Febbraio 28th, 2024 Riccardo Fucile
MA PER “CONQUISTARE” IL DOGE, TOCCA RISOLVERE LA GRANA DEL TERZO MANDATO: CON UNA LEGGE DI RIORDINO DEGLI ENTI LOCALI: LE REGIONI DECIDERANNO SUL NUMERO DEI MANDATI… LA ”CONCESSIONE” CHE SI MATERIALIZZERÀ PER ZAIA SOLTANTO DOPO LA DETRONIZZAZIONE DI SALVINI DALLA GUIDA DELLA LEGA. DELLA SERIE: FRIGGERE IL “CAPITONE”, VEDERE CAMMELLO
La sconfitta del centrodestra in Sardegna è scivolata via indenne solo nella Fiamma Magica di Fazzolari – il braccio destro (e teso) della Melona insardinata l’ha derubricata, nel suo Mattinale, a “fatto locale”.
In realtà, l’inattesa vittoria di Alessandra Todde, profetizzata in solitudine solo da questo disgraziato sito in data 18 febbraio, ha lasciato ferite profonde nella maggioranza di governo, che si dimostra sempre più un pollaio di galletti in lotta tra loro.
Nel commentare la batosta sarda, Giorgia Meloni ha ammesso la sconfitta, mostrando un apparente rinsavimento nel post su X: “Le sconfitte sono sempre un dispiacere, ma anche un’opportunità per riflettere e migliorarsi. Impareremo anche da questo”.
Poi però, alla cena con la Stampa estera, tra un balletto che a molti ha ricordato la scomparsa premier finlandese Sanna Marin e una battuta romanesca, ha lasciato debordare quella sua arroganza al limite del patologico, mandando un chiaro “pizzino”: “Non bisogna mai sottovalutare la potenziale cattiveria di un buono, costretto a essere cattivo. La cosa che mi fa arrabbiare di più? La slealtà”. Il “pizzino” aveva come destinatario Matteo Salvini, il suo nemico più intimo.
La Sorella d’Italia, dopo aver ingoiato la sconfitta del suo Paolo Truzzu, maturata ai danni del decapitato Solinas, governatore uscente sostenuto dalla Lega, non pensa ad altro che alla vendetta, tremenda vendetta verso chi l’ha ruzzolare dall’altare alla polvere.
Alla fine, il suo piano per ristabilire l’ordine e restaurare il suo monumento ammaccato è questo: come indebolire, giorno dopo giorno, l’odiato Salvini fino a buttarlo fuori dalla leadership del Carroccio.
La strada da percorrere, secondo la Ducetta, è questa: una graduale erosione di consenso e credibilità all’interno della Lega, tramite un patto di ferro con quell’ala moderata, che da tempo non si riconosce più nella linea politica destrorsa del “Truce”.
Da Fedriga a Zaia, sono molti i “legaioli” che non comprendono, ad esempio, l’alleanza in Europa con i nazistelli di Afd, i rapporti (non solo familiari) con Denis Verdini, la tigna con cui Salvini spinge per costruire il ponte sullo Stretto di Messina (come se i voti la Lega li prendesse in Calabria e in Sicilia) e la probabile candidatura di un destrorso come il generale Vannacci alle europee.
Senza contare il già affondato progetto di trasformare la Lega Nord in un partito salviniano ad estensione nazionale. Un graduale cambio di pelle al fu Carroccio bossiano, che mette a disagio i leghisti della prima ora e delle “leghe” associate, rimasti a una concezione della politica localista.
Per nebulizzare Salvini all’interno della Lega, Melona ha bisogno di conquistare la fiducia dell’unico che può disarcionare il ministro dei Trasporti, cioè il governatore del Veneto, Luca Zaia. Un’alleanza, questa, che potrà cementarsi solo risolvendo l’ormai spinosissima questione del terzo mandato per i governatori.
Zaia, in più di un’intervista, ha mostrato la sua insofferenza per la scarsa attenzione al tema da parte della premier e di Fratelli d’Italia. Come riuscire, dunque, ad accontentare il Doge per coinvolgerlo nella “cospirazione” contro Salvini? Il progetto è quello di offrire in dote una legge di riordino degli enti locali che permetta alle Regioni di legiferare in autonomia sulla normativa elettorale.
Una concessione che, nell’idea della premier, si materializzerà soltanto dopo la detronizzazione di Salvini dalla guida della Lega. Della serie: friggere il “Capitone”, vedere cammello.
La premier ha un progetto politico chiaro: vuole proporre ai “democristiani” della Lega, tra i quali, oltre a Fedriga e Zaia, è incluso il ministro dell’Economia, Giorgetti, di portare avanti con Forza Italia un governo moderato, a guida Fratelli d’Italia, con una Lega a puntellare il Nord nel rispetto della tradizione bossiana di un partito attento alle istanze settentrionali.
Zaia per ora ha mangiato la foglia e, nel frattempo, sono stati mandati avanti a fare guerriglia contro Salvini i duri e puri del “Senatur”.
Ne è un esempio l’intervista, rilasciata oggi, dall’ex ministro della Giustizia, Roberto Castelli, a “Repubblica”, in cui viene consegnato un avviso di sfratto al fidanzato di Francesca Verdini: “La sua parabola è finita . Noi della vecchia Lega con le stesse percentuali avevamo un progetto forte, il federalismo, lui non ha nulla, ha la stessa identità politica di Meloni, è un doppione senza prospettiva».
Castelli poi ci mette il carico: “La prossima batosta sarà alle Europee, poi Salvini si chiuderà nel suo fortino. Sta venendo giù tutto, i militanti al Nord sono in subbuglio. Zaia? Aspetterà il redde rationem, a nuove elezioni politiche”.
Parallelamente alla manovra di disturbo tutta interna alla Lega, Giorgia Meloni, nel suo discorso alla stampa estera, ha affondato un altro colpo contro Salvini: nel suo sfogo quasi psicanalitico (“Avrei voluto fare la cantante ma sono stonata. Avrei voluto giocare nella nazionale di pallavolo, ma sono nana. Avrei voluto conoscere Michael Jackson ma è morto troppo presto”), la Ducetta ha usato, volutamente, la parola “nana”: è consapevole, la premier, che Salvini va in giro a sbertucciarla con l’epiteto poco affettuoso di “nana bionda”. Il chiaro riferimento allo sfottò del segretario della Lega è una scoperchiata di altarini. Della serie: caro Matteo, so che dici peste e corna di me in giro, ma me ne frego!
Il leader del Carroccio ha incassato queste affettuosità da parte della Regina della Garbatella, e prepara la sua contromossa.
Sotto sotto convinto che anche i domiciliari del cognato, Tommaso Verdini, e i nuovi guai del suocero Denis, non siano del tutto “casuali”, Salvini ha in mente di giocare le sue carte dopo il voto regionale in Abruzzo, previsto per il 10 marzo. L’ex truce del Papeete potrebbe chiedere al consiglio federale della Lega un mandato politico per chiarire con Giorgia Meloni lo stato di salute dell’alleanza con Fratelli d’Italia.
Anche perché, dopo il voto in Sardegna, con la vittoria a sorpresa del centrosinistra, si rischia una nuova batosta. Dopo l’effetto Todde, si è materializzato un traino psicologico per gli elettori: è divenuto più evidente che nessuna competizione elettorale è scontata e che ogni voto può cambiare anche lo scenario apparentemente più granitico.
In Abruzzo, fino a qualche mese fa, la rielezione di Marsilio era data per certa, con un distacco nei confronti del candidato del “campo larghissimo” (Pd+M5S+Calenda) di almeno 10-15 punti. Le ultime rilevazioni, invece, certificano un vantaggio del candidato della destra in una forchetta tra i 4 e i 5 punti percentuali.
A complicare la rielezione del fedelissimo di Giorgia Meloni (il secondo governatore di Fratelli d’Italia dopo il marchigiano Francesco Acquaroli), c’è una malcelata insofferenza dei camerati abruzzesi nei confronti dello stesso Marco Marsilio. Già quando fu eletto, nel 2019, fu vissuto come corpo estraneo al territorio perché nato a Roma, città in cui vive e ha continuato a vivere anche nei 5 anni da Presidente della Regione.
La speranza di Salvini, ambiziosa al limite della follia, è raggiungere il 10% di consensi in Abruzzo. Obiettivo complesso, forse dopato dal 27,5% raccolto alle regionali di 5 anni fa, e reso quasi irrealistico se si considera che in Sardegna il Carroccio si è fermato a un modestissimo 3,7%.
Ps. Giorgia Meloni non deve solo gestire le conseguenze della sconfitta politica in Sardegna, ma deve affrontare, e dovrà farlo ancora di più in futuro, le beghe derivanti dalla sua “intellighenzia”: il ceto riflessivo a cui si è affidata per dare un tono culturale alla sua destra (Gennaro Sangiuliano, Alessandro Giuli, Pietrangelo Buttafuoco), non sta ottemperando alla causa di Giorgia, ma si sta dimostrando una brigata di “maestri pasticcioni”.
Viste le gaffe di “Genny”, gli scivoloni di Giuli e i guai del musulmano Buttafuoco alla Biennale di Venezia (da ultimo, la questione del contestato padiglione Israeliano) la sora Giorgia si renderà conto che gestire il potere con una banda di fedelissimi e “yes-men” non porta molto lontano? Per consulenze, chiedere a Renzi e al suo “Giglio tragico”…
(da Dagoreport)
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Febbraio 28th, 2024 Riccardo Fucile
UN’INDAGINE COSTATA 3 MILIONI DI EURO, ACCUSE INFAMANTI SMENTITE DAI FATTI, ORA DOVRA’ ANCHE ESSERE RESTITUATA LA NAVE ORMAI DISTRUTTA… UN CONSIGLIO ALLE ONG: D’ORA INNANZI IL PRIMO COGLIONE CHE SI PERMETTE DI DEFINIRVI “D’ACCORDO CON I TRAFFICANTI” UNA BELLA QUERELA E RICHIESTA DI UN MILIONE DI EURO DI DANNI, NESSUNA PIETA’, DEVONO FINIRE A MENDICARE AGLI ANGOLI DELLE STRADE
Per le Ong (tutte) è una clamorosa vittoria soprattutto perché arriva nell’unico processo in cui esponenti delle organizzazioni umanitarie e le stesse ong sono state portate alla sbarra con l’infamante accusa di aver soccorso migranti dietro accordi con le organizzazioni di trafficanti.
Sette anni dopo, al processo Iuventa (dal nome della nave umanitaria sotto sequestro e ormai distrutta dal 2017) è la stessa procura (quella di Trapani) ad arrendersi all’evidenza e a chiedere il non luogo a procedere contro tutti gli imputati “perché il fatto non costituisce reato”.
Dunque, ammettono anche gli accusatori, salvare vite in mare non è reato. Un assunto da sempre sostenuto dalle Ong e a cui, dopo un processo durato ben sette anni, intercettazioni senza regole tra indagati e avvocati, indagati e giornalisti, spese per milioni di euro, una nave umanitaria fatta andare in malora, decine di soccorritori tenuti sul filo dal 2017 ad oggi, anche i pm ammettono.
Il ministero dell’Interno, costituitosi parte civile contro le Ong, ha dichiarato che si rimetterà alla decisione del tribunale. La sentenza del processo, dopo le arringhe dei legali di parte civile e della difesa, è atteso per il 2 marzo.
La Procura ha chiesto anche la restituzione alla Ong tedesca della nave umanitaria sequestrata nel 2017 e ormai distrutta. “Che in 8 anni siano stati spesi 3 milioni di euro di denaro pubblico per perseguire persone che salvavano vite umane è ancora una vergogna – il commento a caldo di Iuventa crew – La richiesta non è vincolante per il giudice, ma è un passo nella giusta direzione”.
Dice Francesca Cancellaro, una degli avvocati di Iuventa: “Siamo contenti che la procura abbia cambiato idea dopo 7 anni. Tuttavia, non è così che funziona uno stato di diritto. Le accuse dovrebbero essere formulate solo dopo un’indagine approfondita e la raccolta di tutte le prove disponibili. Iniziare un processo senza le dovute basi è ingiusto e comporta un onere indebito per gli imputati”. “Oggi il governo, che aveva di fatto chiesto un risarcimento danni ai soccorritori, ha lasciato la decisione al tribunale e ha abbandonato l’aula”, aggiunge l’avvocato Nicola Canestrini.
(da agenzie)
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Febbraio 28th, 2024 Riccardo Fucile
IL CANDIDATO DC IN SOSTEGNO A TRUZZO, DOPO GLI AUDIO SESSISTI, HA PRESO SONO 27 VOTI
Non è servita a nulla la propaganda elettorale sessista in Sardegna fatta «con sei donne, tutto molto belle, che durante gli incontri mi sostengono e mi danno grande sollievo».
Pietro Pinna, 56 anni, ex militare in pensione, candidato gallurese alla carica di consigliere regionale tra le fila della Dc di Rotondi, ha infatti ottenuto soltanto 27 voti nella circoscrizione Olbia-Tempio.
Come conferma La nuova Sardegna, Pinna ha racimolato appena 21 voti a Olbia e il resto in un paio di altri Comuni. Pochi giorni fa, Gallura Oggi aveva pubblicato i suoi messaggi audio – girati ad amici e sostenitori galluresi – nei quali Pinna confidava loro di essere sempre accompagnato da ragazze vestite con minigonna, scollature e leopardate nei suoi vari incontri elettorali.
Ma non solo: il candidato della Dc aveva fatto inoltre sapere che «la gente trova l’attrazione durante i miei discorsi, seguono fino all’ultima virgola – si sentiva negli audio -. Ho fatto un incontro dove penso che qualcuno è tornato a casa e ha messo incinta la moglie». Messaggi che hanno scatenato forti reazioni tra gli elettori e che lo stesso ex militare aveva bollato come «una goliardata». La polemica, alimentata sui social, era finita anche all’attenzione del candidato alla presidenza del centrodestra, Paolo Truzzo, (sconfitto dalla pentastellata Alessandra Todde), che da subito ne ha preso le distanze.
(da agenzie)
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Febbraio 28th, 2024 Riccardo Fucile
“GLI ATTI DI INDAGINE DOCUMENTANO UNA VITA SOCIALE E DI RELAZIONE IMPEGNATIVA COMPORTANTE USCITE NOTTURNE, INCONTRI CON IMPRENDITORI, POLITICI E PUBBLICI FUNZIONARI CHE SEMBRANO SMENTIRE UNA CONDIZIONE DI SALUTE CRITICA”
Denis Verdini entra in carcere. Di nuovo. E stavolta ci ritorna perché ha violato le prescrizioni dei domiciliari: stava scontando la pena definitiva a sei anni e mezzo per il crac dell ’ex Credito Cooperativo Fiorentino (Ccf). E dai domiciliari – secondo i giudici – continuava a fare il “Mr. Wolf ”della politica italiana, colui che tutto risolve, stavolta però nelle retrovie, tra i tavoli del ristorante “Pastation” del figlio Tommaso.
Perché a Roma, dove era stato autorizzato ad andare per le visite odontoiatriche, non ha resistito: partecipava a cene, parlava al telefono con soggetti estranei al suo nucleo familiare, incontrava dirigenti, politici e imprenditori. E così ieri il Tribunale di sorveglianza di Firenze ha deciso che deve tornare in carcere.
Mentre indagava sul figlio per altre vicende, la Guardia di Finanza aveva notato e ascoltato la presenza del buon padre di famiglia. Denis era stato autorizzato a seguire le cure dal suo dentista di fiducia nella capitale e dunque poteva dormire a casa del figlio. Una volta a Roma però gli investigatori lo hanno visto il 26 ottobre 2021 alle 20.30 al “Pa station” con il figlio, l’ex Ad di Anas Massimo Simonini, l’imprenditore ed ex politico Udc Vito Bonsignore e Fabio Pileri, socio di Tommaso nella Inver.
Si intratteneva in una saletta riservata dove viene rivisto il 30 novembre 2021: stavolta alla presenza del figlio, di Simonini e di Pileri, ma anche del sottosegretario leghista al Mef Federico Freni. E di nuovo l’11 gennaio 2022 Denis viene visto entrare a casa del figlio con Pileri e Simonini. Questi tre incontri sono costati all’ex senatore l’accusa di evasione.
A dicembre poi scattano i domiciliari per il figlio Tommaso per altre vicende: è indagato in un’inchiesta sui presunti appalti Anas pilotati. Anche Denis è iscritto per corruzione, ma non è raggiunto da misure. Per gli investigatori il 26 febbraio 2022 Verdini “viene costantemente informato telefonicamente delle attività della Inver”, il “30 marzo 2022 incontra Pileri”, con il quale conversa il 12 aprile, il 3 giugno e il 12 luglio 2022 (circostanze queste non contestate).
In udienza a Firenze, Denis ha detto che pensava “fosse lecito parlare con ‘soci’ e ‘conoscenti’ del figlio al quale aveva dato consigli per aiutarlo nella sua attività imprenditoriale, come un qualunque padre avrebbe fatto”. I suoi legali poi hanno spiegato che l’ex senatore oggi è ultrasettantenne e ha problemi di salute, come una “cardiopatia ischemica cronica”.
Per i giudici di sorveglianza “gli atti di indagine documentano una vita sociale e di relazione impegnativa comportante uscite notturne, incontri con imprenditori, politici e pubblici funzionari che sembrano smentire una condizione di salute critica quale quella descritta dal consulente”. Non solo. I giudici parlano di un “fondato dubbio (…) che le autorizzazioni richieste al Magistrato per svolgere le lunghe e ripetute cure dentarie a Roma fossero in realtà uno strumento per poter più facilmente eludere il vincolo delle prescrizioni”. E così Denis ieri è tornato in carcere, stavolta a Sollicciano.
(da Fatto quotidiano)
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Febbraio 28th, 2024 Riccardo Fucile
LA FUNZIONARIA NON HA AVUTO RUOLI OPERATIVI NEI FATTI DI VENERDÌ SCORSO MA HA DISPOSTO L’INVIO DELLE SQUADRE DI AGENTI… AL VAGLIO LE IMMAGINI DELLE BODYCAM DEI POLIZIOTTI. SI INDAGA SULLA CATENA DI COMANDO E SULL’ESECUZIONE DEGLI ORDINI
Cambio al vertice del Reparto mobile della polizia a Firenze, che fornisce le squadre anche alla Questura di Pisa per l’ordine pubblico. Un avvicendamento collegato a quanto accaduto venerdì scorso con le cariche vicino a piazza dei Cavalieri, con tredici studenti feriti – dieci dei quali minorenni – per le manganellate dei poliziotti che impedivano l’accesso durante un corteo pro Palestina non preavvisato. Alla dirigente del reparto, Silvia Conti, in servizio a Firenze dal 2021, è stato affidato un altro incarico.
La funzionaria non ha avuto ruoli operativi nella gestione dell’ordine pubblico né per quanto riguarda Pisa, né a Firenze – dove sono scoppiati altri scontri con la polizia durante il corteo non autorizzato (era stato preavvisato solo un presidio statico) anche questo pro Gaza di studenti e centri sociali fino al consolato americano, preso di mira il 2 febbraio scorso dal lancio di bottiglie molotov -, ma ha disposto solo l’invio delle squadre di agenti richieste dalle due Questure.
L’ipotesi: eccessi degli agenti nell’esecuzione degli ordini
Una catena di errori, da quelli nella pianificazione delle vigilanze nel centro di Pisa, a quelli commessi sul campo dalla squadra del Reparto mobile che venerdì scorso ha manganellato gli studenti minorenni. Sono i punti dell’indagine sui poliziotti sui quali si concentra l’attenzione della Procura.
Al vaglio le immagini e gli audio delle bodycam indossate da due capisquadra, che potrebbero aiutare a ricostruire cosa sia accaduto. A cominciare da come sia stato impartito l’ordine di contrastare gli studenti nel vicolo e se ci siano stati eccessi nell’eseguirlo da parte di 3-4 poliziotti che hanno continuato a inseguire i ragazzi nonostante si fossero già ritirati.
Sentiti alcuni testimoni che hanno girato i video
Nelle prossime ore saranno sentiti i responsabili dell’ordine pubblico, a Pisa e a Firenze, insieme con i ragazzi feriti e anche alcuni testimoni. Fra loro c’è chi ha girato alcuni dei video diventati virali sul web che riprendono gli scontri
(da Il Corriere della Sera)
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Febbraio 28th, 2024 Riccardo Fucile
SENZA IL TERZO MANDATO, ZAIA È PRONTO A RICOSTITUIRE LA LIGA VENETA… IL NODO CANDIDATURE IN ABRUZZO E BASILICATA: DOPO LA DISFATTA DEL “TRUX” TRUZZU, È LIBERI TUTTI
Il patto di non aggressione è durato pochissimo. Lunedì Giorgia Meloni aveva chiesto unità ai suoi alleati. Matteo Salvini ha taciuto, ma poi ieri è tornato alla carica, prima direttamente e poi, con più veemenza, attraverso i suoi dirigenti più fidati.
C’è una paura che si fa sempre più concreta: l’effetto domino nelle altre Regioni al voto. In Abruzzo (al voto il 10 marzo) in realtà i sondaggi regalano qualche margine di sicurezza, ma il rischio di venire travolti da una spirale di sospetti reciproci è grande.
I timori più grandi si concentrano sulla Basilicata, che va alle urne il 21 aprile, sulla quale si è scatenata da mesi una battaglia tra gli alleati.
Il vicesegretario della Lega, Andrea Crippa lo spiega con una certa franchezza: «Cinque anni fa Salvini era fortissimo e si vinceva con qualunque candidato, oggi non è più così. La differenza? Matteo fa le campagne elettorali davvero, Meloni no».
Per dare un segnale di unità, FdI ha cercato di chiudere più velocemente possibile le partite ancora aperte, in particolare la Basilicata. I colonnelli di Meloni non sono così convinti che ricandidare l’attuale governatore forzista Vito Bardi sia la scelta più adeguata, ma l’urgenza di apparire uniti prevale.
Al tavolo convocato a mezzogiorno nell’ufficio del meloniano Giovanni Donzelli a Montecitorio i leghisti, guidati da Roberto Calderoli, chiedono la Basilicata, con un proprio nome, oppure con un civico.
L’atmosfera non è così serena, tanto che nel mirino finisce anche il forzista Giorgio Mulè che in un’intervista a Repubblica aveva criticato Meloni. Un piano più sotto, c’è Crippa che alza un muro: «Con la decisione di non candidare Christian Solinas in Sardegna è saltata la regola di puntare sui presidenti uscenti e quindi ora trovare una soluzione per la Basilicata sarà complicato».
Nella serata poi Salvini inizia ad abbassare le pretese, il negoziato va avanti per tutta la notte, c’è una nota pronta che prevede le candidature di Bardi, Donatella Tesei (Umbria, Lega) e Alberto Cirio (Piemonte, Forza Italia). La nota in realtà non arriva mai, «è ferma per delle limature» dicono da via Bellerio, in attesa di un via libera di Meloni.
Forza Italia dà per prossima la firma del patto, sul quale mancherebbe solo un via libera dei leader. Ma da Fratelli d’Italia c’è molta più cautela, «niente è chiuso»,. Il problema, infatti, è che la Lega vuole approfittare di questo eventuale accordo, non solo per confermare la sua governatrice in Umbria, ma per arrivare all’obiettivo massimo, lasciare Luca Zaia alla presidenza del Veneto.
Per Fratelli d’Italia, ovviamente, le cose non sono collegate, non può certo bastare un via libera al generale Bardi, per ottenere la riforma del terzo mandato dei governatori, che pregiudicherebbe molte delle aspettative.
Eppure la Lega rilancia: «Meloni non faccia in Veneto l’errore che ha fatto in Sardegna», dice Crippa alla Camera, confermando che l’emendamento sull’abolizione del tetto per i presidenti di Regione, bocciato in commissione, verrà riproposto in Aula, con lo stesso Salvini che, da senatore, potrebbe votare contro l’indicazione della premier.
In Veneto la pressione sul segretario federale resta fortissima. C’è chi lo dice esplicitamente, come l’assessore vicino a Zaia, Roberto Marcato e chi lo sussurra, ma la leadership di Salvini è di nuovo sotto attacco.
Al tavolo delle amministrative, che resta ormai aperto in forma permanente, si è discusso soprattutto di città, l’accordo è praticamente fatto per Lecce (con il ritorno in scena di Adriana Poli Bortone) e Prato. In dirittura d’arrivo ci sarebbe anche Firenze, dove il nome più forte resta quello di Eike Schmidt, ex direttore degli Uffizi.
Il Carroccio continua a pretendere il candidato sindaco di Cagliari (al voto a giugno), ma per delicatezza si evita di forzare l’addio dell’attuale primo cittadino Paolo Truzzu che potrebbe guidare l’opposizione in consiglio regionale.
(da La Stampa)
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Febbraio 28th, 2024 Riccardo Fucile
IL DUPLEX ABODI-MELONI NON HA MAI VISTO DI BUON OCCHIO LA RASSEGNA PERCHÉ STEFANO MEI, PRESIDENTE FIDAL, È UN SALVINIANO…IL PRESSING DEL CAPITONE SU GIORGETTI, I RITARDI DI ABODI E LA LETTERA IN CUI DEMANDAVA LA COPERTURA ECONOMICA AL PARLAMENTO
Sembra che il duplex Abodi-Meloni non abbia mai visto di buon occhio i Mondiali di atletica 2027 a Roma perché Stefano Mei, presidente Fidal, è considerato un salviniano di titanio. Pare che gli ultimi voti utili alla sua elezione a presidente della Federazione atletica leggera gliel’abbia trovati Salvini in quel di Orbetello…
E sarebbe stato proprio il Capitone a pressare Giorgetti per la copertura economica della candidatura di Roma (circa 80 mln euro). Alla fine sembra che Abodi si sia tenuto le carte in mano e sia arrivato fuori tempo massimo nella richiesta della copertura al ministero dell’Economia.
Fatto sta che la lettera del ministro dello Sport di sostegno alla candidatura dei Mondiali di Atletica a Roma, in realtà, è stata il colpo di grazia più che un aiuto.
Tanto che la Fidal si è ritirata e Sebastian Coe, il presidente della federazione internazionale di atletica leggera, ha sentenziato che l’appoggio del governo italiano alla candidatura non offriva “le condizioni minime” per poter essere presa in esame.
Abodi nella lettera demandava la copertura economica al Parlamento
(da Dagoreport)
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Febbraio 28th, 2024 Riccardo Fucile
POI STRAPARLA DI “INTERFERENZE ITALIANE SUL CASO”… IL PADRE DI ILARIA: “MIA FIGLIA E’ STATA TORTURATA”… UN MINISTRO INDEGNO DI CALCARE IL SUOLO DI UN PAESE CIVILE, DATEGLI IL FOGLIO DI VIA INVECE CHE RICEVERLO CON TUTTI GLI ONORI: TORNA DAI TUOI AMICI NEONAZISTI
“È sorprendente che dall’Italia si cerchi di interferire in un caso giudiziario ungherese. Spero che Ilaria Salis riceva la meritata punizione in Ungheria”. Il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjartó, secondo quanto riportato su X da Zoltan Kovacs, portavoce del governo ungherese, interviene per la prima volta in maniera netta sul caso dell’antifascista militante di Monza che da più di un anno è detenuta nel carcere di massima sicurezza di Budapest.
Dichiarazioni allucinanti che piombano proprio mentre, per Ilaria Salis, si erano aperti spiragli per una trasformazione della misura cautelare dal carcere ai domiciliari a Budapest nella prossima udienza del 28 marzo. E per un successivo trasferimento in Italia, sempre ai domiciliari, grazie a una convenzione quadro della Ue del 2009 che sancisce il reciproco riconoscimento delle misure cautelari tra i Paesi membri dell’Unione europea.
E invece, durante una visita a Roma con un incontro fissato anche con il suo omologo italiano Antonio Tajani, il ministro ungherese ha fatto sapere che la “signora Salis è stata presentata come una martire in Italia, una cosa che nulla ha a che fare con la realtà” perché “è venuta in Ungheria con un chiaro piano di attaccare persone innocenti nelle strade”. Non si tratta, secondo il ministro, “di crimini commessi per capriccio ma di atti ben pensati e pianificati. Hanno quasi ucciso delle persone in Ungheria, e ora lei viene raffigurata come una martire”.
L’accusa per Salis, formulata dalla procura di Budapest, è di lesioni aggravate nei confronti di tre neonazisti. Lesioni che secondo la procura ungherese sarebbero state potenzialmente mortali, eppure guaribili con una prognosi tra 5 e 8 giorni.
“Spero sinceramente che questa signora riceva la meritata punizione in Ungheria”, ha concluso il ministro
L’antifascista italiana rischia una condanna fino a 24 anni. La procura aveva proposto per lei una pena di 11 anni in cambio di un’ammissione di colpevolezza. Una sorta di patteggiamento che Salis ha sempre rifiutato.
Dal canto suo il ministro Tajani fa sapere in serata di aver ribadito “l’attenzione con cui il governo segue il caso” e “ha consegnato al ministro ungherese un nuovo, dettagliato promemoria sulle condizioni detentive della connazionale, evidenziando la necessità di un giusto processo e dell’assicurare la dignità e i diritti fondamentali detenuta”.
“Nessuna volontà di interferenza – spiega il ministro – ma la chiara intenzione di far pressione per verificare che le condizioni di detenzione rispettino le normative europee che richiamano alla tutela dei diritti umani”. “Ed è quanto il governo italiano – aggiunge Tajani – continuerà a fare in questo come in altri casi simili”.
La rabbia del padre di Ilaria Salis
Su tutte le furie Roberto Salis, il padre di Ilaria, stasera alla fiaccolata a Milano per la figlia: “Dobbiamo chiedere al ministro ungherese cosa intende per ‘martire’, se intende una persona torturata per 35 giorni certo Ilaria è una martire. L’ambasciatore mi aveva assicurato che l’incontro era stato positivo – ha ironizzato Salis – pensa se mi avesse detto che era andato male…Sono molto perplesso dall’esito dell’incontro tra i due ministri degli Esteri di oggi. Il ministro Tajani ha i miei riferimenti se mi vuole comunicare qualcosa”.
“Ce li siamo presi noi in Europa, ce li abbiamo e dobbiamo conviverci”, ha aggiunto Salis.
Le reazioni dall’Italia
Prima che il ministro degli Esteri italiano parlasse le opposizioni si sono scatenate. Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra italiana, commenta: “Mi auguro che Tajani faccia sapere agli amici ungheresi di Meloni e Salvini che chiedere il rispetto dei diritti civili umani non vuol dire interferenza. Se poi il governo Orbán è allergico alle regole del vivere civile, può sempre uscire dalla Ue in cui indegnamente siede”.
Dal Pd, Lia Quartapelle attacca: “Concordava con l’espulsione del partito di Orbán dal Ppe e ora si fa rimbrottare da un suo ministro. Da Tajani una profonda involuzione”.
Mentre il senatore Alfredo Bazoli, vicepresidente del gruppo Pd, dice alla maggioranza: “Gli amici italiano di Orbán spieghi a Szijjarto che per la nostra cultura garantista è inaccettabile sentire un ministro che si permette di auspicare la condanna di una persona in attesa di giudizio, interferendo pesantemente con l’autonomia della magistratura del suo paese”. A proposito di ingerenze.
(da La Repubblica)
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Febbraio 28th, 2024 Riccardo Fucile
L’ANALISI DELL’ISTITUTO CATTANEO DEI RISULTATI DELLE ELEZIONI IN SARDEGNA
A Cagliari “più di un terzo degli elettori leghisti hanno votato per Alessandra Todde”. Questa la stima contenuta nell’analisi dell’istituto Cattaneo sui risultati delle ultime regionali in Sardegna.
Lo studio definisce, invece, “marginale” a Sassari “la quota di elettori leghisti che hanno defezionato”. Se a Cagliari si stima che sul 3,6% dei voti incassati dalla lista della Lega, l’1,5% sia andato a sostenere Todde presidente (e il 2,1% Paolo Truzzu), a Sassari la percentuale per Todde – sul 2,6% alla lista – scende allo 0,3%.
L’istituto premette che i dati raccolti “non consentono di rispondere in maniera definitiva al quesito riguardo al peso dei ‘tradimenti’ di cui, secondo una congettura diffusa, sono indiziati gli elettori della Lega”. Quindi rimarca che “risulterebbe improprio addebitare” la responsabilità della sconfitta di Truzzu “ai soli voti leghisti ‘dissenzienti.
L’analisi rivela che sia a Sassari sia a Cagliari ci sono stati apporti alla candidata del centrosinistra di dimensioni nel complesso pari o superiori provenienti anche dagli elettorati di altri partiti del centrodestra”.
Todde, infatti, emerge come “l’unica candidata che intercetta trasversalmente voti provenienti da elettori delle liste di altre coalizioni. Ottiene voti sia da elettori del ‘terzo polo’ guidato da Renato Soru sia dagli elettori di partiti di centrodestra”.
La conclusione è che il risultato sardo, nella sua conclusione inattesa, “è principalmente dovuto alle caratteristiche intraviste dagli elettori nei due principali candidati, e soprattutto dalla capacità attrattiva personale della neo-presidente, potenziata dalla forte intesa e dal convinto sostegno del Pd sardo”.
(da agenzie)
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