Gennaio 3rd, 2025 Riccardo Fucile
GIUSEPPE REMUZZI, DIRETTORE DELL’ISTITUTO MARIO NEGRI, DÀ LA RICETTA PER SVUOTARE I PRONTO SOCCORSO ED EVITARE LE FILE: “SUL TERRITORIO SONO NECESSARI I DISTRETTI SANITARI CHE SI BASANO SUL MEDICO DI FAMIGLIA, POI GLI “OSPEDALI DEGLI INFERMIERI” CHE SI OCCUPANO DI CHI NON PUÒ ESSERE CURATO A CASA. E INFINE GLI OSPEDALI SOLO PER I CASI PIÙ GRAVI. SE A UN CERTO PRONTO SOCCORSO OGGI ARRIVANO 200 PERSONE AL GIORNO, QUANDO CI SARÀ UNA BUONA ASSISTENZA SUL TERRITORIO, QUELLE PERSONE SARANNO 40”
«Ci possiamo permettere di non averla la sanità pubblica?». Che futuro può avere un Paese che non consente ai suoi cittadini di accedere ai servizi essenziali? Davvero vogliamo che anche da noi le persone soffrano e muoiano anche quando lo si potrebbe evitare? Evitare tutto questo si può, ci sono ragioni morali per farlo ed è un problema soprattutto culturale: il poter essere curati quando ci si ammala è l’essenza di una società giusta e il fondamento stesso dell’essere liberi. Ma farsi carico della salute dei cittadini implica una enorme responsabilità, che non può essere delegata a organizzazioni private, costruite attorno a numeri ed efficienza.
Il distretto sanitario
Deve essere un vero e proprio «servizio», ispirato a compassione, desiderio di alleviare il dolore degli altri, attenzione ai dettagli e qualità.
Ma «ci sono le assicurazioni, fatevene una e siete a posto».
Davvero? Un’indagine recente fatta da Kaiser Foundation — un’agenzia indipendente che si occupa di salute pubblica — rivela che la maggior parte degli americani super-assicurati ha difficoltà ad ottenere quello che serve per curarsi, non trova un accordo con l’assicurazione, intanto la malattia va avanti e servono consulenti per orientarsi nel labirinto delle clausole.
Insomma da loro è un disastro, da noi ancora no e speriamo di non arrivarci mai. Sarebbe comunque preferibile a mio parere che la salute non sia mai l’occasione per arricchire qualcuno a scapito di altri; se c’è accordo su questo il rimedio non è nemmeno tanto complicato: basta tener fede all’impegno preso con l’Europa nell’ambito del Pnrr, tanto per cominciare, per poi arrivare a qualcosa di più strutturale. Un sogno? Mica tanto, ho provato a tratteggiare l’essenziale nel grafico che trovate in questa pagina.
Liste d’attesa sanità
Si parte dal territorio col Distretto Sanitario una unità organizzativa già in essere, il cui compito principale è quello di pianificare e organizzare i servizi sanitari sul territorio e integrare le attività di prevenzione cura e riabilitazione. La maggior parte di queste attività si fondano sul medico di famiglia, colonna portante del sistema, che deve poter dipendere dal Servizio Sanitario Nazionale (questo è un punto fermo sul quale non transigere, se no crolla tutto il resto). Il medico di famiglia farà prima di tutto prevenzione e quando questa non basta, potrà contare sulla disponibilità illimitata dei letti di casa.
Le cure a domicilio E chi non può essere curato a casa? Per loro c’è la «casa della comunità» che vedrà medici di medicina generale, specialisti, infermieri, assistenti sociali e personale amministrativo lavorare insieme per lo stesso obiettivo; secondo la missione 6 del Pnrr, entro il 2026 le case della comunità in Italia dovranno essere 1.350.
Poi, sempre sul territorio, ci saranno ospedali di prossimità — i piccoli ospedali di oggi — che diventeranno «ospedali degli infermieri»; si faranno carico di tutto quello che gli infermieri fanno egregiamente già oggi (dalle medicazioni ai prelievi di sangue, alle infusioni, alla chemioterapia, alla diagnostica che sarà integrata con sistemi di intelligenza artificiale già largamente disponibili).
Se a un certo pronto soccorso oggi arrivano, poniamo, 200 persone al giorno, quando ci sarà una buona assistenza sul territorio, quelle persone saranno 40: e allora niente più ore e ore di attesa, nessuno che perde la pazienza, nessuno che aggredisce nessuno. I reparti dell’ospedale di quel pronto soccorso avranno sempre i posti che servono per accogliere gli ammalati gravi, un po’ perché dal pronto soccorso le richieste di ricovero diminuiranno e poi perché si potrà contare ancora una volta sull’ospedale degli infermieri dove ricoverare chi ha superato la fase più difficile della sua malattia ma non può ancora essere assistito a casa.
Il lavoro di medici e infermieri va remunerato adeguatamente, si capisce, e qui ci viene in aiuto un editoriale del Lancet : «Il servizio sanitario (quello inglese, ndr) è malato ma si può curare». Loro scrivono fra l’altro: «basta col finanziare un pochino ogni criticità che si presenta, serve una visione globale se no quei soldi si buttano: una volta deciso che servizio vogliamo si deciderà come sostenerlo». E per il nostro cosa potrebbe servire? Quaranta miliardi di euro — solo per portarci al livello di Francia e Germania — sembrerebbe tanto e qualcuno obietterà che non abbiamo tutti questi soldi. Non è così, quei soldi ci sono e li spendiamo già: fra farmaci, interventi inutili e servizi ridondanti sprechiamo ogni anno proprio quaranta miliardi di euro, quanto servirebbe per rimettere in ordine il Servizio Sanitario Nazionale. Evitare gli sprechi è possibile e dovrebbe essere un imperativo morale, ma perché succeda davvero servono azioni concrete e senso civico da parte di tutti […] cos’altro serve perché tutto questo possa realizzarsi?
Qui arriviamo all’aspetto più delicato di tutti: il «governo» del sistema. Direzioni di distretto, assessorati regionali, ministeri, dovrebbero per una volta lavorare insieme due obiettivi semplici quanti ambiziosi migliorare il benessere dei cittadini e ridurre le diseguaglianze. Perché succeda davvero però governo e Parlamento ci devono credere, sottrarsi alla logica degli schieramenti e lavorare insieme, nello spirito della Costituzione, per dare ai nostri concittadini la possibilità concreta di accedere alle prestazioni mediche di cui hanno bisogno nei tempi giusti.
La nuova Sanità Vuol dire che non ci sarà più spazio per la sanità privata?
Niente affatto, il privato-privato (in strutture private) va benissimo; vuol dire che chiunque, pagando di tasca sua, può avere tutto quello che vuole dove vuole. Non solo ma le organizzazioni private dovrebbero venire in aiuto al pubblico dove e quando il pubblico è carente, a condizione però che ci sia una regia: ospedali pubblici e privati che a pochi chilometri di distanza fanno le stesse cose non ce ne dovrebbero essere più e nemmeno ammalati che per avere una prestazione in tempo utile devono rivolgersi al privato.
(da Corriere della Sera)
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Gennaio 3rd, 2025 Riccardo Fucile
LO SCHERMO FA IL PIENO DI PROGRAMMI SUI CASI IRRISOLTI E LA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA NON UCCIDE PIU’ COME UNA VOLTA
Bum, non c’è più: sparita di colpo, vaporizzata. Che fine ha fatto la camorra? E la
mafia? E la ‘ndrangheta? Fortuna che i malacarne sembrano attualmente in ferie, impegnati altrove e vattelappesca dove. La criminalità organizzata non uccide come una volta e gli effetti quotidiani del crimine, come il pizzo, si stanno trasformando (che bellezza!) quasi in oneri urbanistici, antipatiche ma necessarie tasse da pagare per via di tutti quei vuoti di memoria che trasformano per esempio le ex efferate ‘ndrine in robuste compagnie assicuratrici: chi si abbona sa che avrà il negozio, l’azienda, la casa tutelati.
L’Italia è infatti impressionata da ben altro sangue. Per esempio: chi ha ucciso Pierina Paganelli il 3 ottobre scorso? È stato Louis Dassilva, il boyfriend di Manuela Bianchi, la nuora della povera Pierina, 78enne di Rimini? Vero? Possibile? Si faceva del sesso nel condominio di via del Ciclamino, il luogo del delitto? Il sesso, fuoco che ha arso ogni prudenza e ha levato fiamme alte persino lungo le scale della palazzina. Sesso e sangue, sesso e sangue. Nel garage chi è entrato? La telecamera in strada ha beccato l’assassino oppure l’ombra traditrice? A questo proposito: la telecamera aiuta o manomette, accredita veramente o suggestiona? Il colpevole è veramente lui, cioè Louis? Maschio dalla pelle nera, per di più dall’aspetto giovanile e dalla forma fisica invidiabile.
“Queste storie legano le nostre vite e anzi le collegano alle scene dei vari delitti. Le disgrazie apprese in televisione sono compiute ai danni di gente come noi. Perciò l’immedesimazione”, dice Roberta Bruzzone, la criminologa ormai esperta nuotatrice nel grande lago della efferatezza occasionale, della cattiveria individuale, dell’oltraggio d’impeto di questo esercito di pugnalatori, mariti incapricciati, amanti ingelositi, ladri incattiviti. Pazzoidi comunque.
C’è un fatto: il crimine paga. In televisione paga il triplo. Raidue, per dire, che ha sempre lo share incerottato e le trasmissioni irrimediabilmente declinanti, santifica Milo Infante che alle 14, durante i pasti, esamina il crimine da ogni angolatura e per una mezz’oretta elenca i malfattori della giornata. “L’ho preso al due ora siamo al nove”, dice Infante. Parla dello share, documenta la vittoria. Ma qui è niente perché nei pressi di Retequattro Gianluigi Nuzzi è la colonna portante, la trave metallica con il suo Quarto grado. Una examination dell’orribile attraverso l’opinionismo attrezzato.
Resta da domandarsi in quale delle buche della nostra curiosità abbiamo inquadrato Sebastiano Visentin, il marito di Liliana Resinovich, trovata dopo una quindicina di giorni in un sacco di plastica dentro il quale, secondo le prime analisi fattuali ella si sarebbe ficcata prima di suicidarsi, con una manovra fisica davvero invidiabile. Sta di fatto che Nuzzi ha come ospite fisso Sebastiano, il marito più televisivo della storia recente che, almeno una volta a settimana, duetta con Claudio Sterpin, l’amante addolorato. È suicidio davvero? Oppure uno di questi maschi ha tirato la corda, l’ha stretta. E chi dei due? Il televisivo o l’ex atleta oggi attempato.
Togliendo dal novero delle vittorie incredibili l’ormai leggendario Chi l’ha visto di Federica Sciarelli, che tiene in mano quasi la metà di tutto Raitre, dobbiamo andare al dunque di queste grandi partecipazioni popolari. La passione, ecco dove ci porta la passione quando ormai abbiamo perso le speranze nella politica e anzi proprio non ci interessa. I talk annaspano intorno al cinque/sei per cento di share, a volte raggiungono l’otto o il nove, ma solo se c’è qualcosa di rilevante, di assolutamente imperdibile. E in effetti il nove per cento raccolse Piazza pulita quando Corrado Formigli riuscì a catturare Maria Rosaria Boccia, giovane, bionda e arrembante imprenditrice di Pompei alla quale l’ex ministro Gennaro Sangiuliano aveva giurato tremendo amor. Anche qui un poco di sesso e un poco di sangue (il cranio del ministro ammaccato da una sfuriata sembra sentimentale dell’agguerrita ex compagna). Infatti tutto ha funzionato a meraviglia e il successo è stato indiscutibile.
Figuriamoci quando il demonio, in carne e ossa, è entrato in casa e si è impossessato dei corpi di Angela Salomone e dei suoi due figli: Kevin di 16 anni ed Emanuel di cinque. Il marito Giovanni Barreca, imbianchino di Altavilla Milicia, paesino del Palermitano, ha sgozzato mamma e figli per far uscire il diavolo dai loro corpi e dalla sua abitazione.
C’è da dire che i social hanno sfornato attività simil demoniache in parecchie località della penisola, e Bari sarebbe la città di un esorcista molto seguito su facebook. Impone le mani e per fortuna senza mai impugnare coltelli.
Naturalmente fuori classifica sono i feuilletton. “La gente si accalca e partecipa ancora di più quando il protagonista del crimine non è certo, anzi l’ombra dell’errore solletica entusiasmi singolari”, racconta Bruzzone.
La confessione dell’omicida sgonfia il caso e abbassa lo share. Passioni smisurate, e attacchi di vera partecipazione, solo quando i carnefici sono o appaiono meno a fuoco, meno certi. Ad Avetrana, per il famoso e orribile delitto di Sarah Scazzi, nemmeno la sentenza definitiva di condanna è riuscita a ridurre l’afflato compassionevole verso Sabrina e mamma Cosima. E il carnefice di Yara Gambirasio? È colpevole Bossetti oppure no? E vogliamo parlare della strage di Erba?
Le domande fondamentali di una società aggredita dalla noia e percorsa dai social che forse assomigliano per certi versi alle fogne dell’animo ma danno ritmo, signora mia, a sensazioni più friccicarelle.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Gennaio 3rd, 2025 Riccardo Fucile
“CONTRO LA CRISI NON BASTA SPERARE, BISOGNA FARE RIFORME STRUTTURALI”
La necessità di riforme strutturali, di recuperare lo spirito corale che ha permesso la ricostruzione dell’Italia nel dopoguerra. La necessità soprattutto di riprendere a sperare, è l’augurio che arriva da Giuseppe De Rita, sociologo, tra i fondatori del Censis di cui è stato a lungo presidente.
Nel suo discorso il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha elencato le difficoltà dell’Italia. Un lungo elenco.
«Il presidente della Repubblica ogni anno cita tutti i problemi, dai migranti agli anziani. L’elemento nuovo quest’anno è stata l’affermazione che la speranza siamo noi. Mi piace molto perché ci invita a renderci conto che la speranza non arriva da una stella di Natale, siamo noi a doverla creare».
La speranza è proprio quello che manca negli italiani come emerge anche dalle ultime analisi del “suo” Censis. È quello che frena, per esempio, nella scelta di fare figli e che rappresenta uno dei fattori di maggiore criticità per il futuro economico dell’Italia.
«Come ricorda anche il presidente Mattarella, avere un figlio è un grandissimo gesto di speranza nel futuro, una dilatazione del cervello che ci porta a immaginare che quel piccolo tra trent’anni sarà un uomo o una donna. Io ho avuto otto figli in anni non facili, quelli delle grandi crisi, degli scioperi, dell’inizio del terrorismo eppure per la mia generazione la speranza era un atto quotidiano, ora non più».
Come può un Paese ritrovare la speranza?
«Attraverso una sorta di autocoscienza collettiva. Il nostro Paese ha una linea di galleggiamento fissa, non conosce punte estreme di grande sviluppo né crolli profondi durante le crisi. Attraverso questa linea di galleggiamento si esclude la possibilità di fare grandi programmi, una situazione molto triste che però è compensata dal fatto che riusciamo a superare i momenti di crisi come è accaduto durante il Covid o nell’affrontare la crisi legata all’inflazione riuscendo comunque a reggere».
E ora?
«Ora si tratta di vedere se abbiamo coscienza di questa realtà e quindi se sceglieremo di aspettare ancora una volta e di capire se riusciremo a superare anche la prossima crisi oppure se si vuole finalmente fare un discorso strutturale e affrontare le antiche criticità che ci portiamo dietro da anni. Affrontandole non con una legge di bilancio ma con riforme capaci di incidere in maniera profonda».
Quali sono queste criticità?
«Dal mio punto di vista la più seria è logistica. Siamo un Paese che ha grandi capacità di sviluppo, di esportazione, di importazione, di consumo, ma la rete logistica è debole. Un terzo del Paese si trova in zone isolate, appenniniche e montane dove non si arriva. Questo fa sì che ci sia un pezzo di Italia non inserito nella realtà quotidiana».
E le altre?
«La seconda criticità è legata alla scarsezza della cultura tecnico-scientifica medio alta. Nel dopoguerra lo sviluppo è stato realizzato da periti industriali, ragionieri, geometri. Dagli anni Settanta in poi la politica scolastica ha privilegiato la quantità e la genericità della formazione, un errore che ha portato a una penalizzazione della specializzazione dei nuovi laureati, a un aumento degli anni di formazione formale di istruzione ma non della professionalità. Abbiamo sbagliato e le conseguenze sono evidenti nel fatto che i nostri giovani più specializzati sono dovuti andare all’estero invece che restare in Italia. La terza criticità è legata al fatto che l’aumento indiscriminato della cultura universitaria non si è trasformata in una seria politica della ricerca moderna, applicata, concreta».
L’Italia del 2025 avrà un problema di non poco peso, l’aumento della povertà. Come affrontarlo?
«Fare un discorso sulle disuguaglianze e gli squilibri sociali, sottolineare che i poveri italiani sono un certo numero è del tutto indifferente alla dinamica di questo Paese. È un discorso che può andare bene per chi fa una politica populista. Per chi fa ricerca e si occupa di economia è più utile concentrarsi su come mettere in campo le risorse per attivare quella capacità italiana di andare oltre, di superare ogni difficoltà che abbiamo dimostrato dal dopoguerra in poi e che è una vera e propria benedizione per il nostro Paese ma che spesso viene vissuta come un arrangiamento, un galleggiamento. Il problema di avere tanti poveri o un aumento degli squilibri si risolve creando sviluppo ma per fare sviluppo sarebbe necessario uno sforzo politico che inneschi una cultura collettiva diversa da quella attuale».
Che cosa chiede alla politica?
«Abbiamo visto che i bonus hanno creato più squilibrio che equilibrio. Il superbonus 110% ha portato benefici a chi aveva già una casa e poteva anticipare soldi finendo per aumentare le differenze esistenti. Credo che sia necessaria, invece, una riflessione collettiva più profonda. Quello che conta è che ora questo Paese dimentichi quello che è stato fatto in questi ultimi venti anni di populismo e attui un ragionamento profondo sul sistema nel suo complesso».
Mattarella sulla sanità: “Lunghe liste d’attesa, molte persone senza mezzi rinunciano a curarsi”
In che modo?
«Non dobbiamo dare solo una risposta immediata alle crisi, abbiamo bisogno di una lenta preparazione culturale e politica che ci permetta di concentrarci come nel dopoguerra su alcuni soggetti da sostenere per innescare un processo di sviluppo economico».
Insomma un ritorno allo spirito che ha portato l’Italia a ricostruire il Paese?
«Sarà perché ho 92 anni ma sono nostalgico di quel periodo in cui furono approvate leggi sulla ricostruzione delle case, sul sostegno alle piccole e medie industrie e sulle industrie a partecipazione statale che rappresentarono un’importante opera di promozione di una società che voleva crescere. È necessario recuperare quello spirito e smetterla di restare prigionieri di schemi mentali superati e individuare invece nuove soggettività da sostenere con interventi mirati altrimenti temo che si perda la possibilità di far ripartire lo sviluppo economico dell’Italia. Il vero incarico che ha chi come me fa ricerca oppure chi fa politica è di sostenere, individuare e indirizzare il processo di sviluppo, altrimenti facciamo soltanto lamento».
(da lastampa.it)
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Gennaio 3rd, 2025 Riccardo Fucile
RAGIONI TECNICHE E GEOGRAFICHE DOVREBBERO FAR CAPIRE CHE 15 MILIARDI POTREBBERO ESSERE INVESTITI IN NECESSARI PROGETTI DI COLLEGAMENTO NORD-SUD
Destinare ingentissime risorse pubbliche all’avvio della costruzione di un ponte
stradale e ferroviario sullo Stretto di Messina non è una buona idea. Per più motivi.
Certo, non tutti gli argomenti contrari sono convincenti. Sostenere che “con tutti quei soldi si farebbe un regalo alle mafie”, non lo è. Implica una resa preventiva dello Stato di fronte alla criminalità organizzata, sconsiglierebbe di fare qualsiasi opera pubblica; rischi ci sono, ci si deve attrezzare per affrontarli. Sostenere che “quei territori sono poveri, con basso reddito e pochi traffici; meglio spendere altrove” è obiezione persino peggiore della precedente, dato che interventi per migliorare la mobilità sono fra i più opportuni per determinare un maggiore sviluppo. In Sicilia e in Calabria (come in Sardegna) il deficit nelle infrastrutture e nei servizi di trasporto è colossale: nell’Isola circolano poco più di 450 treni regionali (vecchi e assai lenti), la metà che in Emilia-Romagna, un quarto rispetto alla Lombardia; l’accessibilità ferroviaria è la metà rispetto al Nord.
Perché allora il Ponte non è una buona idea? Tanto per cominciare, ci sono ancora dubbi tecnici sulla fattibilità dell’opera, che ha caratteristiche che non si ritrovano in nessun altro caso al mondo.
Sono legati alla lunghezza della campata, alla sismicità dei luoghi, all’altezza del ponte sul mare e a quella delle sue torri (da realizzare, tra l’altro, in zone di grande pregio ambientale), all’impatto dei venti.
Le sfide ingegneristiche difficili vanno affrontate, non demonizzate: ma la realizzazione di un intervento così grande va avviata solo quando vi sia assoluta certezza di fattibilità.
Le grandi opere possono avere un notevole fascino simbolico (si pensi all’Autostrada del Sole) nella vita di una comunità nazionale: ma solo se e quando si completano. In Italia sono già molte le dighe senza condotte, i binari senza treni. Vi è il rischio tangibile che il Ponte alla fine non si faccia, ma vengano intanto assicurati alle imprese coinvolte grandi benefici economici anche in caso di mancato completamento; peggio, che si proceda anche a immani lavori preliminari (treni e auto devono essere portati alla notevole altezza del Ponte) lasciandoli poi in futuro abbandonati.
Ipotizziamo che i dubbi tecnici siano superati. Sarebbe bene farlo? Un elemento fondamentale di cui tenere conto è il suo costo: al momento quasi 15 miliardi, ma destinati assai verosimilmente a crescere molto; e che non si aggiungono ad altri interventi infrastrutturali, ma che in larga misura li stanno sostituendo. Il suo finanziamento sta già drenando ampiamente le risorse disponibili per interventi trasportistici, e in genere per investimenti pubblici, nelle due regioni. Potrebbe farlo a lungo. Quindi la vera domanda non è sì o no al Ponte. È: quale è il modo più opportuno di spendere 15 miliardi a vantaggio della Sicilia, della Calabria, e quindi dell’intero Paese?
Una forte riduzione dei tempi di percorrenza, soprattutto ferroviari, fra le due regioni e poi verso Nord è certamente molto auspicabile. Poter salire su un Frecciarossa a Catania e scendere a Napoli avrebbe un significato economico e psicologico notevole. Ma puntando tutto e solo sul Ponte, tantissimi Siciliani e Calabresi resterebbero comunque isolati; impossibilitati, come sono ora, a raggiungere le stazioni delle città. I trasporti sono un sistema a rete: toccare solo un punto può non migliorare molto le cose. I collegamenti interni alle due regioni resterebbero nella attuale, arcaica, situazione.
Basta consultare il documentatissimo rapporto Pendolaria di Legambiente per una gran mole di fatti e dati. Uno per tutti: fra Caltagirone e Catania ci sono solo due treni al giorno, che impiegano circa due ore per percorrere gli scarsi 80 chilometri che le separano. Il Ponte avrebbe il paradossale effetto di rinviare molti miglioramenti a un futuro imprecisato. Inoltre, le distanze in termini di tempo, e quindi la fluidità degli spostamenti, fra le città di Messina e Reggio Calabria sarebbero marginalmente toccate: il Ponte non collegherebbe le due città ma il punto di minor distanza fra le due coste, che è relativamente lontano dall’una e dall’altra.
Benissimo i treni a lunga distanza: ma la geografia resta un vincolo. In base alle migliori proiezioni ci vorrebbero comunque 7 ore da Palermo a Roma; tutta la fascia adriatico-jonica resterebbe irraggiungibile; al Nord non si potrebbe che continuare ad andare in aereo. Per il trasporto merci con l’Europa, poi, è il mare molto più che la strada a rappresentare la migliore opzione. Per di più, la realizzazione di un’opera non garantisce affatto sul servizio disponibile: quanti treni in più, con quale frequenza e quali standard qualitativi partirebbero da Catania solo perché potrebbero passare sul Ponte? E questo, quando? Domande senza risposta. L’attraversamento dello Stretto può essere assai migliorato (si veda il Rapporto del 2021 della Struttura Tecnica di Missione del ministero), con costi e tempi infinitamente minori rispetto alla grande opera. Attraversare lo Stretto in treno non implica necessariamente smontare i convogli ferroviari vagone dopo vagone, traghettarli, e poi rimontarli. La tecnologia può aiutare, e molto: a ridurre i tempi morti; a integrare meglio ferro e mare con strutture di interscambio; attraverso nuovi mezzi marittimi.
Alcune grandi opere servono, specie al Sud. Non sempre, non tutte. Insieme ad alcuni grandi interventi sono soprattutto indispensabili efficienti sistemi di opere anche minori, disegnati con intelligenza e ben funzionanti nel produrre in tempi ragionevoli servizi per cittadini e imprese: come per il trasporto pubblico in Calabria e in Sicilia. Inoltre, le risorse per gli investimenti, così come per i servizi pubblici, potrebbero tornare ad essere scarse con la nuova austerità. Tutti elementi che dovrebbero imporre una discussione collettiva aperta, serrata, informando e coinvolgendo i cittadini, su come utilizzare al meglio ciò che abbiamo, sulle scelte migliori per il futuro.
Da questo punto di vista il percorso verso il Ponte sullo Stretto è l’esatto contrario: la retorica degli annunci roboanti, l’inganno della soluzione facile, la ricerca del consenso immediato, l’ombra del grande intervento che oscura le difficoltà quotidiane di milioni di persone, l’opacità dei processi, gli interessi nascosti. Destinare con queste modalità colossali risorse al suo avvio è l’immagine non di un futuro, ma del difficilissimo presente del nostro Paese.
Una grande questione, che richiede una diversa soluzione. Forse, allora, Schlein e Conte potrebbero pensare di trasferirsi con i loro gruppi parlamentari per un weekend in Sicilia e in Calabria. Per tenere cento e cento assemblee nelle città. Per raccontare come loro utilizzerebbero quelle risorse, per discuterne con i cittadini, per raccogliere suggerimenti, per dar forma e rendere chiara un’offerta politica alternativa, a partire da un esempio molto concreto.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Gennaio 3rd, 2025 Riccardo Fucile
ANTONELLA: “MI SONO TRASFERITA PER TROVARE MIGLIORI OPPORTUNITA’ LAVORATIVE, QUI CI SONO SERVIZI E UN WELFARE CHE SOSTIENE LE FAMIGLIE”
Antonella, classe 1984, è originaria di Isola di Capo Rizzuto (Crotone), ma 14 anni fa si è trasferita a Vienna con il suo attuale marito.
“Sono arrivata definitivamente nel 2010, anche se ero venuta qui a Vienna già l’anno prima per far visita al mio fidanzato che all’epoca studiava all’Accademia Diplomatica con una borsa di studio. – ha raccontato a Fanpage.it – Dopo esserci sposati, abbiamo deciso insieme di intraprendere un percorso lavorativo e di vita qui”.
Ad Antonella abbiamo chiesto di raccontarci la sua storia, i motivi della sua scelta e cosa pensa della capitale austriaca: “È una città internazionale, dinamica, un’incubatrice di energia e idee nuove. I prezzi negli ultimi anni sono aumentati ma ci sono una serie di soluzioni per venire incontro a tutti”
Quando e perché hai deciso di trasferirti a Vienna?
Sono arrivata definitivamente nel 2010, anche se ero venuta qui a Vienna già l’anno prima per far visita al mio fidanzato che all’epoca studiava all’Accademia Diplomatica. Dopo esserci sposati, abbiamo deciso insieme di intraprendere un percorso lavorativo e di vita qui.
All’epoca lavoravo su un progetto a contratto per l’Azienda Ospedaliero Universitaria delle Marche, grazie ai miei studi in Biotecnologie. Tuttavia, ho deciso di lasciare quel posto poiché non mi garantiva un sostentamento adeguato. Non volendo gravare finanziariamente sulla mia famiglia d’origine, ho scelto di prendere questa decisione e lasciare il mio Paese.
Una scelta che è stata proprio legata alle opportunità lavorative perché qui in Italia per tutti e due non si erano aperte delle prospettive davvero valide. Abbiamo sempre avuto la necessità di mantenerci, quando ci siamo incontrati eravamo studenti fuorisede a Pesaro, la città dove ci siamo conosciuti e dove lavoravamo entrambi.
Grazie ai contatti dell’Accademia Diplomatica, mi è stato detto che cercavano dei native speaker che affiancassero i docenti per l’insegnamento dell’italiano come lingua straniera e ho iniziato a presentare domanda per questo ruolo, specifico per le scuole superiori. Così ho iniziato a fare la mia esperienza di insegnamento.
Dopo un anno e mezzo di ‘gavetta’, ho avuto il mio primo contratto. Nel 2012 poi è arrivato il nostro primo figlio e oggi abbiamo tre bambini. All’epoca ero andata un po’ in crisi perché temevo che con la maternità avrei dovuto ricominciare da capo. Invece, mi dissero che potevo rientrare entro 6 mesi, che è il periodo base qui.
Ho sfruttato quel momento anche per formarmi e specializzarmi, ho iniziato a frequentare un master specifico per l’insegnamento dell’italiano come lingua e cultura straniera.
Come mai avete scelto proprio Vienna?
La scelta di Vienna è stata dalle opzioni di studio che ci sono state offerte. Volevamo fare un’esperienza all’estero in una città con molte possibilità lavorative. Eravamo indecisi tra Londra e Vienna, dove mio marito, all’epoca mio fidanzato, aveva ottenuto la borsa di studio alla Diplomatische Akademie.
E io così, in maniera molto pragmatica, mi sono detta: “Londra è troppo cara”, quindi abbiamo scelto Vienna. Sicuramente, alla base della mia scelta, c’è stato anche l’amore. All’epoca avevo fatto da poco il concorso per entrare nell’Arma dei Carabinieri per poter accedere al Reparto Investigazioni Scientifiche( Ris), ma non sarei riuscita a sostenere una relazione a distanza
Antonella e suo marito in una foto che li ritrae insieme al Charity Ball alla Diplomatische Akademie Wien nel 2010, il nostro primo anno insieme a Vienna.
Antonella e suo marito in una foto che li ritrae insieme al Charity Ball alla Diplomatische Akademie Wien nel 2010, il nostro primo anno insieme a Vienna.
Mio marito dopo la laurea in Scienze Politiche e Relazioni internazionali voleva intraprendere una carriera diplomatica in ambito internazionale, per l’appunto. Attualmente lavora a Vienna per un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite che si occupa dello sviluppo industriale sostenibile.
Da settembre io ho un contratto presso il Ministero della Difesa austriaco, lavoro nel dipartimento dell’Accademia statale di difesa delle forze armate austriache, precisamente nell’Istituto linguistico.
Questo fornisce le competenze necessarie per la cooperazione internazionale, gli incarichi all’estero e i compiti diplomatici. Mi occupo dei corsi di formazione linguistica e terminologica per studenti adulti e anche degli esami di italiano per la certificazione.
Cosa ti piace di Vienna e cosa invece non ti piace dopo tanti anni che vivi lì?
A Vienna c’è un’ottima qualità della vita e lo si vede quotidianamente. I servizi ci sono e c’è un welfare che sostiene le famiglie. Abbiamo tre bambini, qui non ci sono i nostri genitori e ci affidiamo a baby sitter in maniera molto sporadica, ma ce la caviamo benissimo solo noi due.
Mi piace tantissimo il sostegno alle famiglie e il supporto che c’è per le donne dopo la gravidanza, c’è davvero una particolare attenzione a questo. Certo, non è che sia tutto rose e fiori. Per esempio, anche qui per il contratto a tempo indeterminato ci vogliono anni di lavoro in un’azienda, ma hanno più tipologie di contratti e più elasticità per i liberi professionisti.
Sicuramente qui soffro il tempo uggioso, il clima, se vogliamo dire una cosa forse un scontata, perché gli inverni sono lunghi e freddi e mi manca spesso il mare. Ma devo proprio sforzarmi per trovare qualcosa che non mi piace di Vienna.
Offre davvero tanto come città da un punto di vista culturale e di iniziative. In giornate con il brutto tempo, per esempio, ci si può rifugiare in uno dei tanti Musei o nelle numerose biblioteche comunali.
E, in più, è una città accessibile a tutti. I primi tempi temevo che non mi sarei mai potuta permettere di andare all’Opera o a teatro, invece si può accedere con biglietti scontatissimi per gli studenti o le famiglie. Un altro esempio: i bambini fino a 6 anni viaggiano gratuitamente con i mezzi pubblici.
Questo regolamento viene applicato anche la domenica e nei giorni festivi per studenti di qualsiasi scuola austriaca fino all’età di 24 anni, basta esibire una tessera dello studente. Ci sono tutta una serie di accortezze che da anni il Comune promuove.
Parlavi già tedesco prima di arrivare?
No, assolutamente no, sapevo davvero solo qualche parola. All’inizio è stato un po’ uno shock, ma ho avuto la possibilità di immergermi nella lingua e ho iniziato a seguire un corso dopo pochi mesi che ero a Vienna.
Sono arrivata qui quando avevo 27 anni, ora ne ho 40 e continuo a imparare. Perché è sicuramente una lingua molto complessa, ha una struttura molto differente dall’italiano, che non lascia molta possibilità d’errore. Però, anche in questo caso, alcuni corsi, se vengono fatti attraverso le aziende, sono gratuiti e per gli studenti hanno prezzi agevolati.
Molti si chiedono se è importante parlare il tedesco a Vienna. Io posso dire che dipende da cosa una persona fa. In un ambiente lavorativo internazionale, per esempio, si comunica in inglese. Ma per vivere, godersi le opportunità che la città offre, integrarsi meglio, serve. Per questo sono stata convinta fin da subito della scelta di studiare il tedesco.
Come ti trovi con il cibo?
Rispetto a 10 anni fa le cose sono molto cambiate. Oggi si trova di tutto, ci sono anche tanti ristoranti italiani. Quindi, non posso dirti che sento la mancanza del cibo italiano. Mangiamo molto internazionale. Anche la cucina austriaca è gustosa, ci sono tanti ortaggi alla base ed è molto variegata.
Poi, per me che sono un’appassionata dei mercati, Vienna è perfetta: ogni quartiere ne ha uno e ci sono prodotti locali e internazionali. Così possiamo continuare a seguire la dieta mediterranea anche qui. I sapori non sono stati uno shock, a differenza della lingua che mi ha fatto fare sicuramente qualche pianto. In più, hanno una pasticceria eccezionale!
Come sono i viennesi?
Noi abbiamo contatti internazionali, conosciamo persone da tutto il mondo perché Vienna è così. Per scelta abbiamo deciso di vivere nel quartiere più multiculturale che c’è, il decimo.
I viennesi sono spesso persone eleganti, colte e culturalmente stimolanti, che amano tantissimo l’Opera lirica e l’arte in generale. Frequentano musei e teatri, ma non perdono occasione di fare attività all’aria apert
Nel mio lavoro ho avuto la fortuna di conoscere persone che non erano mai solo ‘clienti’, sono diventate anche buoni amici. Una cosa che accomuna chi vive qui è questa straordinaria curiosità per le culture e le lingue straniere, che li rende inevitabilmente aperti, gentili e molto generosi.
È vero che tanti si lamentano molto, gli austriaci stessi dicono di essere un po’ ‘scorbutici’, ma è perché sono abitati ad avere tutto, a una vita dove ogni cosa è funzionale. Anche i miei figli che sono cresciuti qui hanno assunto un po’ quest’attitudine.
Che cosa ti manca dell’Italia? Hai mai pensato di tornare o hai guardato alla tua scelta con rimpianto?
No, nessun rimpianto, però l’Italia mi manca tanto, sarei ipocrita se dicessi il contrario, e cerco di tornare spesso. E anche nel mio lavoro qui provo a metterci un po’ della mia italianità.
Mi sono occupata di progetti Erasmus+ per adulti e ho seguito progetti di vacanze studio dove accompagnavo studenti nel nostro Paese, cercando di proporre posti meno conosciuti. Mi manca tanto il mare e sono molto legata ai miei ricordi da bambina.
A chi consiglieresti una città come Vienna?
Sai che è una città che si presta un po’ a tutti? La si può vivere da lavoratore, ma anche da studente giovane se si ottiene una borsa di studio, come abbiamo fatto noi, o l’aiuto della famiglia per i primi mesi. Vienna è comunque una città cara, anche a causa dell’inflazione. I prezzi negli ultimi anni sono aumentati tantissimo.
Un giovane che arriva oggi trova una città sicuramente meno accessibile rispetto a quella che abbiamo trovato noi, ma Vienna è senza dubbio una città internazionale, dinamica, un’incubatrice di energia e idee nuove. Ci sono molte soluzioni, come gli studentati, e tanti progetti europei finanziati dalle università.
È una città ideale anche per le famiglie come noi, che abbiamo tre bambini e siamo una coppia ancora relativamente giovane. Per la mobilità, le piste ciclabili, i parchi, le scuole che funzionano e restano aperte fino alle 18 per i genitori che non possono permettersi di avere una baby sitter.
In conclusione, Vienna per me rimane sempre una città accogliente e vivace, capace di soddisfare le esigenze di chiunque decida di chiamarla ‘casa’.
(da Fanpage)
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Gennaio 3rd, 2025 Riccardo Fucile
A COMPLICARE LE TRATTATIVE CON WASHINGTON C’È IL PRECEDENTE DI ARTEM USS, CHE GLI USA VOLEVANO E INVECE E’ SCAPPATO
Italia e Iran si stanno parlando. È un dialogo continuo, fatto in superficie di note
ufficiali e comunicati, e nei canali più sotterranei di diplomazia e intelligence. Quelli che si sono aperti subito, il 19 dicembre, giorno dell’arresto di Cecilia Sala. Il confronto è schietto, ma intessuto di codici e segnali reciproci.
È Giorgia Meloni, e sotto di lei, Carlo Nordio, ad avere il potere di far uscire Cecilia Sala dal freddo del carcere di Evin, darle un letto, e il caldo di una stanza sicura. È il primo obiettivo a cui lavora il governo. Ma per arrivare a questo esito, la presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia devono compiere una scelta su un altro detenuto, Mohammad Abedini Najafabadi, che è in stato di detenzione cautelare su richiesta degli Stati Uniti.
L’ingegnere iraniano, che ha anche la cittadinanza svizzera, è stato arrestato il 16 dicembre a Milano, accusato dagli americani di aver fornito tecnologia sotto embargo negli Usa per i droni delle Guardie rivoluzionarie, inseriti nella black list dei gruppi terroristici.
La scelta è tra estradare Abedini o dare un dispiacere a Washington, accettando lo scambio con Sala, secondo le regole imposte da Teheran che ha trasformato la giornalista nella pedina di un gioco internazionale.
Il governo e i servizi segreti stanno predisponendo un piano, che è suscettibile di aggiustamenti in corso, a seconda delle variabili più prevedibili. Secondo quanto riferiscono fonti di primo piano dell’esecutivo, l’orizzonte della trattativa è di circa due mesi.
In questo arco temporale devono succedere alcune cose precise: il compromesso proposto agli iraniani è di non consegnare Abedini agli Usa, ma senza farlo tornare in Iran, cosa che farebbe imbufalire gli americani. In cambio il governo chiede la liberazione o quantomeno di trasferire Sala nell’ambasciata italiana di Teheran, ai domiciliari.
I segnali, si diceva: sono arrivati chiari ieri, in una nota di Palazzo Chigi, al termine di un vertice riunito da Meloni. Per la prima volta il caso Sala e il caso Abedini sono stati messi in collegamento, nero su bianco in un comunicato dove si precisa che per l’ingegnere sarà «garantita parità di trattamento nel rispetto delle leggi italiane e delle convenzioni internazionali».
Il tempo è il fattore che in questo momento più inquieta il governo Meloni, soffocato nella stretta tra il ricatto iraniano e la richiesta del Dipartimento di Giustizia americano. Quello che emerge della strategia italiana è la volontà di accelerare il più possibile per tentare di uscire dallo stallo prima che Donald Trump entri nei pieni poteri di presidente americano e cambi i vertici dell’intelligence.
A quel punto i servizi segreti italiani si potrebbero trovare di fronte qualcuno che non conoscono, interlocutori che sarà più complicato scontentare, perché potenzialmente in carica per altri quattro anni, mentre farlo con gli uomini dell’amministrazione di Joe Biden, che è ormai agli sgoccioli, è un rischio che Meloni sente di poter correre.
L’intelligence di Roma ha parlato apertamente ai colleghi di Washington di un precedente: l’8 dicembre 2022 la cestista Brittney Griner è stata rilasciata da una prigione russa in uno scambio di prigionieri con il trafficante di armi Viktor Bout, detenuto negli Stati Uniti. Secondo il governo, gli americani non possono impedire di tutelare in ogni modo la salute di una cittadina italiana di 29 anni, buttata in una cella senza nessun conforto.
Al ministero della Giustizia sanno che Nordio avrebbe un paio di leve per risolvere la faccenda: revocare la misura cautelare ad Abedini o non firmare l’estradizione. L’intima speranza del Guardasigilli, come del resto dell’esecutivo, è che non si arrivi a questo: la scommessa è che i magistrati milanesi della Corte d’Appello non siano conseguenti con la procura generale che ieri ha dato parere negativo alla richiesta dei domiciliari.
Ma c’è un altro precedente che complica il quadro: la fuga di Artem Uss, figlio di un’oligarca russo, scappato dai domiciliari mentre pendeva su di lui la richiesta di estradizione in Usa, e la potente irritazione americana che portò Nordio a scaricare la responsabilità sui magistrati. Un trattamento che le toghe milanesi hanno bene in mente in queste ore in cui si decide sulla probabilità di aumentare il pericolo di fuga di Abedini, in caso di trasferimento in una sede consolare garantita dall’Iran.
La priorità assoluta è portare Cecilia fuori dal carcere, evitando di irrigidire un regime indebolito dalla reazione di Israele che ha falciato i suoi proxy in Libano, e dalla caduta dell’alleato Assad in Siria. I rapporti degli 007 che sono arrivati sul tavolo di palazzo Chigi, ad Alfredo Mantovano, che è l’autorità delegata, segnalano rischi potenziali per circa 500 italiani attualmente in Iran. In una società non democratica, priva di uno stato di diritto, gli arresti possono anche non avere una ragione, come nel caso di Sala.
Oppure si possono basare sul capriccio ideologico. Come è stato candidamente riferito al governo: che Sala era seguita dal ministero della Cultura iraniano, infastidito da due servizi realizzati per Chora, poi postati sui suoi profili social. Uno su Diba, 21 anni, donna che sfida la teocrazia della guida suprema Ali Khamenei con i suoi capelli corti e rosso fuoco. L’altro sulla stand up comedian Zeinab Musavi: «Lei fa così ridere che le hanno tolto Instagram» è il titolo del podcast di Cecilia. L’ultimo, datato 18 dicembre, il giorno prima dell’arresto.
(da La Stampa)
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Gennaio 3rd, 2025 Riccardo Fucile
NORDIO E MANTOVANO PUNTANO SU UN APPIGLIO TECNICO: L’INGEGNERE DEI DRONI È ACCUSATO DI AVER FIANCHEGGIATO “IL CORPO DELLE GUARDIE DELLA RIVOLUZIONE ISLAMICA”, CHE L’ITALIA E L’UE NON CONSIDERANO UN’ORGANIZZAZIONE TERRORISTICA (A DIFFERENZA DEGLI USA)
Tre partite. In una. La liberazione di Cecilia Sala si sta giocando in questo momento su tre tavoli diversi del governo, tutti però sotto gli occhi del sottosegretario, e autorità delegata, Alfredo Mantovano. C’è la partita nelle mani della diplomazia e, più precisamente, dell’intelligence: sono i quadri di Dis e Aise a tenere i contatti, in un quadro reso ancora più complicato dalle divisioni interne, con il governo iraniano per pretendere il «principio di reciprocità» in quello che è ormai, nessuno più ne fa nemmeno un mistero lessicale, una trattativa per la liberazione di un ostaggio. Perché Cecilia Sala è un ostaggio.
C’è poi il nodo del rapporto con gli Stati Uniti, che in questa storia non sono uno spettatore terzo: di questo si è occupata, e ancora di più lo farà nelle prossime ore, direttamente la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sfruttando i suoi buoni rapporti con Washington e anche il momento favorevole del cambio di amministrazione tra Biden e Trump.
C’è poi un terzo tavolo, quello della giustizia. E passa per il rapporto del governo con la magistratura. E dalla possibilità che il ministro Carlo Nordio ha di agire da solo e di liberare Mohammad Abedini Najafabadi. Sfruttando, come ha spiegato Repubblica nei giorni scorsi, un articolo del codice di procedura penale, il 718, che al comma 2 prevede che, in caso di arresto con richiesta di estradizione, «la revoca è sempre disposta se il ministro della Giustizia ne fa richiesta». Significa che se oggi Nordio lo chiedesse, Abedini Najafabadi sarebbe libero.
In queste ore gli uffici hanno studiato e spiegato come esistono alcuni precedenti (quello recente dell’ingegnere informatico Hernè Falciani, arrestato a Malpensa e rilasciato su richiesta del ministero o quello del regista ucraino Yeven Eugene Lavrenchuk, arrestato a Napoli su richiesta russa e poi liberato sempre su ordine del governo).
E anche degli appigli da un punto di vista tecnico. Abedini Najafabadi è infatti accusato di aver fiancheggiato «il Corpo delle guardie della Rivoluzione islamica, l’Irgc», si legge negli atti americani inviati al ministero della Giustizia Usa che non hanno ancora formalizzato la richiesta di estradizione: si aspettano i documenti nei prossimi giorni, hanno comunque tempo fino alla fine del mese, «costruendo i sistemi di navigazione dei droni Shahed, che vengono utilizzati per attacchi terroristici in tutto il mondo. Inclusa la guerra della Russia in Ucraina».
Il punto però non è questo. Ma che l’Irgc, il corpo delle guardie della rivoluzione islamica, è considerato sì dagli Stati Uniti dal 2019 come un’organizzazione terroristica. Ma non dall’Italia. Né tanto meno dall’Unione europea (lo è soltanto in Svezia) che non lo ha mai inserito nella black list. «Può l’Italia estradare un signore accusato di essere affiliato a un’organizzazione che per noi non è terroristica?» è la domanda che più volte è stata ripetuta in queste ore ai tavoli.
Dove pure è stato fatto notare come Abedini Najafabadi rischi l’ergastolo, se estradato, con condizioni «inumane e degradanti» che non sarebbero compatibili con le norme della nostra estradizione. Anche per questo il governo era convinto di trovare una sponda nei giudici milanesi con la concessione dei domiciliari. Ieri è arrivato però il parere negativo del procuratore generale, inatteso almeno secondo la politica.
«Spetta alla magistratura decidere sui domiciliari» ha detto non a caso ieri Tajani. Dimenticando però due cose: che proprio i magistrati che decisero per i domiciliari per un caso simile, quello del presunto trafficante di armi russo Artem Uss, arrestato su ordine degli Usa e poi fuggito mentre era in detenzione, sono finiti sotto procedimento disciplinare (poi assolti dal Csm).
E che l’articolo 718 dà direttamente al governo la possibilità di liberare l’iraniano. Serve soltanto una nuova istanza, visto che in un primo momento il ministero aveva dato il via libera al fermo. E soprattutto la volontà politica di non fare quello che un alleato come gli Stati Uniti ci ha chiesto con forza. Gran parte della partita si gioca qui.
(da la Repubblica)
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Gennaio 3rd, 2025 Riccardo Fucile
“UNA CONDOTTA IN ASSOLUTO SPREGIO DELLE PRESCRIZIONI E DEI DOVERI IMPOSTIGLI”… DOCUMENTAZIONI FALSE PER LAVORI INESISTENTI PER GIUSTIFICARE L’ALLONTAMENTO DAL LAZIO IN 26 CASI
L’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno ha dimostrato una totale assenza di adesione al
processo rieducativo al quale era sottoposto. Ad esserne convinto è il magistrato di Sorveglianza: “Sono venute meno le condizioni minime per la prosecuzione della misura alternativa: ha dimostrato totale spregio dell’importanza della possibilità offertagli – si legge nell’ordinanza – Del tutto sprezzante rispetto all’esecuzione della condanna in misura alternativa, palesando evidente irresponsabilità”.
Il magistrato di Sorveglianza ha definito il comportamento dell’ex sindaco “una condotta in assoluto spregio delle prescrizioni e dei doveri impostigli”. E lo ha definito: “Una personalità spregiudicata, callida, irresponsabile e incapace di comprendere l’importanza del beneficio concessogli durante l’esecuzione della condanna”.
Alemanno si trova nel carcere di Rebibbia dalla notte di Capodanno 2025, dopo una “gravissima e reiterata violazione delle prescrizioni imposte”, in quanto avrebbe dovuto svolgere attività presso la struttura ‘Solidarietà e Speranza’ dedicata alle famiglie in difficoltà e di vittime di violenze. Dal 27 novembre 2023 gli era infatti stata concessa una misura alternativa, ora sospesa, dopo il processo ‘Mondo di Mezzo’, che lo ha visto condannato in via definitiva a 1 anno e 10 mesi per l’accusa di traffico d’influenze.
Le violazioni contestate ad Alemanno sono emerse dagli accertamenti fatti dal Nucleo speciale di polizia valutaria della guardia di finanza, nell’ambito di una nuova indagine per reati fiscali.
Come riporta AdnKronos l’ultimo episodio contestato a Giovanni Alemanno presente nell’ordinanza, che ha sospeso la misura dell’affidamento in prova ai servizi sociali risale ad ottobre del 2024, quando lo smartphone è stato localizzato “al di fuori della Regione Lazio, a Tavagnacco, in provincia di Udine”.
In quell’occasione per gli investigatori avrebbe violato le disposizioni, “non facendo rientro al proprio domicilio”. Avrebbe presentato una documentazione falsa, per giustificare impegni lavorativi, in realtà insesistenti, ed evitare i servizi sociali. Gli è contestata la violazione delle prescrizioni imposte “in occasione di 26 spostamenti, avvenuti quasi sempre fuori dalla Regione Lazio nel corso del 2024 per impegni vari”. In realtà prendeva parte ad incontri in tutta Italia del suo ‘Movimento Indipendenza’.
(da Fanpage)
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Gennaio 3rd, 2025 Riccardo Fucile
IL CRITICO ALDO GRASSO DEMOLISCE IL CONCERTO DI CAPODANNO DI RAI3 “VIVA PUCCINI”, CHE AVEVA COME PROTAGONISTA BEATRICE VENEZI: “NON ERA UN PROGRAMMA SU PUCCINI, MA SULLA VENEZI, CHE QUANDO DIRIGE SI AGITA E FA LE FACCETTE COME LA NOSTRA PREMIER. TELECAMERE SEMPRE PUNTATE SU DI LEI, PRIMI PIANI, CELEBRAZIONE INDISCRIMINATA DEL PIACERE ESTETICO”
Sulle reti Rai, il primo giorno del nuovo anno ci ha regalato ben tre concerti di musica classica. Vorrà dire qualcosa? Su Rai1, dal Teatro La Fenice di Venezia il Concerto di Capodanno diretto da Daniel Harding, con tre brani corali di grandissima presa: «Va, pensiero» dal Nabucco di Verdi, «Padre augusto» dalla Turandot di Puccini e l’immancabile brindisi «Libiam ne’ lieti calici» di nuovo dalla Traviata (c’era anche l’ormai inevitabile «Nessun dorma»).
Su Rai2 il Concerto di Capodanno da Vienna con i Wiener Philharmoniker diretti da Riccardo Muti (applauditissimo), sempre nella cornice della Sala d’Oro del Musikverein, sempre con La marcia di Radetzky a chiudere la festa
Infine, su Rai3, «Viva Puccini», un programma ideato da Angelo Bozzolini per il maestro Beatrice Venezi (cuore a sinistra, bacchetta a destra, di necessità si fa tivù). La folgorante idea è quella di avvicinare la musica del grande maestro al pubblico televisivo, prendendo un po’ a prestito quello che facevano Corrado Augias (malamente imitato all’inizio per prevenire critiche) e Speranza Scappucci.
Ma al contrario: non è il pubblico che deve innalzarsi a Puccini, ma Puccini che deve abbassarsi al pubblico meno attrezzato e dunque grande spreco di «Puccini moderno, Puccini amante del bello, Puccini pieno di fragilità, Puccini pop…». E poi Bianca Guaccero a condurre, Gianmarco Tognazzi nelle vesti di Puccini (che era un po’ come suo padre, dice lui), Enrico Stinchelli a spiegare (dalla «Barcaccia» a «Fin che la barca va»), Giordano Bruno Guerri a fare l’ospite d’onore, come ora fa in tutti i programmi.
Kitsch, Kitsch, Urrà! In realtà non era un programma su Puccini, ma su Beatrice Venezi che quando dirige si agita e fa le faccette come la nostra premier. Telecamere sempre puntate su di lei, primi piani, celebrazione indiscriminata del piacere estetico a detrimento della fattura materiale dell’oggetto artistico. Anche qui, per la gioia del maestro Muti, ennesima proposta del «Nessun dorma», a dimostrazione che a passare dal pop al kitsch ci vuole niente.
(da Corriere della Sera)
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