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FRATELLI D’ITALIA NON SI SCOMPONE PER LE PAROLE DI ZAIA SUL TERZO MANDATO: “IN VENETO SI SCEGLIERA’ IL CADIDATO MIGLIORE”

Gennaio 14th, 2025 Riccardo Fucile

“SPIACE CHE ZAIA PERSONALIZZI, QUELLA NORMA ESISTE DA TEMPO”

«Spiace che il presidente Zaia abbia oggi personalizzato il tema del terzo mandato. La norma che lo disciplina esiste da tempo e non riguarda singoli casi specifici. Non è mai una buona idea adeguare le leggi alle esigenze contingenti. Riguardo la scelta del futuro candidato alle elezioni regionali del Veneto siamo sicuri che il centrodestra si farà trovare pronto all’appuntamento scegliendo, come è accaduto in passato, il miglior profilo in grado di rappresentare i veneti, tenendo anche conto del consenso che le diverse forze politiche raccolgono tra i cittadini». Queste le parole del senatore di Fratelli d’Italia, Luca De Carlo, coordinatore regionale in Veneto, in merito alle dichiarazioni del governatore del Veneto, Luca Zaia. Zaia oggi sul terzo mandato ha dichiarato: «Se ci fosse lo sblocco dei mandati è ovvio che mi ricandiderei, darei risposta ai tanti cittadini che mi chiedono di farlo». «Io non sto facendo alcuna battaglia sul terzo mandato – precisa -, ma l’aspetto più importante è quello dei veneti. Non ci siamo mai trovati di fronte a una chiamata del popolo come questa. E nessuno risponde al popolo».
Molinari (Lega): «Vogliamo che Zaia continui, se non cambia la norma serve decidere quale partito indicherà il candidato»
E il partito del governatore la Lega come sta reagendo alle dichiarazioni? Mentre il ministro e vicepremier Matteo Salvini tace a parlare per il Carroccio è il capogruppo a Montecitorio, Riccardo Molinari. «Sul terzo mandato la posizione della Lega è nota, anche perché abbiamo fatto delle proposte sia di legge che emendative per togliere il limite dei due mandati. Noi riteniamo che sindaci e governatori, che sono apprezzati dai cittadini, non debbano avere un limite. Sappiamo che i nostri alleati hanno una posizione diversa e l’hanno manifestato in tutti i modi. Allora si porrà un tema politico su quale partito del centrodestra dovrà indicare il presidente del Veneto. Questo è il tema se non ci sarà il terzo mandato», ha dichiarato. «Chiaro – aggiunge – che noi vorremmo che Luca Zaia potesse continuare. Se non si cambierà la norma bisognerà capire quale partito dovrà indicare il presidente del Veneto. La posizione della Lega è che in una coalizione bisogna tenere conto non soltanto dei voti, ma anche delle specificità dei partiti». In soldoni «la Lega è il partito dell’autonomia, noi abbiamo voluto questa riforma, le Regioni che hanno chiesto l’autonomia sono principalmente le Regioni del Nord, e quindi in una logica di coalizione forse gli alleati dovrebbero capire che lo spazio della Lega andrebbe tenuto, in qualche modo, in maggiore considerazione».
Calenda: «Sta per scoppiare il bubbone Zaia»
Secondo il leader di Azione Carlo Calenda sta per »scoppiare il bubbone Zaia». »Non so come Zaia riesca a interloquire con Salvini. Salvini non può non sposare la linea di Zaia, a questo punto è in gran casini. Io credo che alla fine si accoderà e si aprirà un problema dentro il governo», ha dichiarato oggi il senatore ospite a Tagadà, su La7.

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ZAIA SCATENATO: “FRATELLI D’ITALIA VUOLE IL VENETO? BENE, MA LE NOSTRE STRADE SI SEPARANO”

Gennaio 14th, 2025 Riccardo Fucile

POI L’ATTACCO A MELONI: “NEINETE LEZIONI DA CHI DA 30 ANNI E’ IN PARLAMENTO”

Il governatore del Veneto, Luca Zaia, non ha intenzione di tenere ancora per se le sue opinioni sullo scontro che riguarda il terzo mandato (e, nelle more, anche il pressing per non rimandare le regionali al 2026, come invece chiede lui). A margine di una conferenza dedicata alla Sanità veneta, dice forte e chiaro: «Se ci fosse lo sblocco dei mandati è ovvio che mi ricandiderei, darei risposta ai tanti cittadini che mi chiedono di farlo». Non si definisce in guerra, ma sa bene che i suoi elettori lo seguono: «Io non sto facendo alcuna battaglia sul terzo mandato – precisa -, ma l’aspetto più importante è quello dei veneti. Non ci siamo mai trovati di fronte a una chiamata del popolo come questa. E nessuno risponde al popolo».
La frecciata a Meloni
La questione del terzo mandato «è un’anomalia tutta nostra», dice ancora. «Io non perdo i sonni, ma è inaccettabile dire che si blocchino dei mandati a amministratori eletti direttamente dal popolo altrimenti si creano centri di potere. Ed è stucchevole che la lezione venga da bocche che da 30 anni sono sfamate dal Parlamento». Riferimento neppure troppo velato alle considerazioni fatte dalla premier, Giorgia Meloni, durante la conferenza stampa di inizio anno, circa la necessità di limiti ai mandati dei presidenti di regione: «La Lega viene dopo i cittadini ma prima del centrodestra. Io sono a disposizione della Lega in qualsiasi progetto», dice ancora lui. E sulle aspirazioni di Fratelli d’Italia, anche queste ribadite da Meloni e non solo, va giù durissimo: «È legittimo ma allora, se ci diranno che non abbiamo amministrato bene, le strade si separano».
Le tempistiche di una eventuale riforma
I tempi per intervenire ci sarebbero ancora, dice, anche se sa bene che le aperture politiche non ci sono. E qui si inserisce l’ultimo schiaffo arrivato sempre dagli alleati: davanti alla proposta di rimandare le regionali al 2026, permettendo a lui di inaugurare le Olimpiadi di Cortina, che Zaia considera un successo anche personale, c’è stata una sprezzante chiusura, sebbene le comunali siano state invece rinviate già con un decreto ministeriale di Matteo Piantedosi: «Penso – ha proseguito Zaia – che ci siano i tempi per fare ragionamenti, ma io non sono nella stanza dei bottoni, non ho mai partecipato a riunioni. Se prima vengono i veneti, è giusto che non abbiano nulla di calato dall’alto. È necessario rispettare i veneti».
(da agenzie)

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LE CARCERI ITALIANE COME I NEGOZI DI ELETTRONICA: SONO PIENE DI TELEFONINI E DROGA. NEI RITAGLI DI TEMPO DEDICATO A FARE LA GUERRA AI MAGISTRATI, IL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA POTREBBE DEDICARSI ANCHE A QUESTO PROBLEMA?

Gennaio 14th, 2025 Riccardo Fucile

A NAPOLI, I CANI-POLIZIOTTO HANNO TROVATO DROGA E CELLULARI NASCOSTI NELLE CELLE DEL CARCERE DI POGGIOREALE

Ingenti quantitativi di sostanza stupefacente, nascosti nelle camere di pernottamento di vari reparti e cinque micro cellulari sono stati sequestrati nel carcere di Poggioreale, a Napoli, grazie al fiuto dei cani-poliziotto del distaccamento cinofili antidroga di Avellino. Spike e Masaniello, questi i nomi dei due cani, sono entrati in azione con il loro fiuto sabato scorso, nei reparti detentivi della casa circondariale partenopea.
“I cani del distaccamento cinofilo di Avellino – commentano Giuseppe Moretti, presidente dell’Uspp e il segretario regionale dello stesso sindacato di polizia penitenziaria Ciro Auricchio – sono diventati un incubo per gli spacciatori. Il nostro apprezzamento va al personale di polizia penitenziaria del carcere di Poggioreale per le attività finalizzate a contrastare l’introduzione di droga e cellulari in carcere”. “La polizia penitenziaria, nonostante sia sotto organico nel carcere di Poggioreale, riesce comunque a garantire l’ordine e la sicurezza interna”, concludono i due sindacalisti.
(da agenzie)

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ALITALIA, QUANTO CI E’ COSTATA L’INCAPACITA’ DI MANAGER E POLITICI: I CONTI DEL DUEMILA

Gennaio 14th, 2025 Riccardo Fucile

L’INCHIESTA DEL “CORRIERE DELLA SERA”

È il 5 maggio del 1947 e dalla pista lunga dell’aeroporto di Torino decolla un Fiat G.12 scampato alla guerra. Ai comandi c’è il colonnello Virginio Rainero, chiamato a trasportare – in un paio d’ore – 18 passeggeri da Torino a Roma. Si inaugura così Alitalia. Da quel primissimo volo commerciale sono passati 78 anni e 67 governi. E quando le cose hanno cominciato a mettersi davvero male, tutto quello che ricordiamo sono gli slogan: «Io amo l’Italia e volo Alitalia» (Berlusconi); «Il decollo di Alitalia è il decollo dell’Italia» (Renzi). L’ordine politico era di tenere «in casa» la compagnia di bandiera. Che ora finisce nelle stesse mani tedesche che l’avrebbero voluta già 17 anni fa. Ma quanto c’è costata l’incapacità politica e manageriale in nome dell’orgoglio nazionale? Il Centro ricerca di economia industriale dell’Università Bicocca ha analizzato per Dataroom tutti i bilanci dal Dopoguerra in avanti, oltre ai contributi, alla cassa integrazione, ai prestiti mai restituiti, aggiornando le cifre ai valori attuali. Salta fuori che tenerci stretta la compagnia di bandiera è costato agli italiani quasi come l’intera manovra 2025, o due ponti sullo Stretto, quattro Mose, undici Salerno-Reggio Calabria.
Gli anni d’oro e le prime difficoltà
La storia era partita proprio bene. Per i primi vent’anni, Alitalia va alla grande: nel ’69 ha in pancia utili per 635 milioni di euro attuali, vale a dire 16 miliardi di lire dell’epoca. Un tesoretto che però si esaurisce con la crisi petrolifera del 1973. Negli anni Ottanta i bilanci tornano in attivo e ci restano fino al 1988, poi cominciano a peggiorare, ma non per cattiva gestione: nel 1992 – l’anno della crisi valutaria – Alitalia accumula perdite per 1,5 miliardi, quasi tutte sulle spalle dell’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale che controlla la compagnia di bandiera. Intanto il mondo del trasporto aereo sta cambiando: nel ’97 l’Ue liberalizza anche i voli domestici e sbarcano le prime low cost. Per battere la loro concorrenza bisogna puntare sul lungo raggio, che significa trovare finanziamenti dai privati per l’acquisto di nuovi aerei. Le principali compagnie europee – fino a quel momento quasi tutte in mano ai rispettivi Stati – corrono a quotarsi in Borsa. Alitalia resta saldamente sotto il controllo pubblico e nel 1999 salta pure il confuso tentativo di integrazione con gli olandesi di Klm (durato 9 mesi). Tirando le somme, il millennio si chiude con perdite complessive a quota 2,5 miliardi.
Dall’Iri al Mef
Negli anni Novanta l’Iri è in affanno e accumula enormi debiti legati soprattutto alla crisi delle aziende siderurgiche. L’Europa spinge perché lo Stato venda le partecipazioni e alla fine l’Istituto finisce in liquidazione. Nel 2000 Alitalia passa sotto il controllo del ministero dell’Economia, che dovrebbe trovare altri operatori per rimpinguare la cassa e avviare un nuovo piano operativo. Invece si ritrova a gestirla direttamente per otto anni. Per il Centro ricerca della Bicocca, è questo il punto di svolta: «Da qui in avanti i bilanci iniziano a precipitare – spiega il prof Ugo Arrigo – probabilmente perché ancora non si espande né si rinnova la flotta per far fronte alla crescita del mercato, ma soprattutto perché il Mef, a differenza dell’Iri, non era strutturato per governare grandi aziende».
Le altre compagnie si fondono fino a diventare dei colossi dell’aviazione: Klm con Air France, British Airways con Iberia, Lufthansa incorpora Swiss, Austrian e poi Brussels Airlines. Noi invece chiamiamo a risanare l’azienda i boiardi di Stato: difficile scordare i 3 anni di pessima gestione dell’allora presidente e amministratore delegato Giancarlo Cimoli. Sta di fatto che dal 2000 al 2008 Alitalia perde altri 7,2 miliardi di euro, per il 60% sulle spalle dell’azionista pubblico. Si apre la fase del commissariamento e della liquidazione, che ci costa un patrimonio: 300 milioni di prestito-ponte mai restituito, 447 di obbligazioni dello Stato che vanno in fumo, un ulteriore miliardo di passività emerse, e poi ci sono le obbligazioni dei privati rimborsate dallo Stato, la cassa integrazione… In totale si bruciano 5,4 miliardi: 4,1 di soldi pubblici; 1,3 miliardi a carico dei creditori di Alitalia che non vengono rimborsati. A quel punto una fusione pare inevitabile.
Dal 2009 al 2017: l’Alitalia privata
Sono mesi di trattative serrate. Quelle alla luce del sole con Air France, dove è l’ostilità dei sindacati a far saltare il banco. E quelle sottotraccia con Lufthansa. La scena è gustosa: 26 maggio 2008, a Villa Almone, residenza privata dell’ambasciatore tedesco Michael Steiner, si incontrano Gianni Letta, Roberto Colaninno e un top manager della Compagnia tedesca. Lufthansa vorrebbe una bancarotta pilotata: per una manciata di soldi si accollerebbe tutto, buono e cattivo, debiti e personale. «Ma loro non l’accetteranno – confiderà Steiner – perché Berlusconi ha promesso che avrebbe trovato la cordata italiana, e ci perderebbe la faccia».
Infatti Berlusconi chiama a raccolta i Capitani coraggiosi guidati proprio da Colaninno, e nel 2009 nasce la privatizzata Alitalia Cai. La fusione con Air-One sarà più un affare per il Gruppo Toto che per la nascente Compagnia, che non decolla: manca un vero piano di investimenti sul lungo raggio, mentre sul mercato domestico spopolano le low cost e sulla tratta Milano-Roma arriva la concorrenza dei treni ad alta velocità. In cinque anni si sommano perdite per 2,8 miliardi. Nel 2015 esce Cai ed entra Etihad Airways. La Compagnia araba annuncia finalmente l’intenzione di investire sul lungo raggio mettendo a disposizione i propri aerei, ma poi non lo fa e in tre anni accumulano 2 miliardi di perdite. Affari loro? Non del tutto, visto che lo Stato deve provvedere alla cassa integrazione, costo: mezzo miliardo.
Dal fallimento a Ita Airways
Nel 2017 Etihad lascia e si apre un nuovo commissariamento. Il prezzo è di 6,5 miliardi, di cui 3,9 miliardi a carico del pubblico tra prestiti-ponte, sostegni Covid e cassa integrazione; 2,6 miliardi di mancati pagamenti a fornitori e creditori privati. Nel 2021 dalle ceneri di Alitalia nasce «Italia Trasporto Aereo» (detta Ita), interamente partecipata dal Mef: i bilanci fino al 2023 segnano perdite complessive per 700 milioni, tutti pubblici. Ad aprile si conosceranno le perdite del 2024, che secondo gli esperti ammonterebbero a circa 50 milioni.
Il prezzo dell’italianità
«Alitalia – conclude il prof. Arrigo – è stata gestita secondo logiche non di mercato, senza visione strategica né capacità manageriali. Tutto pur di tenere il vettore in mani italiane, sotto controllo politico e anche sindacale». Le cifre del Cesisp: la Compagnia di bandiera è costata al Paese 27,6 miliardi di euro (di cui 25,1 dal Duemila): 16,3 a carico dei contribuenti e 11,3 sulle spalle di azionisti e creditori privati. Vale a dire, quattro volte l’attuale valore di borsa di Lufthansa, la compagnia tedesca prossima a prendersi con 325 milioni il 41% di Ita, e destinata anche a scegliere la catena di comando. E, se lo vorrà, con altri 504 milioni, nel giro di qualche anno, potrà acquisire la totale proprietà.
Milena Gabanelli e Andrea Priante
per il corriere.it

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“SIAMO DELUSI DALLA DECISIONE DI REVOCARE L’ARRESTO DI ABEDINI”: IL DIPARTIMENTO DI GIUSTIZIA AMERICANO ESCE ALLO SCOPERTO E FA TRAPELARE L’IRRITAZIONE PER IL RILASCIO DELL’INGEGNERE-SPIONE IRANIANO

Gennaio 14th, 2025 Riccardo Fucile

LA “MENTE DEI DRONI” ERA UN VERO PEZZO GROSSO: VICINO AI PASDARAN, È STATO MANDATO IN SVIZZERA DAL REGIME, NEL 2019, PER RACIMOLARE COMPONENTI OCCIDENTALI PER I VELIVOLI KILLER DI KHAMENEI, USATI CONTRO ISRAELE E “PRESTATI” AI RUSSI IN UCRAINA

La Repubblica islamica non abbandona i suoi «figli» in difficoltà, tanto più quando sono parte di un network attraverso il quale arma il proprio esercito e i pasdaran. Il messaggio è chiaro, trasmesso fin dai primi passi del regime iraniano. E lo ha ribadito l’operazione montata con l’arresto arbitrario di Cecilia Sala, pedina di scambio per ottenere una figura preziosa: Mohammed Abedini, l’uomo dei droni.
L’ingegnere è stato mandato in missione in Svizzera dove nel 2019 ha aperto una società con un suo connazionale, un socio che doveva fare da schermo per un’attività precisa: procurare la tecnologia necessaria per perfezionare i velivoli senza pilota che Teheran ha fornito alle milizie sciite in tutto il Medio Oriente e poi venduto, con grande successo, alla Russia che li ha subito impiegati contro gli ucraini. L’analisi di esemplari di vario tipo caduti nelle mani di Kiev ha rivelato la presenza di componenti americane, svizzere, giapponesi, canadesi e tedesche.
Un dettaglio che conferma due punti: non sono certo sistemi top secret; rappresentano, però, uno strumento bellico di un arsenale in continua espansione. Lunedì i media iraniani hanno annunciato la consegna di altri mille velivoli, compresi quelli a lungo raggio. Ecco che la rete di emissari della quale faceva parte Abedini è fondamentale per alimentare la filiera, migliorare il prodotto.
Per questo la giustizia Usa era interessata a informazioni per poter «disegnare» la mappa dei collegamenti, dei rapporti, delle scorciatoie usate per aggirare embargo o controlli.
Riportando a casa l’ingegnere gli ayatollah hanno dimostrato ai loro «procacciatori» l’impegno a salvarli nel caso finiscano nei guai mentre sono all’estero. È una polizza di assicurazione e un incentivo ad osare, una doppia carta giocata all’infinito da Teheran contro avversari ma anche Stati che si sono limitati ad applicare la legge mettendo in galera iraniani accusati/sospettati di crimini.
Così hanno organizzato il «bazar degli ostaggi», imitati dai russi e in qualche caso dai nordcoreani, non per nulla alleati sempre più stretti.
A volte in cambio, invece di persone, chiedono concessioni diplomatiche, compensazioni finanziarie o altro che possa avere un valore. In tutto questo non va mai perso di vista l’aspetto «interno», legato ai contrasti tra le fazioni del potere iraniano che possono incidere su alcune mosse. A maggior ragione se ci sono di mezzo i pasdaran.
“Delusi dalla decisione di revocare l’arresto di Mohammad Abedininajafabadi”. Non usa mezzi termini il dipartimento alla Giustizia, in questa dichiarazione concessa a Repubblica, la prima dall’inizio della vicenda di Cecilia Sala.
Washington è irritata con Roma, perché’ il detenuto iraniano ha sangue americano sulle mani, perciò questo contrasto non sembra destinato a sanarsi col passaggio dall’amministrazione Biden a quella di Trump.
“Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti – dice il portavoce a Repubblica – è deluso dalla decisione di revocare l’arresto provvisorio di Mohammad Abedininajafabadi, che ha portato al ritorno di Abedininajafabadi in Iran”.
Quindi aggiunge che gli Usa non rinunciano a portarlo davanti alla giustizia: “Abedininajafabadi resta accusato nel distretto del Massachusetts di aver complottato per procurarsi tecnologia statunitense sensibile da utilizzare nel programma iraniano di attacco letale con droni e di aver fornito supporto materiale alle attività terroristiche del Corpo delle Guardie rivoluzionarie iraniane, attività che hanno provocato la morte di tre militari statunitensi nel gennaio 2024”. Sangue americano, che non può essere dimenticato. Quindi un disappunto tecnico, oltre che politico, destinato a restare anche con l’arrivo di Trump.
Abedini oggi compie 39 anni. Può festeggiare il compleanno in Iran, assieme alla moglie e al figlio: con loro ha trascorso le prime ore di libertà dopo l’udienza-lampo che domenica mattina ha permesso la sua «immediata » scarcerazione dal penitenziario di Opera. Sono bastati una decina di minuti e un paio di pagine per imbarcarlo su un aereo per Teheran
Di lui, in Italia, resta un trolley. Gli americani non hanno ottenuto l’estradizione di Mohammad Abedini Najafabadi, «l’uomo dei droni» e vogliono almeno il contenuto di quella valigia conservata in una cassaforte della procura di Milano. In attesa — è una delle ipotesi — di una rogatoria degli Usa. Ore dieci di domenica 12 gennaio.
Nel trolley sequestrato all’uomo dei droni al momento dell’arresto, e ora sotto custodia della procura di Milano, c’erano computer, smartphone, chiavette, documenti. In linea strettamente teorica, lo stesso avvocato dell’ex detenuto iraniano potrebbe chiedere la restituzione del bagaglio.
Ma viste le accuse all’ingegnere iraniano, è scontato che quel materiale interessi a chi gli dava la caccia e possa essere oggetto di rogatoria internazionale da parte degli Usa.
Alla procura guidata da Marcello Viola, al momento, non sono arrivate richieste. Passerebbero prima dal ministero.
(da agenzie)

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SE NON FOSSE STATO ELETTO PRESIDENTE, TRUMP MARCIREBBE IN GALERA

Gennaio 14th, 2025 Riccardo Fucile

IL RAPPORTO DEL PROCURATORE SPECIALE SMITH

Se non fosse stato eletto presidente in novembre, Donald Trump sarebbe stato condannato per il caso delle interferenze sul risultato delle elezioni del 2020: lo si legge nel rapporto del procuratore speciale Jack Smith, del quale è stata autorizzata la pubblicazione, citato da media americani.
Il rapporto di 174 pagine visionato da alcuni media Usa e del quale il Procuratore generale, Merrick Garland, ha autorizzato la pubblicazione – alla quale si erano invece opposti gli avvocati di Trump -, descrive in dettaglio quelli che vengono definiti “gli sforzi criminali del presidente eletto per mantenere il potere” dopo aver persone le elezioni del novembre 2020. Il team di Smith afferma senza mezzi termini di ritenere che Trump abbia tentato di “sovvertire la volontà popolare e di rovesciare i risultati delle elezioni”
“Come si evince nell’atto d’accusa originale e in quelli successivi, quando è diventato chiaro che il signor Trump aveva perso le elezioni e che i mezzi legali per contestare i risultati elettorali erano falliti, ha fatto ricorso a una serie di sforzi criminali per mantenere il potere”, si legge, comprese “pressioni sui funzionari statali”, piani “fraudolenti” e “pressioni sul vicepresidente” Mike Pence.
Una sezione del rapporto è inoltre riservata all’assalto dei suoi sostenitori a Capitol Hill il 6 gennaio 2021. lo ‘special counsel’ Smith scrive nelle conclusioni: “Il punto di vista del Dipartimento (di Giustizia), secondo cui la Costituzione proibisce di continuare l’incriminazione e l’azione penale contro un presidente è categorico e non dipende dalla gravità dei crimini imputati, dalla forza delle prove del governo o dai meriti dell’accusa, che l’ufficio sostiene pienamente.
In effetti, se non fosse stato per l’elezione del signor Trump e il suo imminente ritorno alla presidenza, l’ufficio ha valutato che le prove ammissibili erano sufficienti per ottenere e sostenere una condanna al processo”, ha aggiunto il procuratore speciale. Smith fu nominato procuratore speciale dall’Attorney General Merrick Garland poco dopo che Trump aveva lanciato la sua candidatura alla Casa Bianca del 2024.
(da agenzie)

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“MELONI HA PRESO UNA STRADA PERICOLOSA NEI RAPPORTI CON GLI USA: TRUMP NON VUOLE ALLEATI MA CLIENTI PER I SUOI AFFARI”

Gennaio 14th, 2025 Riccardo Fucile

L’EX MINISTRO FORMICA: “SIAMO SEMPRE STATI UN PAESE A SOVRANITA’ LIMITATA”

Rino Formica, ex socialista e ministro, dice che dopo il caso Abedini-Sala la premier Giorgia Meloni ha preso una strada pericolosa nei suoi rapporti con gli Stati Uniti. Vede, dal 1945 sino a poche settimane fa siamo stati dentro un’alleanza politica e strategica con gli Stati Uniti, ma ora l’America di Trump non vuole più alleati. Vuole clienti dei loro affari: è una grande novità, che spiega la nuova stagione», dice oggi a La Stampa. Formica ricorda che «dopo la strage del Rapido 904 affermai che l’Italia aveva vissuto in uno stato di sovranità limitata, che aveva finito per depotenziare la capacità dei nostri Servizi. Quasi fosse lesa maestà nei confronti degli Stati Uniti, Giovanni Spadolini si imbufalì e il presidente del Consiglio Craxi fu costretto a convocare un vertice riservato e in quella occasione Giulio Andreotti ci disse due cose assai rilevanti…»
L’esponente Dc, che per anni era stato ministro della Difesa, «ci disse testualmente: sì per 40 anni siamo stati un Paese a sovranità limitata rispetto agli Stati Uniti. E ci descrisse la Circolare Trabucchi della quale nulla si sapeva e che risaliva al 1960, emanata durante il governo Tambroni. Quella Circolare riservatissima e i suoi sviluppi stabilivano che le Basi americane in Italia godevano di totale extraterritorialità per il passaggio di uomini, armi e cose. Tutto sotto il controllo esclusivo degli americani. In altre parole dal 1949 in poi abbiamo aderito all’Alleanza atlantica cedendo volontariamente sovranità su diverse questioni ad una autorità sovranazionale riconosciuta. Questo non significa che tutti i governi siano stati eguali. Ma ora stiamo entrando in una fase nuova, come dimostra il rapporto tra il governo italiano ed Elon Musk».
Sigonella
Secondo Formica il parallelo con Sigonella «non esiste, perché siamo davanti a casi diversi. Quella vicenda stava dentro una dialettica tra Paesi aderenti alla stessa Alleanza. In quella occasione il governo Craxi non fece una prova di forza, ma pretese il rispetto della sovranità italiana, delle leggi italiane e della Costituzione italiana, senza per questo mettere in discussione il rapporto di fondo tra l’Italia, la Nato, gli Stati Uniti e l’Europa. In questi giorni stiamo entrando in una fase diversa». E questo cambia tutto: «Stiamo entrando in una fase nella quale il rapporto con gli Stati Uniti non è più un rapporto tra alleati. Perché gli Stati Uniti della nuova amministrazione di fatto non vogliono alleati».
Sudditanza e clientele
Attualmente gli Usa «rifiutano di affrontare il costo di un’alleanza, che consiste sempre nel creare una sovranità dell’alleanza stessa. Senza sovranità comune, resta solo una momentanea convergenza di interessi. Ecco quello che vuole Trump: una combine momentanea di interessi. La condivisione politica ed istituzionale tra alleati non interessa più: ecco la vera novità, ma non è poco». E ancora: «Nessuno è in grado di capire quel che accadrà dopo il 20 gennaio. Trump, oltre ad essere un personaggio stravagante e un solista reazionario, non ha il pudore di contraddirsi anche durante lo stesso discorso. E tuttavia in questa confusa trasferta della presidente del Consiglio negli Usa, si è capita una cosa: Trump ha detto che Meloni ha preso d’assalto l’Europa. Che vuol dire? Perché lo ha detto? La presidente del Consiglio italiana gli ha presentato una posizione sfascista dell’Europa? ».
Strade pericolose
Per questo, riflette Formica nel colloquio con Fabio Martini, «il rapporto di sovranità limitata era accettato da tutti: governi e opposizione. Finché l’Europa era divisa in due blocchi, Italia portava il peso che le derivava dalla sua collocazione geografica: era un Paese di frontiera. Nel quale era presente un grande partito, il Pci, rappresentativo dello Stato col quale l’Italia era in guerra fredda. Ma il Pci rinunciò a svolgere una politica oltranzista contro i governi, nella realistica accettazione della divisione dell’Europa. Ma oggi è cambiato tutto e Meloni deve ben valutare prima di prendere strade pericolose».
(da agenzie)

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TRUMP SOGNA UN’EUROPA VASSALLA, PER QUESTO SOFFIA SUL VENTO SOVRANISTA

Gennaio 14th, 2025 Riccardo Fucile

PIU’ SERVI DI LORO, NESSUNO

La massima del “bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto” è un invito a guardare le cose da prospettive diverse, per tenere la mente aperta alla possibilità che il corso delle cose non sia determinato dalle nostre emozioni peggiori.
Con questo spirito si dovrebbe guardare alla nuovissima relazione che con il nuovo presidente americano si inaugurerà tra Stati Uniti ed Europa. Già a partire dalla campagna elettorale, Donald Trump e Elon Mask hanno fatto presagire un futuro a dir poco complicato. Sono entrambi nemici dichiarati dei partiti e dei governi di centro-sinistra e della Unione europea per le loro politiche fiscali (timidamente contro le multinazionali), le scelte di regolare la IA, l’uso dei social e l’intromissione nelle campagne elettorali.
La democrazia è messa a repentaglio. E i responsabili sono proprio gli americani. L’uno, Trump, con meno attivisimo verbale; l’altro, Musk, con un profluvio quotidiano di volgarità e falsità nel nome della libertà di espressione che (ha detto Giorgia Meloni) ogni “privato” cittadino deve avere. I due si sono divisi le parti e fino a quando Trump non smentisce Musk, si deve pensare che entrambi la pensano nello stesso modo. E, poiché il Department of government efficienty (Doge) non sarà un ministero ma un ufficio della presidenza, il suo titolare Musk, sproloquierà sempre come “privato” cittadino.
L’attacco all’Europa è cominciato col prendere a bersaglio la leader labourista Racher Reeves e il suo paese indebitato ed economicamente fermo (governato per due decenni dai conservatori); Reeve ha ricevuto attacchi da parte di Trump mentre Musk ha preso di mira il leader della destra estrema, Nigel Farage, per incapacità: se il Reform Party vuole vincere deve avere un nuovo leader. Non male per un dialogo tra paesi sovrani e democratici. Il Guardian ci fa capire che è in corso un mutamento di mentalità, non solo politico: «Gli Stati Uniti del presidente Trump non sono né un alleato affidabile né un amico. Sono una superpotenza impazzita attivamente ostile al governo britannico e che cerca di ridisegnare il globo in modo nuovo».
Né alleato affidabile né amico. Ciò vale soprattutto per l’Europa. La stessa Nato sembra un’anacronismo. L’America è il nome di due grandi miti: accoglienza degli immigrati in cerca di fortuna e sostegno della libertà politica contro i totalitarismi e gli autoritarismi. Quell’America che ha segnato la biografia di alcune generazioni oggi sembra il capitolo di un libro di storia.
Il presente è molto diverso. E rivolta lo stomaco leggere le pericolose bestialità che snocciola Musk (insieme ad Alice Weidel) su Adolf Hitler comunista e conservatore e sulla necessità che la Germania sia governata da Alternative für Deutschlan. Riportare i nazisti a Berlino dopo averli sconfitti sui campi di battaglia e a Norimberga fa una cerca impressione. Fine della Seconda Guerra mondiale.
Trump non ha mai smentito Musk. E vuole un’altra Europa per fare un’America non più grande “ancora” (again) ma, come ha corretto Trump dopo la sua elezione, “sempre” (always). E per questo non vuole più l’Unione europea. La ragione del suo anti-europeismo la conosciamo: perimetrare il “suo” occidente per dominarlo, con la tecno-finanza e la forza militare.
L’obiettivo è un nuovo bipolarismo, con la Cina come nemico. Una nuova Guerra fredda che gli Usa combatto anche contro gli ex-alleati europei. Il bicchiere mezzo vuoto, mostra dominio e torsione illiberale, con l’obiettivo di piegare la politica delle regole e delle limitazioni, che colpisce prima di tutto le aziende di Musk e dei suoi amici oligarchi.
Si può ambire a una lettura che vede il bicchiere mezzo pieno? Con un avversario economico a occidente, la Ue potrebbe (dovrebbe) cercare di sedimentare la sua unità normativa, fiscale e difensiva, dotandosi di una politica energetica comune. Essere piú unita: questa puó essere la risposta contro l’avversario di Washington. Ma deve riuscire a resistere al divide et impera che Trump-Musk stanno praticando privilegiando le destre. La lotta contro le destre è in Europa una lotta per difendere il lascito della Seconda guerra mondiale, ottant’anni dopo: la democrazia.
(da editorialedomani.it)

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LA PROCURA DI ROMA HA APERTO UN’INCHIESTA SULLE RIUNIONI RISERVATE CHE HANNO PORTATO AL SILURAMENTO DELLA TERNA DI COMMISSARI STRAORDINARI DELLA SOCIETÀ “CONDOTTE”, DA PARTE DEL MINISTRO ADOLFO URSO

Gennaio 14th, 2025 Riccardo Fucile

IL RIBALTONE PORTÒ ALL’ARRIVO DI UN NUOVO TRIO COMMISSARIALE, E TRA LORO C’È ANCHE UNA VECCHIA CONOSCENZA DEL MINISTRO MELONIANO: L’AVVOCATO FRANCESCO PAOLO BELLO, GIÀ PARTNER D’AFFARI DI URSO E SUO EX COLLABORATORE NELLA SRL, “ITALIAN WORLD SERVICES”

A palazzo Piacentini c’è tensione. L’aria che si respira nella sede di via Veneto del ministero delle Imprese e del Made in Italy non è delle migliori. E il motivo non riguarda tanto i delicati dossier, da Stellantis fino al Sulcis, presenti sul tavolo del capo del dicastero Adolfo Urso.
È piuttosto un altro: ha a che fare con un’indagine dei magistrati capitolini nata da un esposto ricco di dettagli su riunioni riservate che hanno portato al siluramento di una terna di commissari straordinari di una delle società di costruzioni più importanti del Paese.
I pubblici ministeri romani hanno infatti aperto un fascicolo che potrebbe rappresentare un grosso problema per i vertici del ministero.
L’inchiesta, coordinata dall’aggiunto Stefano Pesci e dal sostituto Alessia Natale, prende le mosse da un fatto che questo giornale ha già raccontato: la revoca da parte del ministro Urso dei tre commissari straordinari che per sei anni hanno gestito Condotte d’acqua, la società colosso delle costruzioni.
Un ribaltone amministrativo che ha messo alla porta la terna di professionisti costituita da Giovanni Bruno, Gianluca Piredda e Matteo Uggetti e ha al contempo visto l’arrivo di un nuovo trio commissariale, tra loro anche una vecchia conoscenza del ministro meloniano: l’avvocato Francesco Paolo Bello, che, come ha scoperto Domani, è stato partner d’affari di Urso e suo ex collaboratore in una srl, la Italian World Services
Il fascicolo in questione ha già degli iscritti nel registro degli indagati. Sui nomi la procura di piazzale Clodio tiene il massimo riserbo. A questo giornale risultano almeno due persone sotto inchiesta. La genesi del procedimento è, appunto, l’esposto arrivato sulle scrivanie dei magistrati romani e presentato da uno dei tre ex commissari di Condotte, Giovanni Bruno, il quale per la vicenda si era anche appellato alla giustizia amministrativa.
Il primo grado aveva dato ragione ai commissari, il Consiglio di Stato ha invece sospeso la decisione del Tar in favore del ministero, in attesa della decisione nel merito. Nelle carte consegnate ai pm, però, a essere denunciato è il metodo con cui sono stati fatti fuori i professionisti sgraditi. Con la denuncia di quanto avvenuto […] nel corso di una riunione dell’8 gennaio 2024 al ministero delle Imprese e del Made in Italy.
Riunionedove erano presenti i vertici del Mimit. Da Urso al capo di gabinetto del ministro, il fedelissimo Federico Eichberg, che, solo qualche mese dopo, a giugno, avrebbe profilato ai commissari una soluzione ben precisa: dimettersi prima di ogni eventuale revoca per ottenere una rapida liquidazione delle rispettive parcelle. Una soluzione, o meglio una promessa, che per qualcuno dei commissari sarebbe suonata più o meno come una minaccia. Eichberg bollò la ricostruzione come «distorta e con fini denigratori»
Classe 1971, già direttore della fondazione Farefuturo di Urso, legato all’Opus Dei e grande tifoso della Lazio, Eichberg è quindi colui che annuncia ai tre commissari la decisione del ministro fedelissimo di Giorgia Meloni di revocarli. Le registrazioni della riunione, alcune delle quali già pubblicate in esclusiva da Domani, sembrano inequivocabili
«Il ministro ha manifestato un forte disagio quindi diciamo ci ha chiesto di avviare un procedimento diretto alla vostra revoca (…)», dice Eichberg, che parla anche di «difformità di vedute» tra il ministro e i commissari. I professionisti, ascoltando le parole del capo di gabinetto durante quella seduta, sono increduli
Lo sono soprattutto quando Eichberg sembra avanzare una sorta di via di fuga ai professionisti. «Noi vorremmo perseguire una strada la più smooth possibile diciamo… la più leggera possibile, primo. Secondo, vorremmo anche, diciamo ragionare con voi su un qualcosa che mantenga integro l’eccellente lavoro che voi avete fatto sul 90, 95, 97 per cento della procedura (…) voi siete in attesa da un po’ che vi venga riconosciuto il compenso…dovuto». Ecco, dunque, la proposta. Che […] vorrebbe significare: o date le dimissioni e avrete le parcelle alla svelta, oppure vi silura il ministero e chissà quando vi pagherà.
Ma perché il ministro di Fratelli d’Italia, per mezzo del suo braccio destro, silura i commissari dopo sei anni di lavoro definito dallo stesso Eichberg «altamente meritorio»? La spiegazione starebbe tutta nell’esposto già citato. Lo scontro si sarebbe consumato soprattutto sulla cessione della quota del 15 per cento controllata da Condotte nella società Eurolink, il consorzio che dovrà realizzare il ponte sullo Stretto, vessillo di questo governo.
Ad aggiudicarsi quel 15 per cento è il gruppo Tiberine controllato dall’immobiliarista romano Walter Mainetti. Il collegio commissariale di Condotte, con Bruno in testa, segue, all’epoca, una procedura condivisa, almeno fino a un certo punto, con il ministero, che il 29 marzo del 2023 autorizza la vendita della partecipazione in Eurolink.
Da qui il “malcontento” del capo del Mimit. […] Così la decisione di revocare i professionisti. E a giugno la scelta, dapprima solo paventata, si fa più concreta.
Lo diventa con Eichberg che, appunto a giugno scorso, «rappresenta ai commissari» «che se avessero rassegnato le dimissioni spontaneamente ci sarebbe stato adeguato riconoscimento al lavoro svolto attraverso una tempestiva liquidazione dei compensi».
«Stiamo cercando di trovare una soluzione avendovi rappresentato qual è diciamo ad oggi la determinazione del ministro», chiosa Federico Eichberg in base a quanto emerge dalle registrazioni.
È così che Uggetti si dimette. Bruno e Piredda, al contrario, non lo fanno e vengono quindi revocati con decreto il 6 settembre. Nelle registrazioni, poi, Eichberg sottolinea che la mancanza di fiducia è alla base della decisione del ministro. «Come sappiamo il rapporto fiduciario è sostanziale per l’amministrazione straordinaria», dice il capo di gabinetto. Che continua il suo discorso davanti ai tre commissari parlando di «momenti di maggiore o minore comprensione mettiamola così che magari si è riverberata presso la struttura facendo venire meno il rapporto fiduciario»
Per i professionisti però chi è nominato in procedure fallimentari può essere rimosso solo per giusta causa. E, per quanto Urso lamenti «scarsa diligenza» degli ex commissari, la terna sembrerebbe riuscita a perseguire l’obiettivo di salvaguardare i complessi produttivi e tutto il comparto occupazionale.
Nell’esposto si legge: «Il valore complessivo delle cessioni ha superato 250 milioni e il numero dei lavoratori salvaguardati è stato superiore a 1.300 lavoratori, in misura cioè pari al 100 per cento del personale in essere all’atto della ammissione di Condotte d’acqua spa alla procedura di amministrazione straordinaria»
Nell’esposto Bruno lamenta inoltre di non aver ricevuto ancora quanto gli spetta per il lavoro svolto. Intanto c’è una nuova terna, che, oltre che dalla vecchia conoscenza di Urso, Bello, era composta da Michele Onorato e Alfonso Di Carlo, quest’ultimo ha già dato le dimissioni per incompatibilità. Intanto l’inchiesta, appena iniziata, prosegue.
(da EditorialeDomani)

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