrigidisce con il gelo.
Hasan era qui cinque mesi fa. Lo vedo indaffarato a cucinare un po’ di riso bianco in un pentolone lercio: «Non capisco cosa devo fare». Mi passa il foglio e leggo. «Hasan ma tu sai cosa c’è scritto qui?». Guarda il foglio: «No, me lo puoi spiegare». La dicitura è semplice: luogo e orario in cui presentarsi in Questura a Gorizia. Peccato che sia solo in italiano.
Gli chiedo se qualcuno gli abbia tradotto ciò che c’è scritto: «No», risponde. Non si capisce se sia vero o meno, ma tutti gli altri si mettono in fila e pretendono lo stesso servizio di traduzione.
A Trieste ci sono le associazioni che si occupano di loro. Il centro diurno di via Padova è uno stanzone dove ricaricano il telefono, si riscaldano per qualche ora, si fanno visitare dai medici e chiedono aiuto.
Sono tanti e ammassati. I medici sono tre e fanno entrare uno alla volta. Danno medicinali, tengono il conteggio delle visite passate. «Il Sindaco potrebbe fare qualcosa, è un problema di igiene pubblica», dice uno dei dottori
PATRIOTI CONTRO GLI ULTIMI
Roberto Dipiazza è al suo quarto mandato. Qui nel 2021 per la sua campagna elettorale arrivarono Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani. Erano i giorni dell’attacco alla Cgil, delle proteste No Vax capeggiate, proprio qua, a Trieste, da Stefano Puzzer, fenomeno eclissato in un batter di mani.
Da questo sindaco le uniche parole pronunciate sono state: «Non possiamo accogliere tutti» seguite da un «è un’invasione per colpa dell’Europa che vuole far sfigurare Meloni». Per il resto immobilismo. Il 2 febbraio 2023 ha fatto il suo arrivo in città il vescovo Enrico Trevisi. Tra le prime azioni compiute una visita al Silos con una dichiarata propensione agli ultimi. Niente di strano, verrebbe da pensare, e in linea con i precetti cattolici, ma si sa, non c’è lingua più maligna dei propri concittadini. Ed è così che per le vie della città si è sparsa la voce che vi sia una guerra di nervi tra Curia e Comune, culminata con le festività natalizie. Tradizione vuole che i primi banchi davanti all’altare di San Giusto vengano lasciati vuoti per le autorità.
La messa è andata deserta. Nessuno politico si è presentato, sindaco compreso, con una chiesa gremita e un’omelia, quella del vescovo Trevisi, che ha risuonato tra le panche: «Siamo chiamati a schierarci per i piccoli, i vulnerabili, per gli scarti». ùChiedendo: «Un sussulto di dignità».
Il sindaco ha detto di aver avuto un altro impegno e che la «politica fa il suo lavoro e il Vescovo il suo», quando fino a poco tempo fa aveva urlato «io per loro non farò niente», riferendosi ai migranti.
Era presente invece Dipiazza quando la presidente del Consiglio è arrivata a Trieste per la commemorazione della Foibe. Nel comunicato si leggeva «presso il binario 1 della stazione Centrale la cerimonia di inaugurazione del Treno del Ricordo».
Hanno tutti esultato, visto che il treno sarebbe stato a vista silos e Meloni avrebbe potuto chiedere cosa fosse quella struttura fatiscente dalla quale escono costantemente umani e topi. Il treno del ricordo è stato spostato al binario 2 al suo fianco, chissà perché, c’era un altro convoglio che copriva la vista dell’edificio. Invisibile, come sempre.
(da editorialedomani.it)
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Febbraio 21st, 2024 Riccardo Fucile
“LA PREMIER VIENE IN SARDEGNA SOLO PER UNA PASSERELLA”… “UN VOTO A SORU E’ UN VOTO A TRUZZU CHE E’ IDENTICO A SOLINAS, E’ L’ORA DELLA RISCOSSA”
Novanta comizi dopo la lunga corsa di Alessandra Todde, cominciata lo scorso 3 dicembre con la sua candidatura alla guida della Regione per Pd, M5S e sinistra, è quasi terminata, visto che in Sardegna si vota domenica. Sull’isola per il centrodestra oggi arriva direttamente Giorgia Meloni, e qui Todde si spazientisce subito: «È una passerella elettorale. Da Palazzo Chigi cos’ha fatto finora per i sardi?».
Alcuni sondaggi elettorali la danno avanti, sarebbe quasi un miracolo. Lei che sensazioni ha?
«No guardi, niente sondaggi, ho sempre preferito lasciarli stare. Sento entusiasmo, affetto, voglia di riscatto. La Sardegna è stanca di essere mal governata da giunte incompetenti, inaffidabili, disoneste. Siamo stufi dei soliti volti che antepongono gli interessi di pochissimi a discapito dei tanti. Noi vogliamo cambiare tutto rimettendo le persone al centro dell’agenda politica. Invece Truzzu (il candidato del centrodestra, sindaco di Cagliari, ndr) cerca solo una poltrona da occupare dopo aver messo in ginocchio Cagliari per cinque anni. Non glielo permetteremo».
Lei però ha due avversari: Truzzu ma anche Renato Soru, candidato che pesca anche lui nel centrosinistra. Quali sono i voti da strappare in queste ultime ore?
«Il nostro avversario è il centrodestra. Non basta cambiare nome per nascondere i fallimenti di una giunta incompetente che non è stata in grado di governare la Sardegna, cioè quella di Christian Solinas. Siamo in ritardo su tutto e hanno la faccia tosta di parlare di continuità. Truzzu ripete nei suoi comizi che farà, andrà, gestirà. Ma in questi cinque anni cosa hanno fatto? Lui e Solinas sono identici».
Però le liste di Soru, che vanno da Azione e +Europa a Rifondazione, rischiano di portarvi via voti decisivi.
«Infatti un voto a Soru è un voto a Truzzu. Si sta assumendo una gravissima responsabilità, rischiando di far rimanere al governo quelli che hanno distrutto la regione. Lui sa bene di non essere competitivo, per di più con un sistema elettorale che premia solo i due più votati».
Ma a lei sarebbe piaciuto un comizio congiunto in suo sostegno di Elly Schlein e Giuseppe Conte?
«Abbiamo deciso di chiudere il 23 a Cagliari, dando voce ai rappresentanti della coalizione che mi hanno sostenuta, perché questa è una battaglia dei sardi. La destra chiude con i leader nazionali, noi invece rispondiamo a chi vive qui. Le passerelle lasciamole a Meloni, che tra l’altro da capo del governo ha fatto nulla per questa terra».
Si dice abbia fatto un po’ arrabbiare Schlein-Conte con la sua ripromessa di una chiusura di campagna tutta alla sarda…
«Ma no. Giuseppe è stato con noi tre giorni, Elly anche. Pierluigi Bersani chiude domani a Nuoro. Siamo orgogliosi del lavoro che è stato fatto con tutte e tutti».
Lei ha accusato il governo di essere fascista: esagerazioni da campagna elettorale?
«No, ho detto che alcuni comportamenti ripetuti e tollerati, censori in alcuni casi, nostalgici in altri, sono per me inaccettabili. E che sarebbe bello che dalla Sardegna partisse un messaggio di riscossa e risposta a tutto questo».
Mettiamo che lunedì lei diventi presidente: a quel punto l’alleanza Pd-5 Stelle e sinistra diventerà strutturale?
«Per fermare la destra non vedo altra strada che una coalizione, nella quale non ci siano partiti subordinati ad altri. Abbiamo le nostre differenze, ma anche tanti valori comuni».
Mettiamo che invece lei perda. Resterà consigliera in Sardegna?
«Ho già chiarito questa faccenda, sono sarda e il mio impegno è per questa terra, ma il problema non esiste perché noi vinceremo».
Quali sono le cose più belle e più brutte che si è sentita dire in questa campagna elettorale?
«Pochi giorni fa una mamma di due bambini, mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: “Sei una speranza, aiutaci a cambiare”. Mi ha lasciato senza parole. L’ho abbracciata. Invece mentre facevo la spesa al mercato di San Benedetto a Cagliari una signora mi ha fermato per dirmi che siamo tutti uguali. Le ho chiesto se votasse. Mi ha risposto che non vota da anni. Le ho detto che allora non può lamentarsi, che solo votando possiamo incidere. E che sono orgogliosamente diversa dagli altri sia per valori che per storia personale».
(da repubblica.it)
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Febbraio 21st, 2024 Riccardo Fucile
“NELLA SUA VITA HA SEMPRE COSTRUITO COMUNITÀ. PER QUESTO HO TROVATO VERGOGNOSE LE PAROLE SU DI LEI, DEFINITA ‘TOTALITARIA’. NON SI PERMETTA DI UTILIZZARE QUESTE PAROLE PER UNA DONNA STRAORDINARIA”
Elly Schlein si commuove ricordando la figura di Michela Murgia. “Faccio un po’ fatica a parlarne… Lo ammetto… Scusate…”. Evocare la forza e l’impegno fino all’ultimo di Michela Murgia, sul palco del Teatro Massimo di Cagliari, dove chiude la campagna elettorale con Alessandra Todde, colpisce Elly Schlein. È l’unico momento della serata in cui la segretaria Pd deve interrompersi per arginare l’emozione e riprendere il filo del discorso, mentre un applauso della platea rende omaggio alla scrittrice sarda scomparsa l’estate scorsa.
Passato l’impatto emotivo, Schlein sottolinea che Michela Murgia “mi ha insegnato cosa è l’amore dentro all’amicizia” e che “nella sua vita ha sempre costruito comunità”. “Per questo – e qui la segretaria dem cambia tono – ho trovato vergognose, da chi si tatua ‘Trux’ sul braccio e non si definisce antifascista, le parole su di lei”.
Parole riferite al candidato del centrodestra, Paolo Truzzu, che aveva definito “totalitaria” la scrittrice, come la stessa Schlein ha esplicitato nell’intervista andata in onda sempre stasera a diMartedi’ su La7. “Non si permetta di utilizzare queste parole per una donna straordinaria, sarda e antifascista”, ha ribadito la leader dem che poi – chiosando che “devo una risposta, sennò davvero Michela si sarebbe incazzata” – è tornata dal palco del Massimo di Cagliari sul tema del fine vita ribadendo che “dobbiamo fare una battaglia per un fine vita dignitoso, perché è un diritto e non può essere la giustizia ad arrivare prima della politica quando si tratta di diritti”.
(da repubblica.it)
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