Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE EMERITO DELLA CONSULTA DOVEVA PRESENTARE IL LIBRO: “STORIE DI DIRITTI E DI DEMOCRAZIA”… NON CI SEMBRA IL PROFILO DI UN EVERSORE: LA CENSURA E’ ARRIVATA ANCHE IN CARCERE?
Il Dap blocca Giuliano Amato e cancella la presentazione del suo libro nel carcere di San Vittore, a Milano. L’ex presidente del consiglio e presidente emerito della corte costituzionale doveva presentare presso la Casa circondariale, alle 11 di domani mattina in piazza Gaetano Filangieri 2, il suo libro sulla Costituzione, “Storie di diritti e di democrazia. La corte costituzionale nella società” scritto a quattro mani con Donatella Stasio.
Un evento improvvisamente cancellato dal Dipartimento amministrazione penitenziario (il Dap). Ancora oscure la motivazioni ufficiali che hanno spinto gli uffici del ministero della Giustizia a negare l’ingresso in carcere per un’iniziativa culturale.
La notizia è stata confermata a Repubblica da più fonti.
Il Comunicato del Garante dei diritti dei detenuti
“Stamattina alle 11.30 abbiamo appreso con meraviglia e imbarazzo che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non ha autorizzato la presentazione del libro organizzata dal Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Milano e dalla Direzione dell’istituto. – si legge in un comunicato del Garante dei diritti dei detenuti Francesco Maisto – Non conosciamo le motivazioni ufficiali di questa inopinata decisione giunta a 24 ore dall’evento, né possiamo ritenere – in mancanza di chiarimenti pur richiesti ripetutamente – che dipenda da fattori organizzativi (come i tempi della richiesta di autorizzazione o la natura del libro visto che parla di Costituzione), tanto più che il libro rappresenta la continuazione ideale del “Viaggio della Corte nelle carceri” a seguito del quale è nato a San Vittore il progetto formativo per i detenuti denominato “Costituzione Viva”, con il quale gli autori del libro hanno mantenuto un legame e con il quale avrebbero dialogato anche in questa occasione”.
“Restiamo sconcertati per il rifiuto del Dap di revocare il diniego – si legge ancora nel comunicato – anche per rispetto del Presidente emerito della Corte costituzionale, dei capi degli uffici giudiziari milanesi, delle autorità, dei cittadini, dei media, in procinto di partecipare e, soprattutto, dei detenuti e degli autori del libro che hanno lavorato alla preparazione dell’incontro e che anche logisticamente si erano organizzati. Ci scusiamo con il pubblico e continueremo a chiedere conto al Dap di questa improvvida decisione”.
(da La Repubblica)
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
GLI UFFICI DEL MINISTERO HANNO PREDISPOSTO UN DOCUMENTO DA SOTTOPORRE AI MAGISTRATI UNGHERESI MA SPETTA ORA AL MINISTRO DECIDERE SE CONSEGNARLO AGLI AVVOCATI, CON IL TIMBRO DEL SUO DICASTERO, PERCHÉ POSSANO ALLEGARLO ALLA NUOVA ISTANZA
Quella di oggi non sarà una giornata decisiva per capire se Ilaria Salis potrà tornare in Italia in tempi relativamente brevi, ma potrebbe esserlo per comprendere l’atteggiamento del governo italiano. Se cioè il ministero della Giustizia ha intenzione di assecondare la richiesta dei suoi avvocati di ottenere gli arresti domiciliari nella sua casa di Monza (dopo quasi un anno di carcerazione preventiva scontato nel carcere di Budapest, e per lungo tempo in condizioni a dir poco critiche) o se invece preferirà sfilarsi dalla loro strategia, rimanendo fuori dalla disputa giudiziaria.
La decisione che il Guardasigilli Carlo Nordio dovrà prendere e spiegare nell’incontro di oggi al padre di Ilaria, Roberto Salis, e ai suoi difensori, riguarda questioni di diritto interno ed europeo, molto tecniche e anche molto complesse; ma avrà un significato implicitamente e inevitabilmente politico.
Tutto ruota intorno all’ormai nota possibilità di sottoporre ai giudici magiari un quadro preciso e dettagliato delle misure di sicurezza e di disponibilità all’assistenza giudiziaria per proseguire il processo in Ungheria con la partecipazione dell’imputata (in presenza o in videoconferenza) anche nel caso in cui le venissero concessi gli arresti domiciliari nel proprio Paese. Una sorta di rassicurazione dal pericolo di fuga, che finora ha impedito l’accoglimento delle istanze già presentate dai legali della donna.
Gli uffici della Giustizia hanno predisposto questo documento ma spetta ora al ministro decidere se consegnarlo agli avvocati, con il timbro del suo dicastero, perché possano allegarlo alla nuova istanza. Farlo significherebbe fare un passo ulteriore rispetto all’assistenza offerta o proclamata finora; non farlo, vorrebbe dire che un conto sono le mosse dei difensori della cittadina italiana imputata, e un altro la posizione del suo governo.
Le ragioni che potrebbero spingere Nordio a non schierarsi (di fatto) al fianco della difesa potrebbero essere in primo luogo di opportunità, soprattutto politica: non dare nemmeno l’impressione di voler interferire sulla magistratura di un altro Paese europeo; e c’è chi paventa il timore di creare un precedente poco gestibile in futuro in Italia. Ma vi sarebbero pure considerazioni di tipo giuridico.
Sul fatto che la decisione quadro del Consiglio d’Europa, sottoscritta del 2009, comprenda anche gli arresti domiciliari tra le misure che un cittadino straniero può scontare nel proprio Paese, c’è divergenza di opinioni tra gli stessi magistrati. La giurisprudenza prevalente sostiene di sì, ma da ultimo, con una sentenza a gennaio, una sezione della Corte di cassazione ha invece sposato la tesi contraria: essendo gli arresti domiciliari una misura comunque detentiva, è equiparata alla reclusione in carcere e dunque non può essere ricompresa tra le misure alternative (come l’obbligo di dimora o il divieto di allontanamento).
Questione che appassiona i giuristi, dalle quali passa però la possibilità per Ilaria Salis di poter giocare o meno una nuova carta davanti ai giudici di Budapest. Anche se il ministro aderisse alla richiesta degli avvocati difensori, infatti, la decisione se accogliere o meno la nuova richiesta spetterebbe comunque a loro. E non arriverà prima di un altro mese, secondo le previsioni del legale ungherese Gyorgy Magyar.
Tutte le altre ipotesi di cui s’è parlato in questi giorni — dalla domanda dei domiciliari da scontare in Ungheria per poi tentare la via del trasferimento in Italia all’improbabile idea degli arresti in ambasciata, fino all’accelerazione del processo sperando in una rapida espulsione dopo la sentenza — richiedono tempi più lunghi. E sono tutte dall’esito ugualmente incerto. Nel frattempo Ilaria Salis resta nel carcere di Budapest, e suo padre Roberto non può che confidare negli incontri che avrà oggi in via Arenula con il ministro Nordio
(da Il Corriere della Sera)
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
“IL SUO COINVOLGIMENTO NELLA MISSIONE NEL MAR ROSSO SARÀ CONSIDERATO UN’ESCALATION E UNA MILITARIZZAZIONE. IL NOSTRO CONSIGLIO ALL’ITALIA È ESERCITARE PRESSIONE SU ISRAELE E RIMANERE NEUTRALE, CHE È IL MINIMO CHE PUÒ FARE. NON C’È GIUSTIFICAZIONE PER QUALSIASI AVVENTURA AL DI FUORI DEI SUOI CONFINI”
Mohamed Ali al-Houti, classe 1979, è un politico yemenita. È attualmente uno dei leader di spicco del movimento Ansar Allah, i partigiani di Dio meglio conosciuti come Houti, nonché cugino dell’attuale leader Abdul-Malik Al-Houti. È stato capo del Comitato rivoluzionario supremo tra il 2015 e il 2016 quando gli Houti hanno preso il potere. È attualmente membro del Comitato politico supremo della parte di Paese controllata dal movimento di ispirazione sciita.
In un’intervista con Repubblica si è rivolto al nostro Paese che sta per prendere parte alla missione Ue nel Mar Rosso: «L’Italia sarà un bersaglio se parteciperà all’aggressione contro lo Yemen ».
La notte tra sabato e domenica ci sono stati raid massicci. Che danni vi hanno causato fino ad ora queste operazioni? Risponderete?
«Sono aggressioni illegali e di un terrorismo deliberato e ingiustificato. Questi bombardamenti non influenzeranno le nostre capacità. Anzi ci rafforzano. Gli americani e i britannici devono capire che in questa fase siamo pronti a rispondere, e il nostro popolo non conosce la resa. Le nostre acque e i nostri mari non sono un parco giochi dell’America».
Il blocco nel Mar Rosso minaccia la libertà di navigazione, ha un impatto duro sull’economia globale e in ultima istanza provoca inflazione colpendo indirettamente i civili delle fasce più deboli. È necessario?
«In primo luogo, non c’è alcun blocco nel Mar Rosso. Prendiamo di mira solo le navi associate a Israele. Qualsiasi nave non legata a Israele non subirà danni. Non abbiamo intenzione di chiudere lo stretto di Bab el Mandeb o il Mar Rosso».
«È essenziale che gli americani comprendano che chi attacca affronterà una ritorsione, come espresso nel proverbio arabo: “Chi bussa alla porta troverà risposta”».
Un’ulteriore escalation potrebbe portare a un intervento di terra in Yemen. Non temete questo scenario?
«La guerra terrestre è ciò che desidera il popolo yemenita, poiché si troverà finalmente di fronte a coloro che sono responsabili delle sue sofferenze da oltre nove anni. Se gli Stati Uniti inviano truppe nello Yemen, dovranno affrontare sfide più difficili di quelle in Afghanistan e Vietnam. Il nostro popolo è resiliente, pronto e ha varie opzioni per sconfiggere strategicamente gli americani nella regione».
Qual è la sua posizione sulla decisione dell’amministrazione Biden di classificarvi come “terroristi”?
«Essere classificati come terroristi per sostenere Gaza è un onore».
Che rapporti avete con Iran e Cina?
«Abbiamo il controllo delle nostre decisioni, e gli americani e gli israeliani ne sono consapevoli».
L’Unione Europea ha annunciato una nuova missione militare difensiva nel Mar Rosso….
«Consigliamo agli europei di aumentare la pressione sui responsabili degli orrori a Gaza. Le nostre operazioni mirano a fermare l’aggressione e a sollevare l’assedio. Qualsiasi altra giustificazione per l’escalation da parte degli europei è inaccettabile».
L’Italia ne prenderà parte. I beni italiani saranno dunque bersagli senza eccezione?
«L’Italia diventerà un bersaglio se parteciperà all’aggressione contro lo Yemen. Il suo coinvolgimento sarà considerato un’escalation e una militarizzazione del mare, e non sarà efficace. Il passaggio delle navi italiane e di altri durante le operazioni yemenite a sostegno di Gaza è una prova che l’obiettivo è noto».
Qual è il vostro messaggio per il nostro Paese?
«Il nostro consiglio all’Italia è di esercitare pressione su Israele per fermare i massacri quotidiani a Gaza. Questo è ciò che porterà alla pace. Consigliamo all’Italia di rimanere neutrale, che è il minimo che può fare. Non c’è giustificazione per qualsiasi avventura al di fuori dei suoi confini».
(da agenzie)
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
DA OLTRE UN MILIONE, LE FAMIGLIE COL SUSSIDIO SONO DIVENTATE 288 MILA. E SOLO 29 MILA OVER 80 RICEVONO UN AIUTO, IL 2% DEL TOTALE… ABOLITI GLI SGRAVI SULLE BARRIERE ARCHITETTONICHE E PER LE ASSUNZIONI DI GIOVANI E DONNE
La premier Meloni non perde occasione per dire che al suo governo importa la sorte di chi non ce la fa. Dal povero “vero” all’anziano, «collante della famiglia, ammortizzatore in tempo di crisi». Alla Camera pochi giorni fa ripeteva che «ci sta molto a cuore». E che «la cultura dello scarto rischia di prevalere», citando Papa Francesco. Eppure, conti alla mano, il suo esecutivo quando non taglia e fa cassa sul sociale, lo sacrifica con interventi che anche la Caritas ha definito «spot», come quello sull’abolito Reddito di cittadinanza. Una destra sociale nelle parole. Asociale nei fatti. Eccoli.
Povertà come colpa
«Se non sei disponibile a lavorare, non puoi pretendere di essere mantenuto con i soldi di chi lavora ogni giorno». Secondo Meloni è quanto successo con il Reddito di cittadinanza, tolto via sms la scorsa estate a 400 mila famiglie. Nella visione del suo governo se di questi solo 27 mila sono rientrati nel rimborso spese da 350 euro chiamato Supporto per la formazione e il lavoro, è solo perché gli altri o non hanno voglia di formarsi oppure lavoravano in nero. E dunque via. Non recuperabili.
La decisione di dividere a tavolino le platee tra “occupabili” e non è del tutto arbitraria. Lo hanno detto e scritto Bankitalia, Caritas, frotte di economisti, financo l’Ocse. Da una parte chi ha tra 18 e 59 anni senza figli minori, disabili, over 60. Di là gli altri a chiedere l’Assegno di inclusione, simile al Reddito ma con più paletti. Risultato: da oltre un milione le famiglie col sussidio sono diventate 288 mila, ultimo e unico dato Inps disponibile. Le previsioni di dimezzamento della platea si fanno concrete. Così i risparmi di cassa, verso i 4 miliardi.
Mentre però con la mano destra si tagliava il Reddito e si calava l’Isee a 6.000 e una serie di altre barriere all’ingresso, con la mano sinistra si istituiva un’altra carta, quella alimentare “Dedicata a te” per 1,3 milioni di persone, una tantum da 382,5 euro all’anno. Vincolo Isee: 15 mila euro. Destinatari scelti a monte solo tra chi ha figli e in base a bizzarri criteri territoriali. Si cancella l’aiuto ai poverissimi. Si dà una piccolissima somma a chi poverissimo non è. Costo: mezzo miliardo.
Disabili e anziani
La destra che pensa a non scartare nessuno ha tolto 80 milioni ai disabili: 30 milioni dai fondi non ripristinati del 2023 e altri 50 milioni dal fondo per l’inclusione. Non contenta, ha poi fatto saltare anche il bonus barriere architettoniche al 75%, limitandolo a «scale, rampe, ascensori, servo-scale, piattaforme elevatrici» e negandolo a infissi, bagni, porte automatiche, tapparelle automatizzate.
Gli anziani, a cui «garantire una vita serena, attiva e dignitosa» diventano oggetto di esaltazione per il governo. Dice Meloni: «Stanziato oltre un miliardo, aumentiamo del 200% l’indennità di accompagnamento». Il miliardo fa parte però di fondi esistenti, dal governo Prodi del 2006 per lo più, per 200 milioni dai fondi di coesione europei. Ma poi l’aumento di 850 euro al mese, da spendere solo in servizi come la badante, spetterà a una cerchia ristretta di anziani non autosufficienti gravissimi, over 80 e con Isee sotto i 6.000 euro: in pratica 29 mila nel 2025 e 19.600 nel 2026. Il 2% del totale e un quinto dei gravissimi.
Donne, famiglia e casa
Le donne sono aiutate solo se madri. E non sempre. La decontribuzione da 3 mila euro lordi all’anno vale tre anni solo per le madri di tre figli, purché siano lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato. Fuori le autonome, le precarie e le collaboratrici domestiche. Sconto solo per un anno a chi ha due figli. In ogni caso non compatibile con il taglio del cuneo: o l’uno o l’altro. Con un solo figlio: zero.
Stessa storia per gli asili nido. Dovevano essere «gratis per tutti», diceva Meloni. Invece aumenta il contributo pubblico solo se in famiglia ci sono almeno due figli, uno nato quest’anno e l’altro sotto i 10 anni. L’Iva sui pannolini e il latte raddoppia dal 5 al 10%, come quella sui tamponi delle madri. L’Iva sui seggiolini torna al 22% dal 5.
Pensioni massacrate
È il capitolo preferito dal governo per fare cassa. Anche sui più fragili. Al fondo per i precoci, che serve a mandare in pensione con 41 anni di contributi chi ha iniziato a lavorare da minorenne, sono stati tolti 335 milioni nel triennio 2023-2025. Opzione donna è stata depotenziata e di fatto cancellata. Parliamo di pensioni sotto i mille euro lordi nel 52% dei casi. Sotto i 1.500 euro nell’87% dei casi.
Sanità
Solo 3 miliardi stanziati sul fondo sanitario nazionale per quest’anno, di cui però 2,5 usati per rinnovare i contratti al personale. Tutto il resto per smaltire le liste d’attesa, pagare gli straordinari ai medici, costruire una medicina del territorio. Una goccia nel mare. L’11% degli italiani ha già rinunciato a curarsi perché non ha i soldi per rivolgersi al privato.
Politiche sociali
Poi ci sono i grandi assenti nella politica meloniana: la casa, la precarietà, il disagio sociale. Sono state rifinanziate le garanzie per i mutui alle giovani coppie. Ma stanziati appena 50 milioni per il disagio abitativo, con il caro mutui e il caro affitti alle stelle. La precarietà non viene contrastata, ma avallata. Nulla per la sicurezza sul lavoro. Tagliato il fondo per i disturbi alimentari da 25 milioni. Dopo le polemiche, forse ne tornano 10.
Cancellato il bonus assunzioni giovani e donne. C’è la maxi deduzione Ires, ma non è un incentivo mirato ai segmenti più deboli del mercato del lavoro. Ed è pieno di paletti. La spending imposta agli enti locali taglia a Regioni, Comuni e Province 3 miliardi in 5 anni. Difficile non credere che non sia toccato il sociale. Forse salveranno sanità e famiglia. Ma ci sono le mense, gli scuolabus. E le tasse locali che si impenneranno. Eccola, la destra asociale.
(da la Repubblica)
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
IL TELEGIORNALE APPROFONDISCE I TEMI SUGGERITI DALLA MELONI
Ore 11 è il mattinale di Fratelli d’Italia. Una velina ad uso interno, che viene confezionata a Palazzo Chigi e inviata per colazione ai parlamentari del partito. È scritta in modo agile, intuitivo. Elenca le notizie e gli argomenti del giorno, li divide in categorie: Politica interna, Politica estera, Economia. In ognuna delle macro-aree c’è una freccetta colorata di blu che introduce un testo in corsivo, distinto dal resto del notiziario. Sono gli “spunti”, delle formulette semplificate che suggeriscono il modo corretto per interpretare e commentare la posizione del partito sui temi più caldi. Esempio: cosa deve dire un parlamentare di FdI sulle notizie di Esteri del 31 gennaio? Questo: “L’Italia affronta da protagonista temi importanti non solo per l’Europa: in primis l’Ucraina, ma anche la situazione del Mar Rosso con la volontà di contribuire a una posizione più concreta e meno burocratica, viviamo in tempi che richiedono velocità e pragmatismo”. Ore 11 però non è solo un bignamino per la comunicazione di Fratelli d’Italia, è anche un’anticipazione più che attendibile su come la stampa e i telegiornali amici presenteranno la propaganda di destra nel corso della giornata. In certi casi le coincidenze tra Ore 11 e il Tg1, per dire il più importante, sono clamorose. Come se tra le stanze di Palazzo Chigi e la redazione di Saxa Rubra ci fosse solo una parete sottile, male insonorizzata. Questi sono solo alcuni dei casi più recenti.
9 GENNAIO Tra gli “spunti” in blu di ore 11 si legge questo bollettino trionfale: “Continua il boom di occupati in Italia che, col governo Meloni raggiunge il record di 23,74 milioni. I dati oggi dell’Istat, inoltre, evidenziano come a novembre 2023 il numero di lavoratori è aumentato di 30mila unità, interessando soprattutto le donne dipendenti. Nell’arco di un anno gli occupati sono cresciuti di oltre mezzo milione di unità. Questi sono i risultati delle riforme volute dal governo Meloni (…) Ancora una volta le nefaste previsioni delle opposizioni vengono smentite”. Nel mattinale di FdI lo spunto è in pagina 4, ma per il Tg1 delle 13 e 30 è addirittura l’apertura della scaletta, il primo titolo: “Istat, a novembre record di occupati, oltre 23milioni di persone, in un anno sono 520mila in più e il tasso di disoccupazione scende al 7,5%”. Anche il lancio del servizio è un inno all’ottimismo: “Buongiorno dal Tg1, nuovi segnali positivi dal mondo del lavoro. L’Istat comunica che a novembre è stato toccato il record di occupati”.
24 GENNAIO È il giorno del question time di Meloni, segnato dal botta e risposta con Elly Schlein sulla sanità: una brutta figura per la premier, che in privato si sfogherà con i suoi collaboratori per non averla preparata a dovere. Ma il Tg1 delle ore 20 manda in onda solo la replica della premier (“Considero un’implicita attestazione di stima che oggi voi chiediate a noi di risolvere tutti i problemi che voi non avete risolto nei dieci anni in cui non siete stati al governo”). Il telegiornale di Gian Marco Chiocci invece dedica un intero servizio al “via libera al disegno di legge per la ratifica dell’accordo Italia-Albania”. Lo commenta il deputato meloniano Tommaso Foti: “Con questo accordo si traccia una rotta nuova per la lotta all’immigrazione clandestina, dopo quello con la Tunisia che ha avuto il plauso dei commissari europei anche ieri, indicato come modello da seguire”. Ecco, il tema Albania era ovviamente uno degli “spunti” di Ore 11: “L’Italia è protagonista in Europa e il cambiamento delle politiche migratorie ne è l’esempio: il memorandum con la Tunisia ha dimostrato che un nuovo approccio al tema è possibile e il trattato con l’Albania dimostrerà come è possibile combattere i trafficanti di morte dissuadendo i migranti a scegliere le vie illegali”. Distinguere la velina dal tg è per intenditori.
25 GENNAIO Su Ore 11 il “tema in evidenza” è segnalato in caratteri cubitali rossi: “Dal governo 1 miliardo a sostegno degli anziani, oggi in cdm la norma”. L’argomento è poi approfondito in uno degli “spunti” del mattinale: “Oggi il decreto legislativo attuativo del Patto per la Terza Età è un’ottima notizia per i cittadini. È un provvedimento estremamente innovativo che punta a costruire un nuovo modello di welfare e che permetterà di dare risposte concrete ai bisogni dei nostri oltre 14 milioni di anziani, di cui 3,8 non autosufficienti”. Indovinate con quale notizia si apre, quel giorno, il Tg1 delle 20? Ma certo: “Via libera dal consiglio dei ministri al Patto per la terza età. Meloni: riforma che l’Italia aspettava da 20 anni”. Ecco il lancio dallo studio (repetita iuvant): “Buonasera a tutti voi dal Tg1, via libera dal consiglio dei ministri al Patto per la terza età. Più di un miliardo in due anni per aiutare e sostenere gli anziani con reddito basso. Una riforma – dice la premier Meloni – che l’Italia aspettava da vent’anni”.
31 GENNAIO È tempo di festeggiare un altro successo dell’economia italiana: lo stesso del 9 gennaio. Ore 11 celebra ancora il record di occupati. Ecco lo “spunto” in blu nel matinale: “A chi parla di numeri bassi va detto che sarebbe il caso di uscire dalle opinioni e guardare ai dati reali. In un anno i lavoratori in questo Paese sono aumentati di mezzo milione. E questo anche perché il governo ha fatto sì che molti cittadini scendessero dal divano”. Il Tg1 delle 13 e 30 recepisce subito: ecco i dati reali. Dopo i primi due servizi dedicati al caso Salis, è la terza notizia in scaletta: “Doppio segnale positivo sull’occupazione in Italia. Le stime dell’Istat a dicembre 2023 segnano un record di occupati. Sono oltre 23,7 milioni, quindi 456mila lavoratori in più rispetto al 2022, la gran parte con contratti a tempo indeterminato. Il tasso di occupazione sfiora il 62% e sempre a dicembre, sul fronte disoccupazione, il tasso scende al 7,2%. Non accadeva dal 2008”.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
LA PROTESTA SI TRASFORMA IN SCAZZO POLITICO: DA DESTRA ACCUSANO LA POLITICA AGRICOLA DELL’UE, DAL PD FANNO NOTARE CHE IL COMMISSARIO RESPONSABILE E’ WOJCIECHOWSKI, MEMBRO DEI CONSERVATORI EUROPEI (ECR) DI CUI MELONI È PRESIDENTE
«Marcia su Roma». E la protesta dei trattori potrebbe arrivare anche a Sanremo. Riscatto agricolo, la firma di molte manifestazioni degli ultimi giorni, ha annunciato con Andra Papa, uno dei portavoce, che i circa 250 trattori che presidiano Foiano della Chiana, questa mattina alle 7 imboccheranno la Cassia in direzione Roma Nord. Sui manifesti e sui social, la protesta è definita proprio così: «Marcia su Roma».
Gli agricoltori potrebbero apparire anche all’Ariston, dove domani sera si apre il Festival. Si sono appellati ad Amadeus i manifestanti a Orte, ne ha parlato il cantante vignaiolo Al Bano: «Portare la protesta a Sanremo sarebbe un colpo mediatico formidabile. E se fossi uno con un grande pelo sullo stomaco ci andrei pure io con un trattore».
Insomma, pare che la prima mossa del governo (i fondi del Pnrr destinati all’agricoltura passeranno da 5 a 8 miliardi) per ora non abbia disinnescato le proteste. E la politica si accende. Per Elly Schlein, il governo «sta facendo il gioco delle tre carte». Secondo la segretaria Pd, se «rubi risorse ad altri progetti, sempre un furto rimane».
La linea del centrodestra, però, è che i manifestanti ce l’abbiano con l’Unione europea. Lo dice la ministra Daniela Santanché (FdI) — «Non stanno protestando contro il governo ma contro l’Europa» — e lo ribadisce il governatore lombardo Attilio Fontana: «Siamo sempre al loro fianco. Consapevoli che alcune norme Ue vanno contro di loro».
Per il capogruppo alla Camera di FdI Tommaso Foti, «proprio all’ambientalismo esasperato e cieco del commissario Timmermans si deve gran parte delle misure che gli agricoltori giustamente contestano». E dunque, «appaiono patetici e ridicoli i maldestri tentativi della sinistra anti italiana di voler fuggire dalle responsabilità di avere avallato di tutto e di più a livello europeo». Gli ribatte caustico, dal Pd, Stefano Vaccari: «La politica agricola europea è del commissario Wojciechowski che fa parte dei conservatori europei (Ecr) di cui Meloni è presidente».
Anche ieri, manifestazioni in tutta Italia. In piazza del Duomo, a Milano, è arrivata la mucca Ercolina 2, mentre a Pavia oltre 500 mezzi agricoli sono giunti a un passo dal Castello Visconteo. Slogan del giorno: «Siamo alla frutta». In Sicilia, Cateno De Luca, leader di Sud chiama Nord, ha annunciato una «manifestazione di San Valentino» a Palermo. E le proteste sono annunciate per tutta la settimana.
(da Il Corriere della Sera)
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
MELONI HA DETTO CHE LE RISORSE SAREBBERO PASSATE DA 5 A 8 MILIARDI, MA NON SI TRATTA DI UN NUOVO STANZIAMENTO ERA GIA’ PREVISTO
“Le risorse del Pnrr dedicate al mondo degli agricoltori, che per noi è particolarmente importante, passano da 5 a 8 miliardi di euro“: l’annuncio della premier Meloni sabato a Catania, durante una visita a uno stabilimento Enel che produce pannelli solari, assomiglia molto a un altro, ancora sul sito del ministero dell’Agricoltura, datato 24 novembre. “Grazie al lavoro del governo Meloni e del dicastero che rappresento, raddoppiate le risorse del Pnrr destinate al settore agroalimentare”, affermava un Francesco Lollobrigida molto sorridente, spiegando che “la dotazione finanziaria passerà da 3,68 a 6,53 miliardi di euro. A questi vanno aggiunti i fondi del Piano nazionale complementare, pari a 1,2 miliardi, per un totale di circa 8 miliardi di euro: il più grande stanziamento economico mai registrato per l’asset primario della nostra Nazione”.
Ovviamente gli 8 miliardi sono gli stessi. L’annuncio infatti ieri non ha avuto alcuna eco nel mondo agricolo, ancora sulle barricate: i “trattori” si stanno organizzando per una manifestazione a Roma nei prossimi giorni. Le risorse sono dunque frutto della rinegoziazione del Pnrr, condotta nella seconda metà del 2023: il via libera annunciato oltre due mesi fa. E non vengono incontro alle rivendicazioni più forti degli agricoltori italiani, che come i loro colleghi europei contestano gli accordi di libero scambio che penalizzano i prodotti italiani, e i criteri di distribuzione delle risorse della Pac, che penalizza e a volte esclude i piccoli agricoltori, ma al governo italiano chiedono anche il ripristino delle agevolazioni Irpef.
Delle nuove risorse, invece, 2,3 miliardi sono destinati ai contratti di filiera e che saranno gestiti attraverso l’Ismea sotto forma di prestiti e sovvenzioni, mentre 850 milioni vanno a sostegno ai parchi agrisolari, la cui dotazione è passata da 1,5 miliardi a 2,3 miliardi, con l’obiettivo di arrivare a 1,3 gigawatt.
“Siamo di fronte all’ennesima presa in giro alimentata dalla propaganda del governo, che ha aumentato le tasse sugli agricoltori, ripristinando l’Irpef sui redditi agrari dominicali e abolendo la proroga del contributo per gli agricoltori under 40”, rileva il co-portavoce nazionale di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Angelo Bonelli. “Questa destra prosegue con le sue fake news inaccettabili, – aggiunge Bonelli – attaccando il Green Deal , che a oggi non ha trovato applicazione, mentre il partito di Meloni, insieme a Lega e Forza Italia, ha votato a favore della riforma agricola europea, la Pac, che avvantaggia le grandi multinazionali agricole”.
(da La Repubblica)
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
DALL’ISTRUZIONE ALL’IDROGENO: LA MAPPA DELLE INIZIATIVE COINCIDE (TI PAREVA) CON QUELLA DEGLI INVESTIMENTI DELLE GRANDI PARTECIPATE
Una nuova attenzione, “strategica” addirittura, per l’Africa è di certo un fatto positivo per la politica italiana e di questo va dato atto a Giorgia Meloni. I complimenti per la premier devono, purtroppo, fermarsi qui. Il cosiddetto Piano Mattei per l’Africa, annunciato a ottobre 2022 e che ha visto la luce una settimana fa a Palazzo Madama con spreco di leader africani e vertici Ue, non ha nulla di strategico, se non forse la buona volontà della dilettantesca destra di governo: risorse esigue (5,5 miliardi in tutto), progetti vecchi, spesso già in essere, di corto respiro e con una evidente torsione verso i desiderata delle grandi partecipate, in particolare quelle dell’energia.
Curioso, a questo proposito, che la mappa dei “progetti pilota” in 9 Paesi africani annunciati dalla premier coincida largamente anche con quella del peso politico di Eni nel continente da cui ricava il 59% della sua produzione (dati 2021): Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto (la gallina dalle uova d’oro del “cane a sei zampe”), Costa d’Avorio, Kenya, Congo e Mozambico. La sola Etiopia, tra i Paesi citati da Meloni (e destinataria di un progetto ambientale), è stata finora marginale – ma non assente – nel portafogli dell’azienda fondata da Enrico Mattei, oggi arruolato a sua insaputa da Palazzo Chigi.
Che il Piano Mattei, ma forse più correttamente il Piano Meloni-Descalzi, sia questa povera cosa a livello di contenuti l’ha in sostanza detto la stessa premier nel suo discorso di presentazione, ammettendo che in 15 mesi il suo governo ha predisposto solo una listarella di interventi, molti dei quali già in essere, che hanno pochissime speranze di essere una svolta per l’Africa.
Se non serve a fare quel che si dice, però, la mossa diplomatica e di marketing di Palazzo Chigi può servire a fare altro: occupare parte del peso politico e finanziario che la Francia sta perdendo nel suo ex cortile di casa del Sahel (Eni è il secondo produttore non africano del continente dopo la francese Total). Difficile che questo “lato B” delle intenzioni italiane possa trasformare il Piano Mattei in un modello a cui vorranno aderire gli altri Paesi europei o la stessa Ue: una disfida politico-economica non è una buona base per la condivisione.
L’Africa, d’altra parte, è quel luogo in cui la cooperazione e gli affari vanno mano nella mano con una certa tendenza dei secondi – ammesse ma non concesse le buone intenzioni – a prevalere sulla prima: il Piano Meloni-Descalzi non fa eccezione. Come ha spiegato l’amministratore delegato del colosso energetico al Financial Times un mese fa: “Noi non abbiamo energia e loro ce l’hanno. Noi abbiamo una grande industria e loro devono svilupparla… C’è una grossa complementarietà”. Dirlo più chiaramente di così sarebbe difficile.
Non di sola Eni ha però vissuto la gestazione del Piano per l’Africa. Un “contributo tecnico e strategico” all’elaborazione della strategia italiana l’ha dato, così scrive in una sua brochure, la fondazione RES4Africa, nata nel 2012 e sostenuta da grandi aziende pubbliche e private tra cui Enel, Terna, Intesa Sanpaolo, Elettricità Futura, lo studio legale Bonelli Erede e molte altre. RES4Africa, per dire, si occupa in Marocco, tra le altre cose, di “preparare le professionalità necessarie alla transizione energetica per favorire la creazione di posti di lavoro dignitosi”: progetto che nelle lista di Meloni diventa “un grande centro di eccellenza per la formazione professionale sul tema delle energie rinnovabili”. Il Paese nordafricano sta puntando parecchio sull’energia: Enel ha partecipato a investimenti sia nella produzione da rinnovabili che da gas. Il metano oggi è un bel problema per il Marocco, tagliato fuori dalle forniture algerine: ora ha annunciato che intende costruire un grande metanodotto dalla Nigeria, Paese in cui opera Eni, destinato ad arrivare in Europa. Un progetto concorrente di quello analogo proposto proprio da Algeri.
I progetti “fossili” – visto che i soldi arrivano in larga parte del Fondo per il clima – sono estranei al Piano presentato da Meloni, ma le reti infrastrutturali ne sono invece il cuore industriale. Meloni, ad esempio, ha citato l’interconnessione elettrica tra la Sicilia e la Tunisia (Elmed), ovvero la costruzione di un cavo sottomarino di 220 chilometri a cui lavorano Terna, la società pubblica responsabile della trasmissione dell’energia elettrica, e l’omologa tunisina Steg. Per la sua realizzazione la Banca mondiale ha stanziato a giugno 2023 quasi 270 milioni di dollari in favore della Tunisia e un finanziamento da 307 milioni è in arrivo anche dalla Commissione Ue senza che nessuno abbia mai citato Mattei.
Un’altra infrastruttura citata dalla premier è il “Corridoio H2 Sud”, che prevede la realizzazione di condotte per portare l’idrogeno dal Nord Africa all’Europa via Italia. Il Paese guida è ancora il Marocco: ha dichiarato di voler investire in questo ambito con l’appoggio di molti Paesi europei – tra cui l’Italia – attratti dalla possibilità di avere idrogeno “verde” a prezzi fino al 14% inferiori rispetto a quello domestico. Coinvolte sono l’italiana Snam, l’austriaca Tag, la slovacca Eustream, la ceca Net4Gas e la tedesca Oge: entro il 2030 vogliono creare una rete di idrogenodotti lunga 3.400 km, costituita per l’85% da tubi finora usati per il gas.
In Kenya, poi, c’è il progetto, citato da Meloni, “dedicato allo sviluppo della filiera dei biocarburanti”. Eni in quel Paese ha già un agri-hub con relativi impianti di raccolta e spremitura dei semi: l’olio estratto viene destinato alle bioraffinerie dell’azienda. È Eni stessa a raccontare che a ottobre 2022 il primo cargo di olio vegetale prodotto in Kenya ha lasciato il porto di Mombasa alla volta della bioraffineria di Gela e che vorrebbe estendere queste coltivazioni ad altri sette Paesi (Angola, Congo, Costa d’Avorio, Mozambico e Ruanda). Problema: parliamo di un’area del mondo in cui la malnutrizione non è proprio residuale, forse avrebbe più senso produrre per mangiare.
Un po’ meno diretto il collegamento tra Leonardo e il “progetto di monitoraggio satellitare sull’agricoltura” per l’Algeria, con cui pure il colosso della difesa ha fatto affari e stretto accordi di cooperazione in ambito militare. Leonardo con Thales e due società controllate (Telespazio e E-Geos) hanno già predisposto proprio un sistema di controllo satellitare dell’agricoltura – per il quale la società italiana partecipa con i propri sensori- è che potrebbe servire alla bisogna.
Non si sa se sono questi “gli interventi strategici di medio e lungo periodo” citati da Meloni, si spera che non si riferisse a quelli già in corso, a volte persino su impulso dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) del ministero degli Esteri. Tipo il “centro agroalimentare che valorizzi le eccellenze e l’esportazione dei prodotti locali” in Mozambico, dove l’Aics sta già partecipando con 35 milioni di euro al “Centro Agro-Alimentare di Manica”, in una zona devastata da un ciclone nel 2019.
L’Agenzia si occupa anche di depurazione delle acque in mezzo mondo (in Etiopia, ad esempio, altro progetto in corso finito nel Piano), ma il programma citato da Meloni per la Tunisia somiglia assai a quello detto “Tresor” per il trattamento di fanghi e acque reflue già avviato da Eni nel 2020, come pure la “riqualificazione infrastrutturale delle scuole”, già messa in moto dall’azienda di Descalzi. E ancora: il rafforzamento del sistema sanitario in Costa d’Avorio (“accessibilità e qualità dei servizi primari materno-infantili”) segue il Cane a sei zampe, che nel Paese produce petrolio, gas e oli per la bioraffinazione e investe in “salute, con programmi di formazione ai medici e la distribuzione di dispositivi sanitari”. Tutto bene, per carità, ma per questa povera cosa c’era bisogno di perdere 15 mesi e poi andare in duecento a Palazzo Madama?
(da ilfattoquotidiano.it)
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Febbraio 5th, 2024 Riccardo Fucile
ECCO LE AZIENDE ITALIANE CHE L’HANNO GIA’ INTRODOTTA
È la Germania l’ultimo paese europeo a testare la settimana lavorativa di quattro giorni. Nei giorni scorsi, il Paese guidato da Olaf Scholz ha annunciato l’avvio di una sperimentazione che consentirà ai dipendenti di 45 aziende di lavorare un giorno in meno alla settimana a parità di retribuzione. Quella del governo tedesco è in realtà soltanto l’ultima di una lunga serie di iniziative lanciate in Europa per sperimentare la cosiddetta «settimana corta». Negli anni scorsi hanno lanciato progetti simili anche Spagna, Islanda, Svezia, Finlandia e Regno Unito. E l’Italia? Nel nostro Paese non è mai stata approvata una modifica legislativa né una sperimentazione su larga scala nazionale. Ma il numero di aziende che scelgono di sperimentare la nuova organizzazione dell’orario di lavoro cresce di anno in anno.
Gli esperimenti in Italia
Una delle prime a introdurre la settimana corta è stata Intesa San Paolo. La sperimentazione è iniziata ormai più di un anno fa ed è stata proposta ai circa 28mila dipendenti del gruppo che lavorano nelle filiali. Di loro, circa il 70% ha scelto di abilitare la settimana lavorativa di quattro giorni. Nelle scorse settimane si sono aggiunte altre due aziende. Una è Lamborghini, che ha firmato un nuovo accordo sindacale che prevede l’alternarsi di una settimana da 5 giorni e una da 4. L’altra è EssilorLuxottica, che ha proposto ai propri dipendenti la possibilità di applicare la settimana lavorativa di quattro giorni per venti settimane all’anno. Per il gruppo della famiglia Del Vecchio, si tratta soltanto dell’inizio «di un percorso che porta finalmente nelle fabbriche quella valorizzazione di tempo e spazio personale che fino ad oggi è stata un’esclusiva del mondo degli uffici», spiega alla Stampa Piergiorgio Angeli, responsabile delle Risorse umane.
I vantaggi della settimana corta
Stando a quanto stima l’Istat nel suo rapporto «Misure di produttività, anni 1995-2022», una riduzione dell’orario potrebbe incidere positivamente sull’attività delle imprese. La produttività, infatti, diminuisce dello 0,7% per effetto dell’aumento delle ore lavorate. Secondo alcuni esperti, l’introduzione di una settimana lavorativa di quattro giorni potrebbe ovviare a questo problema, permettendo allo stesso tempo di migliorare la salute mentale dei dipendenti. «Non c’è niente di naturale nel lavorare cinque giorni – spiegava l’economista Pedro Gomes lo scorso anno in un’intervista a Open -. La settimana lavorativa è un costrutto sociale, politico ed economico che dovrebbe cambiare ed evolversi man mano che le società cambiano ed evolvono».
(da Open)
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