Giugno 12th, 2025 Riccardo Fucile
CAIRO PENSA ALLA VICEDIRETTRICE, FIORENZA SARZANINI… MALGRADO LA POLITICA DEI “DUE FORNI” (SE IL ‘’CORRIERE’’ E’ FILO-MELONIANO, LA7 E’ SCHIERATISSIMA CONTRO), ARIANNA MELONI HA SPORTO UNA CAUSA CIVILE A LA7 CHIEDENDO UN RISARCIMENTO DANNI DI 100MILA EURO PERCHÉ ‘’PIAZZA PULITA’’ BY FORMIGLI AVREBBE ORCHESTRATO UNA CAMPAGNA DENIGRATORIA CONTRO DI LEI
Solferino, basta la parola! Passano i secoli ma vuol dire sempre battaglia. Quella avvenuta il 24 giugno 1859 si concluse con la vittoria franco-piemontese, che portò alla sconfitta dell’Austria e alla perdita della Lombardia.
A partire dal 1904, il “Corriere della Sera” di Luigi Albertini traslocò la redazione del primo quotidiano italiano in via Solferino 28, il palazzo è non solo un luogo identitario del giornalismo ma anche simbolo di campo di battaglia per la successione alla
direzione.
Il primo maggio scorso, Luciano Fontana, ex giornalista dell’Unità entrato nel 1997 in via Solferino, ha superato la barriera dei dieci anni alla direzione. Nel dopoguerra nessuno ha governato consecutivamente il quotidiano per tutto questo tempo. Ferruccio de Bortoli ha diretto per dodici anni, ma in due tornate. Paolo Mieli ha sfiorato i dieci anni, sempre in due tornate diverse.
Ora, in via Solferino, si infittiscono i sussurri e le grida di un cambio di guardia dal primo gennaio 2026, anno che celebrerà i primi 150 anni dalla fondazione.
L’editore Urbano Cairo avrebbe in mente di sostituire il giornalista di Frosinone con la vicedirettrice Fiorenza Sarzanini (gli altri vice sono Daniele Manca, Barbara Stefanelli, Venanzio Postiglione, Giampaolo Tucci. Luciano Ferraro; vice ad personam, Federico Fubini e Aldo Cazzullo).
Con l’eventuale sbarco della romana Sarzanini, prima donna alla direzione del Corriere, sono scoppiati i mal di pancia tra i tanti aspiranti al primo piano di via Solferino: la più scossa dalle indiscrezioni risulterebbe la vicedirettrice vicaria, Barbara Stefanelli, che da vent’anni sogna la prima poltrona, occupandosi di questioni di femminismo, gender, woke e moda, oltre alla direzione del supplemento “7”.
Purtroppo i temi della Stefanelli non incontrano la sensibilità di Cairo perché completamente assorbito dalle vicende della politica, dell’economia, sport e cronaca. Oltre all’aspirazione della Stefanelli,
va registrata anche la costante ambizione di Venanzio Postiglione. Per non parlare di Massimo Gramellini che traslocò da “La Stampa” con la promessa di Cairo che sarebbe diventato un bel dì direttore.…
In attesa della decisione sul futuro del “Corriere”, Urbanetto è alle prese con un’altra brutta rogna. Anzi, bruttissima perché va a minacciare il suo portafoglio. Malgrado la politica dei “due forni” di Cairo (‘’Corriere’’ indipendente ma non troppo, con “simpatie” nelle pagine politiche sul versante meloniano, mentre l’emittente televisiva è totalmente schierata contro il governo di destra), Arianna Meloni ha sporto una causa civile diretta a La7 chiedendo un risarcimento danni di 100mila euro perché ‘’Piazza Pulita’’ avrebbe orchestrato una campagna denigratoria contro la sorellina di Lady Giorgia.
Tra le tante “malefatte” ai danni del regime meloniano, dall’inchiesta sui post-fasci di Fanpage al dinamismo imprenditoriale degli Angelucci, Corrado Formigli si è reso colpevole di aver messo il naso sull’irresistibile ascesa del meloniano di ferro e luogotenente di Fratelli d’Italia, Fabio Tagliaferri.
Dal suo autonoleggio alla periferia di Frosinone e dallo scranno di assessore ai Servizi sociali e alla Fragilità del capoluogo della Ciociaria, Tagliaferri è stato catapultato alla guida di Ales – Arte Lavoro e Servizi spa, la cassaforte della società in house del ministero della Cultura, con 88 milioni di euro annui di ricavi e oltre sette milioni di utili annui. proprietario al 100 per cento del pacchetto azionario
La tesi a sostegno della causa civile intentata dalla prima Arianna d’Italia si può sintetizzare così: come capo della segreteria politica e responsabile del tesseramento di Fratelli d’Italia, dal 24 agosto 2023, la moglie separata di Lollobrigida non ha niente a che fare i provvedimenti del governo. Amen.
(da agenzie)
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Giugno 12th, 2025 Riccardo Fucile
NON ESSENDOCI MILIONI DI MENDICANTI IN GIRO, SIGNIFICA CHE È SOLO UN RAGGIRO FISCALE, IL RESTANTE 24,4% DEI CITTADINI, COLORO CHE DICHIARANO DA 29MILA EURO IN SU, PAGANO IL 75,6% DELL’IRPEF: È IL FAMOSO CETO MEDIO CHE L’HA PRESO NEL CUNEO ANCHE CON IL GOVERNO MELONI (+13% DI TRIBUTI)
Posto che sotto la soglia dei 29 mila euro lordi troviamo ben il 75,8% dei contribuenti
italiani, e che questi però versano appena il 24,4% delle tasse, mentre il restante 24,2% che dichiara da 29.001
euro in su si carica sulle spalle il restante 75,6% dell’Irpef, ha ragione il ceto medio a sentirsi tartassato.
Tartassato a livelli record, visto che le ultime statistiche dell’Ocse hanno certificato che tra i paesi più sviluppati l’Italia col 42,8% occupa il terzo posto assoluto sul fronte della pressione fiscale alle spalle di Francia e Danimarca.
E poco importa se quest’anno il governo ha deciso di stabilizzare il taglio del cuneo fiscale e contributivo, che peraltro avvantaggia solamente chi sta sotto la soglia dei 35 mila euro lordi all’anno, perché sempre l’Ocse a fine aprile ha reso noto che nel 2024 la quota di tasse e contributi che grava su stipendi e pensioni degli italiani è cresciuto ancora arrivando al 47,1%, 1,61 punti in più del 2023 e ben 12,2 punti in più della media Ocse.
Questo perché, come ha segnalato ieri anche l’Ufficio parlamentare di bilancio, questo intervento alzando i redditi ha prodotto un aumento del drenaggio fiscale che ha visto soprattutto i lavoratori versare l’anno passato 370 milioni di tasse in più (+13%).
Sul fronte dell’Irpef, a partire da quest’anno è entrato in vigore l’accorpamento ed una prima riduzione delle aliquote, intervento che avvia ma non risolve ancora il problema del carico fiscale che grava sui redditi medi, peraltro taglieggiati in questi anni da una inflazione galoppante che ha ridotto in maniera considerevole il loro poter d’acquisto. Per questo ora, «risorse permettendo», si ragiona (e nella maggioranza si litiga pure), sulla possibilità di ridurre dal 35 al 33% l’aliquota Irpef intermedia e di alzarne da 50 a 60 mila euro la soglia di applicazione.
Un altro piccolo ritocco che peraltro resta ben lontano a quella grande riforma dell’Irpef promessa dal centrodestra e di fatto rinviata a fine legislatura.Stando ad una recente indagine realizzata dal Censis per la Cida, la Confederazione italiana dirigenti ed alte
professionalità, due italiani su tre si sentono ceto medio e di questi uno su due teme il declassamento sociale e lamenta una pressione fiscale eccessiva.
«È troppo ricco per ricevere aiuti, ma anche troppo povero per costruire il futuro: è questo il paradosso che vive oggi il ceto medio, ovvero la classe sociale che regge il Paese. Il rischio – avverte il presidente del Cida Stefano Cuzzilla – è che questo paradosso si trasformi in una frattura sociale irreversibile».
Come ha spiegato il segretario generale del Censis, Giorgio De Rita, presentando la ricerca «il ceto medio da troppo tempo è costretto a non facili adattamenti di fronte alla persistenza di un fisco penalizzante, di un senso di sicurezza in erosione e di un’attenzione ridotta al valore delle competenze».
Negli ultimi anni, oltre la metà degli italiani ha visto il proprio reddito fermo, mentre più di uno su quattro lo ha visto calare. «Ma più che arretrare, il ceto medio oggi galleggia senza prospettiva» rileva il Censis segnalando che sul fronte delle tasse ben il 70% degli italiani, senza grandi distinzioni di fasce, chiede meno imposte sui redditi lordi mentre per l’80% c’è un grave squilibrio tra ciò che si versa e ciò che si riceve in termini di servizi pubblici.
Secondo Cuzzilla «è qui che si gioca la vera partita politica. Il tempo delle analisi è finito: servono scelte nette».
(da La Stampa)
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Giugno 12th, 2025 Riccardo Fucile
SECONDO IL SONDAGGIO “YOUGOV”, IL 47% DEGLI STATUNITENSI NON APPROVA LA SCELTA DI TRUMP. LA MAGGIOR PARTE DEGLI INTERVISTATI CONSIDERA TRUMP “PERICOLOSO” E “ARROGANTE”
Quasi la metà degli americani adulti non approva la gestione delle proteste a Los Angeles da parte di Donald Trump. Secondo un sondaggio di YouGov riportato da Axios, il 47% degli americani adulti boccia il dispiegamento dei Marine a fronte di un 34% che lo approva. Un 45% non approva invece l’uso della Guardia Nazionale.
Secondo un nuovo sondaggio, gli Stati Uniti sono diventati molto meno popolari all’estero da quando il presidente Donald Trump è tornato al potere. Il Pew Research Center ha intervistato un campione di 28,333 persone in 24 paesi, di cui 10 in Europa, da fine febbraio a inizio aprile.
Il think tank Usa – che si definisce apartitico – ha rilevato che la quota di intervistati che ha un’opinione positiva degli Stati Uniti è diminuita nella maggior parte di essi rispetto alla primavera del 2024. Gli intervistati hanno poca fiducia in Trump come leader mondiale o nella sua capacità di affrontare le sfide globali, dalle guerre in Ucraina e Gaza ai cambiamenti climatici e alle politiche statunitensi sull’immigrazione. In Italia il livello di sfiducia è al 68%, contro il 32% che invece ha un sentimento contrario.
Quando Trump è stato eletto per la prima volta nel 2016, la popolarità degli Stati Uniti a livello mondiale è diminuita in modo analogo, ma il Paese è tornato ai livelli precedenti durante la presidenza di Joe Biden, secondo i dati del Pew. In Europa, un caso anomalo per quanto riguarda Trump è l’Ungheria, l’unico Paese in cui la maggior parte degli intervistati ha fiducia nel presidente americano.
La maggior parte degli intervistati ha concordato sul fatto che Trump
è “pericoloso” e “arrogante”, e pochi lo ritengono onesto. La maggior parte, tuttavia, lo considera anche un “leader forte”.
Oltre a Trump, il sondaggio ha misurato anche la fiducia globale nel presidente francese Emmanuel Macron, nel russo Vladimir Putin e nel cinese Xi Jinping.
Tra i quattro, Macron è nettamente in vantaggio, con una media del 46% che esprime fiducia nel leader francese, rispetto al 34% di Trump, al 25% di Xi e solo al 16% di Putin. In patria, tuttavia, Macron è meno popolare: solo il 35% degli intervistati francesi ha espresso fiducia in lui.
(da agenzie)
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Giugno 12th, 2025 Riccardo Fucile
GIORGIA MELONI DAVANTI AI COMMERCIALISTI PARLA DI SFORBICIATA AL CUNEO E LODA MAURIZIO LEO, “DIMENTICANDOSI” DI GIORGETTI. CHE ALZA I TACCHI E SE NE VA SENZA PARLARE … LA LEGA PRETENDE UN’ALTRA ROTTAMAZIONE, FORZA ITALIA E FDI CHIEDONO PRIMA DI TAGLIARE LE TASSE AL CETO MEDIO – PECCATO CHE I SOLDI PER ENTRAMBI I PROVVEDIMENTI, NON CI SIANO
Tra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia è un catfight continuo: ci si strappano i capelli e le
faide si rincorrono, nonostante il “successo” indiretto ottenuto con il flop del referendum di Landini-Schlein-Conte, che non ha raggiunto il quorum.
Dietro la facciata di coesione, nella maggioranza si sta infatti consumando una guerra per bande su quasi ogni dossier.
Giorgia Meloni, che ha un occhio rivolto alle elezioni regionali di ottobre, il vero test decisivo per il futuro del Governo, ha aperto la campagna elettorale con una doppietta di interventi, prima martedì agli Stati generali dei commercialisti, e poi ieri con un videomessaggio all’assemblea di Confcommercio.
Entrambi gli appuntamenti sono stati un’occasione ghiotta per la “Statista dei due mondi” (Garbatella e Colle Oppio), per sventolare la questione acchiappavoti del fisco.
La sora Giorgia ha promesso una riduzione della pressione fiscale per il ceto medio, che sotto il suo governo è aumentata dal 41,7 al 42,6% (dati Istat).
Il carico di tasse verso i pochi italiani tar-tassati è diventato insostenibile, e la premier, come scrive “La Stampa”, “deve correre ai ripari, e con una certa urgenza, per non lasciare gioco facile alle opposizioni”.
Martedì, durante il suo intervento agli Stati generali dei commercialisti, con il solito gioco di prestigio comunicativo, la Ducetta ha nascosto i guai dell’economia italiana (salari bassi, tasse alte), elogiando l’attività del Governo e lodando in particolare il lavoro di Maurizio Leo, viceministro all’Economia di Fratelli d’Italia, che la premier ha piazzato a Via XX Settembre come un cagnaccio alle calcagna di Giorgetti.
Peccato che la Ducetta si sia dimenticata di sottolineare l’intenso lavoro del ministro Giorgetti, che da due anni e mezzo trotta per tamponare i buchi di bilancio e salvare la cassa, che piange, di fronte alle richieste dei partiti di maggioranza.
Una “dimenticanza”, quella della Meloni, che ha provocato un gran giramento di cojoni al ministro leghista, che di fronte alle parole della sua premier, peraltro contrarie alla linea del suo segretario, Matteo Salvini (che del ceto medio se ne impipa, e pensa solo agli autonomi con la rottamazione), ha deciso di non prendere la parola (il suo intervento era previsto).
Curioso che per scovare la notizia dello scazzo tocchi prendere “il Messaggero” del filo-governativo Caltagirone (il “padrone di Roma” negli ultimi tempi s’è molto adontato con la Lega per la questione Bpm), mentre il “Corriere”, e anche “Repubblica” e “Stampa” la nascondono.
Il sempre mite Giorgetti ha alzato i tacchi e sbattuto la porta agli stati generali dei commercialisti, decidendo di non intervenire.
In compenso, però, qualche ora dopo ha rilasciato un’intervista a “Fanpage”, in cui marca la distanza dalla “sua premier: “Tenere
insieme taglio delle tasse e pace fiscale? Solo se ci sono le condizioni e sta a me crearle”.
Il guaio è proprio questo: la maggioranza sul fisco è incartata tra veti incrociati e mirabolanti promesse irrealizzabili. Matteo Salvini chiede una nuova rottamazione, a cui Forza Italia si oppone con tutte le sue forze.
L’ha ribadito oggi Antonio Tajani: “È un provvedimento una tantum, non è un provvedimento strutturale. Si può fare, ma prima riduciamo l’Irpef, così diamo veramente una mano al ceto medio”.
Nel mezzo, c’è il leghista Giorgetti, che conoscendo bene lo stato disastrato delle casse dello Stato, non perde tempo in chiacchiere: i soldi per entrambe non ci sono, scegliete.
E così, il fisco si aggiunge alla già nutrita lista di dossier divisivi per la maggioranza: ormai ogni piccola decisione è causa di scazzo. Si va dalla posizione di Forza Italia sulla cittadinanza (Tajani è favorevole allo ius scholae), allo scazzo per il risiko bancario (Tajani aveva aperto ad Orcel, evocando un ammorbidimento del golden power e questa ipotesi Giorgetti ha minacciato le dimissioni), fino al caos totale sul terzo mandato.
La possibilità di permettere ai governatori di rimanere in sella riguarda soprattutto i governatori leghisti (Zaia in Veneto, in scadenza quest’anno, Fedriga in Friuli Venezia-Giulia e Fontana in Lombardia, che terminano il mandato nel 2028).
Eppure, nelle ultime ore, si è registrata una “strana” presa di posizione da parte di Roberto Vannacci, vicesegretario del Carroccio.
L’ex Generale è andato nella tana del leone, a Treviso, a tuonare contro il terzo mandato: “Le regole non si cambiano in corsa, sotto elezioni”.
Una sparata che arriva il giorno dopo il consiglio federale del
Carroccio, e sui cui molti militanti storici mugugnano. Il ragionamento è: non si è mai visto un vicesegretario di partito parlare contro i propri governatori
Del resto, la scalata del cantore della “X mas” al partito è vista con molto sospetto dalla base del Nord-est: Vannacci è considerato un alieno, che allontanerà la Lega dai suoi territori per trasformarla in un partito di estrema destra nazionale, prendendo il posto di Salvini al momento giusto (e quest’ultimo per ora abbozza non potendo rinunciare alla valanga di consenso, il 2-3% alle Europee, mobilitata dal “generale al contrario”)
Kryptonite per i moderatissimi Zaia e Fedriga, e anche per il più realista Attilio Fontana. In un’intervista alla “Stampa” di qualche giorno fa, il governatore lumbard si è lanciato in un’insolita invettiva contro Salvini (“Il ponte sullo Stretto? Io penso a quelli lombardi”) e poi proprio contro Vannacci: “Se qualcuno vuole cambiare pelle lo deve comunicare anche a noi.
La Lega resta un partito autonomista che difende i territori, e da questi valori non possiamo e non vogliamo prescindere. Anche il generale Vannacci dovrà far sentire la sua voce da autonomista sincero”
(da Dagoreport)
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Giugno 12th, 2025 Riccardo Fucile
IL PD ATTACCA: “COSÌ SI CONSEGNANO A MUSK LE INFRASTRUTTURE ITALIANE STRATEGICHE” … MA IL CONTRATTO DA 1,5 MILIARDI CON L’AZIENDA DEL MILIARDARIO KETAMINICO È IN STAND-BY. QUIRINALE E CROSETTO SONO MOLTO DUBBIOSI SULL’AFFIDABILITÀ DI STARLINK
Le norme sullo spazio sono legge, il Senato dà il via libera definitivo al provvedimento che apre la porta all’ingresso di Elon Musk nella gestione delle comunicazioni strategiche del Paese, anche se la decisione politica non è ancora stata presa. Attaccano le opposizioni, mentre la maggioranza parla di «traguardo strategico».
Il punto più delicato, però, è quello descritto dall’articolo 25, dove si prevede la «costituzione di una riserva di capacità trasmissiva nazionale attraverso comunicazioni satellitari», di fatto un sistema che dovrà «garantire, in situazioni critiche o di indisponibilità delle reti terrestri, un instradamento alternativo». Insomma, una rete che dovrebbe assicurare le comunicazioni strategiche in situazioni di crisi, di gravi emergenze, conflitti.
Ebbene, secondo la legge approvata, questa «riserva» dovrebbe funzionare attraverso satelliti «gestiti esclusivamente da soggetti appartenenti all’Ue o all’Alleanza atlantica». La formula è generica, ma sostanzialmente sono solo due i possibili gestori in campo: il consorzio europeo Govsatcom, pubblico, finanziato dalla Commissione Ue, o Starlink di Musk.
L’opposizione non ci sta. Dice Francesco Giacobbe, Pd: «No a un Ddl che può consegnare a Elon Musk infrastrutture italiane strategiche. No a un Ddl privo di governance pubblica che non punta sull’Italia e sull’Europa per disegnare il futuro del nostro Paese». E
Enrico Borghi (Iv) aggiunge: «Il testo è velleitario, le risorse sono poche. Ed è fragile, perché non sceglie tra il modello pubblico europeo e le start-up private Usa. E cosa farà il governo ora che è finita la luna di miele tra Musk e Trump?»
(da agenzie)
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Giugno 12th, 2025 Riccardo Fucile
L’EX TRUCE DEL PAPEETE È DISPOSTO A CEDERE IL PIRELLONE A FRATELLI D’ITALIA (SI VOTA TRA TRE ANNI), MA LA SORA GIORGIA RIFLETTE: SOTTO LA MADUNINA COMANDA LA RUSSA, E SAREBBE DIFFICILE SCALZARE LA SUA PERVASIVA RETE DI RELAZIONI
L’apertura sul terzo mandato per le Regionali d’autunno, del nasuto Donzelletto toscano,
responsabile organizzazione di Fdi, è un ramoscello di ulivo lanciato da Lady Giorgia a Salvini.
Il segretario della Lega è stretto tra l’incudine dei tre governatori del Carroccio, Zaia, Fedriga e Fontana, che tuttora presiedono almeno il 6% del consenso elettorale, e il martello del fascistoide generale Vannacci che col suo 2% ha costretto il Capitone a nominarlo tra i vice-segretari.
Se per il fragile presidente del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, l’apertura di Donzelli sul terzo mandato è “un’espressione di buon senso politico”, per il governatore lombardo Attilio Fontana è un’occasione per infilzare le scelte demenziali di Salvini per riacchiappare il consenso padano perduto. “Ponte sullo Stretto? Io penso a quelli lombardi”, così ha risposto seccamente il governatore della Lombardia in un’intervista su “La Stampa”.
E a proposito dell’eurodeputato Roberto Vannacci, un tipino che non nasconde ai suoi accoliti la voglia di spodestare il bollito Salvini e di togliere voti a Meloni, il governatore della Lombardia ha aggiunto un pizzino velenoso: “Io sono dell’idea che se qualcuno vuole cambiare pelle lo deve comunicare anche a noi”.
La Lega resta un partito autonomista – ha proseguito Fontana – che difende i territori, e da questi valori non possiamo e non vogliamo prescindere. Se qualcuno vuole cambiare pelle alla Lega ce lo dica: Vannacci dimostri di essere un autonomista”.
L’oggetto del contendere tra i due galletti di Palazzo Chigi è la Lombardia, la regione-motore del Belpaese: il segretario della Lega, resosi conto di non poter governare tutto il Nord con l’8%, sarebbe disposto a cedere il Pirellone nel 2028, pur di non perdere con un colpo solo Zaia e il Veneto.
Per l’ex “Truce del Papeete”, rinunciare al Pirellone sarebbe sì un “sacrificio”, ma da consumarsi nel lungo periodo. E fra tre anni può succedere di tutto. Anche per questo, Giorgia Meloni sta riflettendo se sia la scelta più saggia pretendere la Lombardia per Fratelli d’Italia.
Anche perché dalle parti della “Madunina” i suoi fedelissimi, gli europarlamentari Carlo Fidanza e Nicola Procaccini, sono deboli rispetto ai veri ras lombardi di Fratelli d’Italia, Ignazio La Russa e suo fratello Romano.
Il presidente del Senato nel corso degli anni ha intessuto una imponente rete di contatti e potere, ha aiutato e fatto nominare molte persone, ha ottimi rapporti con il deep state locale (polizia, magistrati, funzionari, avvocati, imprenditori), è inserito nei gangli della vita pubblica di Milano e i suoi parenti, figli in testa, sono tutti ben introdotti nel potere meneghino.
Un simile sistema di potere è difficile da scardinare e un pezzo da novanta come ‘Gnazio che, dall’alto del Duce se ne è sempre fottuto della Ducetta, non si farebbe certo scavalcare da un Fidanza qualsiasi, anche se emissario di Giorgia Meloni.
In Lombardia, in buona sostanza, comanda e comanderà lui. E se la Regione, all’interno della trattativa tra alleati, venisse offerta a Fratelli d’Italia, il deus ex machina su scelte e nomine del potere non
sarebbe il Fidanza della Meloni ma il presidente del Senato.
Amorale della fava: oggi, alla Sora Giorgia vale la pena scambiare le figurine delle Regionali con Salvini? Magari è mejo accontentarsi subito della gallina veneta (Zaia permettendo) che attendere tre anni il superpollo lombardo (per la gioia di La Russa)
Ps. L’uscita di Roberto Vannacci sul terzo mandato, da Treviso, sta dando molto da pensare agli “addetti ai livori”: può un vicesegretario andare nella terra di Zaia a piazzare una mina sotto il sedere del “Doge” senza il placet del suo diretto superiore Salvini?
Il generale al contrario, invece, potrebbe comportarsi come una specie di guastatore per “conto terzi”: grazie alle sciabolate di Vannacci, Salvini potrebbe liberarsi una volta per tutte dei governatori, che di certo non lo amano più come un tempo.
Ma è una strategia vincente, dal punto di vista elettorale, mollare due acchiappavoti moderati come Zaia e Fedriga, per consegnarsi al mal-destro e ambizioso Vannacci? Non sembra la migliore delle mosse, a meno che l’ex Capitone non stia ormai pensando al suo futuro in una Lega ridimensionata ma zeppa di fedelissimi, o addirittura a un suo partitino esterno al Carroccio
(da Dagoreport)
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Giugno 12th, 2025 Riccardo Fucile
PALAZZO CHIGI VUOLE ALLARGARE L’ELENCO DI VOCI DA CALCOLARE COME “INVESTIMENTI PER LA DIFESA” E CONTEGGIARE ANCHE IL PONTE SULLO STRETTO DI MESSINA, FANTOMATICA “OPERA STRATEGICA PER LA DIFESA EUROPEA E DELLA NATO”
Il segretario generale della Nato, Mark Rutte, incontra stamattina la premier Giorgia Meloni. Appuntamento ore 11 tra gli stucchi di Palazzo Chigi. Per la premier è una delle ultime finestre utili per capire cosa l’aspetta davvero tra poco più di dieci giorni a l’Aja, dove dal 24 al 26 giugno gli Usa detteranno ai partner dell’alleanza i nuovi obiettivi di spese per la difesa fissati da Donald Trump.
Washington chiederà un aumento al 3,5% del Pil delle spese militari in senso stretto, a cui va sommato un ulteriore 1,5% in investimenti collaterali, che rientreranno nel capitolo «Defence and security-related expenditures».
I tecnici del governo e della nostra diplomazia sono al lavoro da settimane sul dossier. E in una serie di note informali, visionate da Repubblica, viene annotato l’impatto che le richieste Usa produrranno sulle finanze italiane. A Pil costante, si legge, i nuovi obiettivi che saranno concordati all’Aja si tradurrebbero per l’Italia in «una crescita della spesa per la difesa a 79 miliardi di euro (+34 miliardi di euro per raggiungere la soglia del 3,5%)», ma la cifra potrebbe crescere «fino a 113 miliardi», per agganciare invece il target del 5% del Pil.
Significherebbe spendere ogni anno «68 miliardi di euro» in più
rispetto alla dotazione attuale, salita a quota 45 miliardi tramite il riconteggio di alcune voci fin qui non calcolate.
Il conto per Roma rischia di essere salatissimo. Per questo in ambienti di governo si continua a ragionare sulla possibilità di allargare ancora il novero delle voci da computare come investimenti per la difesa. Sono già state inserite le risorse per i carabinieri, per le fiamme gialle, perfino i servizi meteo.
Nelle stesse note preparatorie dell’esecutivo, si parla infatti di altri tipi di spese, come «il contrasto alle minacce ibride», le risorse impiegate per «la sicurezza dei confini», la protezione delle infrastrutture critiche sottomarine e nello spazio, la preparazione civile, i contributi già versati all’Ue. E ieri l’agenzia Bloomberg rivelava che la Nato dovrebbe considerare gli aiuti all’Ucraina.
Negli atti ufficiosi del governo si ipotizza poi di conteggiare come spese per la sicurezza «le infrastrutture civili propedeutiche alla mobilità militare». E anche se non viene menzionato esplicitamente, la più importante opera di questo tipo è il ponte sullo Stretto di Messina, pallino di Matteo Salvini.
Un progetto che non a caso il governo ha chiesto all’Ue di classificare come «opera strategica nell’ottica della difesa europea e della Nato».
Ammesso che la mossa riesca, al netto dello stanziamento monstre per il Ponte, circa 14 miliardi, a Roma toccherà comunque mettere sul piatto decine di miliardi in più rispetto alla spesa attuale. Più di una manovra finanziaria, solo per la difesa.
Ecco perché Antonio Tajani da settimane spinge i soci di governo a considerare l’opportunità di ricorrere alla clausola europea che permette di scomputare le spese di difesa dal deficit. Il ministro degli Esteri insiste anche per gli eurobond.
Meloni ne ha discusso con il presidente francese, Emmanuel Macron, la settimana scorsa a Chigi. Ma per sbloccare l’opzione a Bruxelles è necessario il via libera della Germania, finora scettica.
C’è poi il grande nodo dei tempi: entro quando l’Italia dovrà moltiplicare gli sforzi finanziari per il comparto militare? Se a Roma c’è fiducia sull’approccio «aperto e flessibile» della Nato sulle spese da conteggiare, sulle scadenze l’ottimismo è decisamente meno ostentato. Meloni vorrebbe spalmare l’esborso in 10 anni, ma è probabile che il summit de l’Aja fissi la deadline tre anni prima, al 2032.
(da La Repubblica)
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Giugno 12th, 2025 Riccardo Fucile
LUNEDI IL PARLAMENTO EUROPEO DISCUTERA’ DEL CASO, SARA’ LA PRIMA VOLTA DI UN CASO DI SPIONAGGIO CONTRO DUE GIORNALISTI… IN UN PAESE NORMALE SAREBBE SALTATO IL GOVERNO
Il caso Paragon, che negli ultimi giorni ha visto un nuovo capitolo con lo scontro tra il
governo Meloni, da una parte, e l’azienda israeliana Paragon Solutions dall’altra, arriverà al Parlamento europeo. Un dibattito sulla questione si era già svolto in commissione Giustizia, dopo un primo tentativo ad aprile che le destre erano riuscite a far rinviare di alcune settimane. Ora invece tutta l’assemblea degli europarlamentari sarà coinvolta. L’appuntamento è per lunedì 16 giugno. Intanto la Commissione è tornata a commentare il caso.
La discussione al Parlamento europeo, nella serata di lunedì, partirà da due dichiarazioni del Consiglio e della Commissione europea. Questi organi parleranno della situazione attuale, in Europa, per quanto riguarda il contrato all’utilizzo illegale di spyware. E faranno il punto a due anni dal termine dei lavori della commissione che aveva indagato sul caso di Pegasus, un altro software di spionaggio utilizzato in modo irregolare: quei lavori avevano portato a una serie di raccomandazioni precise su come tutelare i cittadini europei, che però spesso sono state disattese.
Dopo gli interventi di Consiglio e Commissione si aprirà il dibattito. E, inevitabilmente, si parlerà anche della vicenda di Paragon. La recente relazione del Copasir ha spiegato che Luca Casarini, fondatore dell’Ong Mediterranea Saving Humans, era spiato da anni su iniziativa del governo Conte, poi rinnovata e potenziata dal
governo Meloni. Ma non ha dato alcuna risposta su Francesco Cancellato e Ciro Pellegrino, direttore e giornalista di Fanpage.it: i due sono stati avvisati da Meta e da Apple, rispettivamente, di essere vittime di spionaggio, ma il Copasir non si è occupato del caso di Pellegrino e, su Cancellato, ha solamente escluso che a effettuare lo spionaggio siano stati i servizi segreti italiani.
La verità, quindi, ancora non si sa. L’azienda Paragon ha detto di aver dato al Copasir la possibilità di consultare i suoi registri per scoprire chi avesse spiato Fanpage, e che il comitato parlamentare avrebbe rifiutato. A stretto giro è arrivata una smentita: come scritto nella sua relazione, il Copasir ha ribadito di aver effettuato tutti i controlli possibili e di non aver trovato riscontro su Cancellato.
In attesa che ulteriori sviluppi o iniziative politiche facciano chiarezza sulla vicenda, anche la Commissione europea ha ribadito la sua condanna. Interrogata da europarlamentari di Pd, M5s e Avs, la vicepresidente esecutiva Henna Virkkunena ha risposto che “qualsiasi tentativo di accedere illegalmente ai dati dei cittadini, compresi giornalisti e oppositori politici, se confermato, è inaccettabile”.
La Commissione ha sottolineato che ci sono norme europee che garantiscono una “protezione completa della riservatezza delle comunicazioni”, anche quando in mezzo ci sono “finalità di sicurezza nazionale”. Altre normative specifiche riguardano proprio i giornalisti e le loro fonti, come il regolamento sulla libertà dei media che entrerà in vigore ad agosto. “La Commissione deve andare avanti garantendo il rispetto dello stato di diritto nel nostro Paese”, ha commentato Gaetano Pedullà, eurodeputato M5s.
(da agenzie)
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Giugno 12th, 2025 Riccardo Fucile
IL PAESE CON IL PIÙ ALTO NUMERO DI PERSONE CHE SONO STATE COSTRETTE A LASCIARE LE PROPRIE CASE È IL SUDAN (14,2 MILIONI), SEGUITO DA SIRIA (13,5 MILIONI), AFGHANISTAN (10,3 MILIONI) E UCRAINA (8,8 MILIONI) … I PAESI PIÙ RICCHI SE NE FOTTONO DEI RIFUGIATI: LA MAGGIOR PARTE SI TROVA IN PAESI A BASSO E MEDIO REDDITO
Circa 122,1 milioni di persone in tutto il mondo sono state costrette a lasciare le proprie case alla fine di aprile. Lo hanno dichiarato le Nazioni Unite, definendo la cifra “insostenibile”. Il numero di sfollati a causa di guerra, violenza e persecuzioni ha raggiunto il record di 123,2 milioni alla fine del 2024, ma da allora è leggermente diminuito. Un gran numero di siriani è riuscito a tornare alle proprie case dopo il rovesciamento del presidente Bashar al-Assad, ha dichiarato l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel suo rapporto annuale.
Secondo il rapporto annuale Global Trends dell’Unhcr, alla fine di aprile 2025 c’erano 122,1 milioni di persone costrette a fuggire dalle loro case, rispetto ai 120 milioni dello stesso periodo dell’anno scorso, il che rappresenta un decennio di aumenti annuali del numero di rifugiati e di altre persone in fuga. I principali fattori che determinano la fuga rimangono i grandi conflitti come quello in Sudan, Myanmar e Ucraina e la continua incapacità della politica di fermare i combattimenti. Quali saranno le tendenze nei mesi
rimanenti del 2025, dipenderà molto dalla possibilità di raggiungere la pace, dal miglioramento delle condizioni di ritorno a casa, e dall’impatto dei tagli attuali ai finanziamenti sulle situazioni di rifugiati e sfollati in tutto il mondo.
Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha dichiarato: “Viviamo in un periodo di intensa volatilità nelle relazioni internazionali, con la guerra moderna che crea un panorama fragile e straziante, segnato da un’acuta sofferenza umana. Dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi per cercare la pace e trovare soluzioni durature per i rifugiati e le altre persone costrette a fuggire dalle loro case”.
Tra le persone costrette alla fuga ci sono quelle sfollate all’interno del proprio Paese a causa di un conflitto, che sono cresciute bruscamente di 6,3 milioni fino a 73,5 milioni alla fine del 2024, e i rifugiati in fuga dai loro Paesi (42,7 milioni di persone). Con 14,3 milioni di rifugiati e sfollati interni, il Sudan rappresenta ora la maggiore crisi di sfollati e rifugiati al mondo, prendendo il posto dela Siria (13,5 milioni), seguita da Afghanistan (10,3 milioni) e Ucraina (8,8 milioni).
Il rapporto rileva che, contrariamente alla percezione diffusa nelle regioni più ricche, il 67% dei rifugiati rimane nei Paesi limitrofi e che i Paesi a basso e medio reddito ospitano il 73% dei rifugiati del mondo. I Paesi a basso reddito continuano a ospitare una quota sproporzionata di rifugiati nel mondo, sia in termini di popolazione che di risorse disponibili.
Questi Paesi rappresentano il 9% della popolazione mondiale e solo lo 0,6% del prodotto interno globale, eppure ospitano il 19% dei rifugiati. A titolo di esempio vi sono popolazioni di rifugiati molto numerose in Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Sudan e Uganda. Il 60% delle persone costrette a fuggire non lascia mai il proprio Paese.
(da agenzie)
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