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L’AUTO ELETTRICA E LE ALTRE: QUALE INQUINA DAVVERO DI PIU’?

Giugno 16th, 2025 Riccardo Fucile

IL VERO IMPATTO IN CO2

Dal 1 ottobre nelle città del Nord con più di 30 mila abitanti le auto diesel immatricolate prima del 2015 (Euro 5) non potranno più circolare di giorno. Il blocco è stato deciso da un decreto del governo Meloni a settembre 2023, a seguito del superamento sistematico dei limiti di Pm10. Ora il ministro Salvini accusa l’Unione Europea, e la Lega ha depositato un emendamento per rimandare il problema. Non si potranno rimandare i danni provocati dalle polveri sottili, calcolati da Ispra: in media 8.220 decessi l’anno. Come non si potranno rimandare gli effetti devastanti sull’intero pianeta del riscaldamento climatico. Il 21% delle emissioni di CO2 nel mondo, pari ogni anno a 8 miliardi di tonnellate, è dovuto ai trasporti. Di tutta questa anidride carbonica il 45% è prodotto da auto, moto e autobus.
Per ridurla l’Unione, con un regolamento votato a maggioranza da Parlamento e Consiglio, ha puntato sull’elettrico e bloccato dal 2035 la produzione del motore endotermico. Ora le associazioni delle imprese e il governo contestano: per inquinare meno non bisogna privilegiare l’elettrico, ma guardare alla neutralità tecnologica confrontando le emissioni di CO2 lungo tutto il ciclo di vita di un veicolo, dalla produzione di carburante e batterie, fino allo smaltimento finale. E vinca il migliore.
Tecnologie a confronto
Numerosi studi hanno fatto comparazioni, da quello realizzato dall’Interntional Council on clean Transportation (Icct) a quello commissionato nel 2022 dal ministero dell’Ambiente allora guidato da Stefano Cingolani e arrivano tutti alla stessa conclusione. Vediamole attraverso l’indagine più recente condotta dalla società di consulenza specializzata Ricardo
Group per la Federazione internazionale dell’automobile organizzatrice, tra l’altro, del campionato mondiale di Formula 1. I veicoli presi in considerazione sono quelli a benzina (Icev-G), diesel (Icev-D), ibridi a benzina senza ricarica (Hev-G), ibridi a benzina con ricarica (Phev-G), elettrici a idrogeno (Fcev), elettrici a batteria (Bev). Per ciascuno sono state misurate le emissioni in grammi di CO2 al chilometro tenendo conto di tutto: produzione del veicolo, produzione del carburante, emissioni allo scarico durante l’uso, emissioni legate alla manutenzione e allo smaltimento.
Dalla culla alla tomba
I risultati mostrano che già oggi i veicoli migliori per ridurre la CO2 in tutto il loro ciclo di vita sono quelli elettrici: 100 grammi a km, contro i 267 dell’auto a benzina, i 197 dell’ibrida senza ricarica, i 166 con ricarica, i 136 a idrogeno. È vero che nei prossimi anni le emissioni delle auto con motore a scoppio si ridurranno grazie all’uso dei carburanti bio e sintetici, ma nello stesso tempo, con l’uso di energia sempre più prodotta da fonti rinnovabili, e l’avanzamento tecnologico nella produzione e smaltimento di batterie, anche le emissioni delle auto elettriche si ridurranno in modo ancora più rilevante. Nel 2050 le auto elettriche emetteranno un terzo di CO2 in meno a chilometro rispetto alle auto a idrogeno, l’86% in meno di quelle a benzina, l’82% in meno di un’auto diesel e il 73% in meno di una ibrida ricaricabile.
La partita dell’idrogeno
A conti fatti solo l’auto a idrogeno si avvicina alle emissioni dell’auto ricaricata alla presa di corrente, perché allo scarico emette vapore acqueo. Il problema è che per produrre
l’idrogeno ci vuole molta acqua e molta energia. «Nell’auto elettrica a idrogeno uso l’energia per produrre l’idrogeno attraverso elettrolisi dell’acqua, poi devo fare il pieno di idrogeno, che poi a sua volta viene usato per produrre l’energia per muovere l’auto – dice Nicola Armaroli, dirigente di ricerca presso il Cnr – mentre nell’auto elettrica prendo l’energia e la uso direttamente per caricare la batteria dell’auto: in pratica, per fare gli stessi chilometri, ci vuole tre volte l’energia di un’auto elettrica ricaricata con la presa». Quindi, partendo dal presupposto che l’energia usata per entrambe le tecnologie sia prodotta da fonte rinnovabile, il processo per produrre idrogeno è meno efficiente. Sul mercato oggi ci sono 2 modelli a idrogeno, la Toyota Mirai (76.800 euro) e la Hyundai Nexo (78.300 mila euro), e in Italia circolano in totale 65 auto. Da inizio anno ne è stata venduta una sola (dati Acea) e i distributori di idrogeno al momento sono due, a Mestre e Bolzano. La Strategia Nazionale Idrogeno, del novembre 2024 prevede la realizzazione di almeno 40 stazioni entro il 2026. Tuttavia nello stesso documento si legge: «Il trasporto leggero su strada non può essere considerato un settore “difficile da abbattere”, in quanto la soluzione full electric è già una realtà consolidata. Le efficienze energetiche molto inferiori ed i conseguenti costi di gestione superiori non rendono competitivo questo tipo di soluzione che può, invece, avere applicazioni per le navi o gli autobus».
I carburanti sintetici
Si chiamano così gli e-fuels e, per produrli, si parte dall’idrogeno per poi combinarlo con la CO2 catturata nei grandi impianti industriali. Si ottiene un carburante a basse
emissioni poiché l’anidride carbonica emessa durante la combustione è pari a quella utilizzata per la sua produzione. Un processo lungo, molto energivoro e costoso: oggi gli e-fuel costano fra i 3 e 5 euro al litro. Al momento le auto a e-fuel ancora non ci sono ma, dopo l’accanita battaglia della Germania, la Ue ha dato il via libera alla produzione del motore endotermico anche dopo il 2035, a condizione che sia alimentato con questo tipo di carburante. Si tratterà però di una applicazione di nicchia, per accontentare chi non vuole rinunciare alle supercar con il motore a scoppio. E infatti ci sta investendo Porsche a Punta Arenas, nella Patagonia cilena, dove ha un piccolo impianto che produce 100 tonnellate all’anno di carburante sintetico. Per avere un’idea delle dimensioni: nel mondo ogni anno utilizziamo 2,5 miliardi di tonnellate di carburante per il trasporto su strada.
Il limite e le truffe dei biocarburanti
L’Italia punta molto sui biocaburanti che, però, non sono tutti uguali, come è ben specificato nelle direttive europee. Si possono definire «bio» se prodotti localmente con materiali di scarto (degli allevamenti, dell’industria o agricoli); se invece si sottraggono terreni alle coltivazioni agricole per piantare mais o soia da trasformare in biomasse, la storia cambia.
I biocarburanti messi sul mercato in Italia sono prodotti in buona parte con materie prime che viaggiano per migliaia di km: dalla Cina arrivano 541 mila tonnellate, dall’ Indonesia 217, dalla Malesia 101. Peraltro di origine dubbia. Prendiamo i biocarburanti prodotti con il Pome, un residuo di produzione dell’olio di palma e per questo considerati sostenibili. Ma, secondo l’associazione europea T&E, la quantità disponibile Pome sul mercato è pari a 1 milione di tonnellate l’anno, mentre il consumo dichiarato per i biofuel è di due tonnellate. Vuol dire che c’è dell’olio di palma spacciato per Pome che viene usato per produrre biocarburanti. Quindi non è più di prodotto di scarto, ma proviene da coltivazioni dedicate. Il dato certo è che biocarburanti «buoni» sono inevitabilmente in quantità limitate. Secondo Transport & Environment, quelli realmente prodotti da rifiuti e residui permetterebbero di alimentare appena il 5% del veicoli circolanti in Italia.
Resta il fatto che in base alla normativa europea in vigore i biocarburanti non potranno essere utilizzati per alimentare auto con il motore a scoppio dal 2035.
Secondo la European court of auditors «la gran parte dei biocarburanti potrebbe servire per aviazione e trasporto marittimo».
Efficienza a confronto
In conclusione se parliamo di aerei e navi l’elettrico o è svantaggioso o non funziona. Pensiamo ai voli intercontinentali: non c’è batteria adatta per renderli possibili. La batteria non è sempre la soluzione migliore nemmeno per gli autobus extraurbani, non a caso i bus a idrogeno venduti nel 2024 sono stati 903, 1.466 nella prima metà del 2025. Quindi per i trasporti pesanti tutto sarà meno impattante dei carburanti fossili e, quindi, ben vengano i biocarburanti, gli e-fuels, l’idrogeno.
Se invece parliamo di auto, come abbiamo visto, quelle elettriche sbaragliano le altre nella riduzione delle emissioni di CO2. Inoltre sono più efficienti. Secondo l’indagine di Trasport&Environment, oggi il 77% dell’energia generata dall’auto elettrica si trasforma in movimento, mentre in quella a

benzina solo il 20%, il resto si disperde. Insieme alle particelle di Pm10 che rendono l’aria delle città irrespirabile. Se guardiamo al 2050 l’efficienza dell’elettrico salirà all’81%, contro il 42% dell’auto a idrogeno e il 16% degli e-fuels. Entro l’anno si riaprirà il confronto sulla normativa che prevede lo stop alle nuove immatricolazioni con motore a scoppio dal 2035. Non si usi il paravento della neutralità tecnologica per continuare con le guerre ideologiche. La transizione sarà difficile, ma inevitabile, e avrà un prezzo. Bisognerà allora prendere decisioni che tengono insieme le questioni ambientali con quelle economiche e sociali. Ma raccontando ai cittadini le cose come stanno.
Milena Gabanelli e Rita Querzè
(da corriere.it)

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QUANDO LA GUERRA DIVENTA TERRORISMO DI STATO IL POPOLO E’ IL NEMICO ASSOLUTO DA ABBATTERE

Giugno 16th, 2025 Riccardo Fucile

MEZZO DI PURA ELIMINAZIONE DELL’AVVERSARIO SENZA PIU’ LO SCOPO DI RISOLUZIONE DELLE CONTESE

La crisi degli equilibri internazionali e delle culture politiche che hanno comunque retto l’Occidente nel corso del secondo dopoguerra si sta ormai manifestando così radicalmente da doverci indurre a considerazioni che vanno ben oltre gli avvenimenti attuali, per quanto tragici, e il giudizio sui loro protagonisti, per quanto detestabili ci appaiano.
Possono le potenze statuali che oggi si confrontano raggiungere una politica di pace? Non intendo il “pacifismo” idea regolativa, che vorrebbe metter fuori legge la guerra, bensì la concreta costruzione di una rete di patti e regole, che ogni Stato può sancire nel proprio assetto istituzionale, rendendola così positiva. Questa linea di condotta, che era emersa dopo il 1945 come l’unica perseguibile se si volevano evitare nuove catastrofi, sembra oggi respinta da tutti i principali attori. Sembra che solo dal campo di battaglia si debba attendere la decisione dei conflitti. Si prepara la guerra per farla o continuare a farla. E la guerra perde ogni retta intenzione, quella di risolvere una contesa determinata, per divenire un mezzo di pura e semplice eliminazione del nemico.
Il fondamento culturale che ha permesso anche nei momenti più drammatici di non far precipitare i conflitti internazionali tra i grandi spazi politici in guerra totale sembra crollato. Questo fondamento aveva, certamente, un carattere conservatore, d
“Santa Alleanza”, e non avrebbe comunque potuto reggere oltre il crollo di una delle due potenze che in essa detenevano il primato, ma nel suo assetto vi era anche dell’altro: l’idea che dopo la seconda Guerra Mondiale gli Imperi dovessero in tutti i modi evitare di trovarsi faccia a faccia, e che perciò nelle stesse guerre per interposta persona in cui si fossero trovati impegnati, essi si sarebbero regolati in forme “tollerabili” per l’altro, in base a uno ius belli in qualche modo condiviso. Sono fatti incomparabili, lo so, e tuttavia tragici prodotti della stessa crisi: mai nel faticoso, precario, sostanzialmente iniquo, ma tuttavia equilibrio della “guerra fredda” uno Stato avrebbe potuto invadere un altro fuori dal “dominio” assegnatogli o massacrare deliberatamente popolazioni civili. Gli Stati Uniti non hanno raso al suolo Saigon con dentro i suoi abitanti.
Manca qualsiasi energia in grado di “contenere” la guerra all’interno di una forma che somigli al diritto. Ciò dipende senz’altro dal fatto che i contendenti sembrano protesi a un solo obbiettivo: la resa incondizionata del nemico. Richiesta che può assumere anche l’aspetto, come spesso è avvenuto, di richieste per questi irricevibili.
Quando la resa incondizionata diventa il fine, ne deriva per necessità logica che prima o poi si dispieghino tutte le forze e tutti i mezzi disponibili per ottenerlo. Mettendo tra parentesi, per coltivare almeno questa speranza, il ricorso ad arsenali nucleari, rimangono altri strumenti, anch’essi sostanzialmente “silenziati” durante la guerra fredda, che possono essere posti in atto – uno di questi è il sistematico ricorso a strategie terroristiche, nel senso tecnico del termine. Terrorismo significa condurre la guerra al di là di ogni diritto, come non avvenisse
tra eserciti, senza rispetto per convenzioni o divise, allo scopo primario di ridurre la popolazione civile dello Stato o della nazione nemici all’assoluta disperazione non solo sui propri attuali governanti, ma sulla propria stessa esistenza. La guerra terroristica di Stato sta diventando sotto i nostri occhi la norma. Ogni diritto internazionale era già stato ridotto a pezzi da invasioni di Stati sovrani, penose strumentalizzazioni di principi anche mossi da nobili intenzioni, come la “difesa di innocenti” o la “difesa preventiva”, ma sempre la volontà del più forte si era ritratta dal ricorrere alla guerra terroristica su scala totale, e cioè a trattare da nemico assoluto il popolo, donne e bambini, dello Stato o dell’autorità politica che si intende abbattere. Anche questa soglia è stata scavalcata e siamo davvero ormai dentro l’abisso.
Se oggi trionfa il diritto del più forte, e cioè il non-diritto, il male affonda forse ben oltre la radicalità dei conflitti in atto e il clamoroso fallimento delle ideologie economicistico-liberiste che affidavano al business sui mercati la loro regolazione. È crollata ogni capacità di contenere l’espressione del proprio interesse riconoscendo insieme quello dell’altro. Non si può formare alcuna comunità internazionale se viene meno, all’interno di ciascuna parte, il senso di una co-appartenenza. Se nulla abbiamo in comune ab origine, mai potrà costruirsi una politica di pace. Aristotele diceva che l’essenza dell’agire politico consiste nel produrre amicizia. Non era un astratto pacifista, considerava invece ineliminabile il male della guerra. Ma riteneva che il nemico fosse l’orizzonte ultimo, non il primo ed esclusivo dell’arte della politica
È inutile nasconderlo. Nel corso della civiltà europea la forza
spirituale che ha esercitato comunque un’influenza contenitrice rispetto al dilagare della guerra in quanto azione volta a negare l’esistenza del nemico, è venuta dalla cristianità, pur nelle sue diverse espressioni o confessioni e dalla Chiesa cattolica in particolare negli ultimi due secoli. È dalla cristianità che provengono le istanze più forti per stabilire un diritto alla guerra, nella guerra e per paci successive che non siano germi di nuove catastrofi. Quest’azione la si deve senz’altro al formidabile paradosso che agita la cristianità fin dalle origini: come comporre la assoluta, irrevocabile condanna di ogni violenza pronunciata dal Figlio con le esigenze di compromesso con le potenze mondane che nascono dal vivere in questo mondo, sia pure da pellegrini? Questo paradosso cessa completamente di essere avvertito e perciò cessano gli sforzi volti ad affrontarlo. Tutto avviene ut Christus non esset, come Cristo non fosse mai stato. Altro non resta che la volontà di potenza dei diversi Stati o Imperi. “Giusta” sia allora soltanto la guerra da essi dichiarata e svolta con ogni mezzo ritenuto da essi efficace. L’Apocalisse può attendere?
Massimo Cacciari
(da lastampa.it)

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UNA SCORTA E’ PER SEMPRE: L’EPICA QUOTIDIANA DEI PROTETTI D’ITALIA

Giugno 16th, 2025 Riccardo Fucile

SNATURAMENTI E ABUSI CI SONO, MA MEGLIO UNA SICUREZZA SUPERFLUA DI UN IMPROVVIDO OTTIMISMO

Don Blasco, che aveva visto “i bei tempi” di casa Uzeda di Francalanza, si ricordava ancora di quando suo padre, il principe Giacomo XIII, poteva contare ben “venti cavalli in istalla”. Si valutava così, dallo sfoggio di carrozze e destrieri, l’importanza di una famiglia nella Sicilia crepuscolare raccontata ne I Viceré da Federico De Roberto. Forse ancora così si soppesa, centotrentun anni dopo l’uscita del romanzo, la rilevanza pubblica di un personaggio: basta sostituire alle carrozze le auto blindate e ai destrieri gli uomini di scorta. Servizio irrinunciabile, non soltanto in Sicilia, con cui lo stato tutela l’incolumità di chi è considerato a rischio, quello delle scorte si è pure prestato a inevitabili snaturamenti, a qualche abuso che solo di rado finisce sui giornali e a pilatesche concessioni ad abudantiam perché “non si sa mai”. Le minacce, per dirla aristotelicamente, hanno un quid di apofantico: possono sembrare inattendibili ma sono vere oppure il contrario. Nel dubbio però, come insegna l’esperienza del passato, è preferibile una sicurezza superflua all’improvvido ottimismo; meglio un onere in più per lo stato che una fatale sottovalutazione. Dal 2002, dopo l’assassinio terroristico del giuslavorista Marco Biagi, l’assegnazione delle scorte è stata delegata all’Ucis, l’Ufficio centrale interforze che fu istituito apposta dal governo Berlusconi per valutare le richieste e stabilire la gravità del pericolo cui soggiace una personalità. Si va dal quarto livello (rischio basso), che prevede un’auto non blindata con uno o due agenti, fino al primo (rischio elevato): due o tre vetture blindate con tre addetti per ciascuna. Considerando turni, ferie, giorni di riposo e malattie se ne deduce un totale di quasi trenta uomini impegnati nella
Non beneficiano di scorta, com’è ovvio che sia, soltanto le alte cariche dello stato, ma rappresentanti istituzionali, magistrati, giornalisti e criminali pentiti più una folta pattuglia di “ex”: è dei giorni scorsi la notizia, riportata dal Foglio, che dal primo gennaio 2026 il governo ritirerà gli uomini dei servizi segreti dalla tutela dei già presidenti del Consiglio, però tra i circa seicento scortati italiani perdurano altri “ex” di qualche cosa cui resta garantita protezione. Magari in forma declassata, non più di primo o di secondo livello, ma un’auto con l’agente ce l’hanno ancora, con discusse e sporadiche eccezioni come quella del “Capitano Ultimo” Sergio De Caprio, l’ex ufficiale dei carabinieri che nel 1993 arrestò Totò Riina. Per lui fu un togli e metti, la scorta gli veniva revocata e riassegnata finché dal 2018 ne è stato privato definitivamente, come di scorta è stato privo il generale Mario Mori, l’ex comandante dei Ros finito nel tritacarne del famoso processo sulla trattativa stato-mafia da cui è sortito assolto, e soprattutto ancora vivo per gustarsi l’estenuata vittoria. Come l’ex ministro Calogero Mannino, altro vegliardo che l’ha spuntata, perché per misterioso paradosso l’accanimento giudiziario e persino la galera in qualche caso trasformano il ferro in acciaio e allungano l’esistenza di Giobbe.
Non percepita soltanto quale misura di protezione, talvolta la scorta è patita con disagio dalla personalità protetta, che percepisce la propria condizione come “una cattività”: lo ha affermato di recente ma già lo aveva lamentato Roberto Saviano, sotto protezione dal 2006 per le minacce dei Casalesi dopo l’uscita del libro Gomorra. “Quasi vita, quasi morte” sarebbe la routine dello scortato secondo lo scrittore, che
ammette di avere pagato il successo con pesanti conseguenze personali. Il drappello di carabinieri che ne assicura da quasi un ventennio l’incolumità assume i connotati di un’Aura Gloriae pesante quanto identificativa, un po’ come lo Khvarenah, l’alone consacrante che gli studiosi di zoroastrismo traducono nell’incandescenza divina che contrassegna la persona del suo portatore. Perdere lo Khvarenah da un lato renderebbe ordinaria la quotidianità di un personaggio, sobbarcandolo di oneri minuti eppur rimpianti, dall’ardua ricerca del parcheggio all’attesa speranzosa di un taxi; dall’altro tuttavia ne desacralizzerebbe le epifanie, con lo stesso effetto riduttivo che avrebbe sui credenti un improvviso ritorno alla raffigurazione aptera degli angeli, ossia senz’ali, come venivano dipinti nei primi tre secoli del cristianesimo.
Se qualcuno avanza il dubbio che, malgrado i disagi denunciati, gli aspiranti apteri non siano moltissimi (la rinuncia alla scorta soggiace, cristianamente, al libero arbitrio dello scortato), v’è anche la possibilità che il soggetto tutelato si ritagli di tanto in tanto qualche furtivo spazio di privacy. A proprio rischio, è vero, ma per quanto sia banale notarlo dà molto più nell’occhio una teoria di vetture blindate che un motociclista di cui non s’intravedono le fattezze sotto il casco integrale mentre si gode un giro solitario come un quisque de populo: assaporava così quel po’ di libertà Giuseppe Ayala, che fu pm nel maxiprocesso di Palermo. Tentò di assaporarla alla stessa maniera, perché – scorta o non scorta – l’uomo è di carne anche se siede all’Eliseo, il presidente francese François Hollande raggiungendo su uno scooter la casa dell’amante clandestina, l’attrice Julie Gayet, dopo essere sgattaiolato quatto quatto dal
Palais. Alla fine i reporter lo beccarono e sull’amour secret du Président scoppiò uno scandalo non dimenticato, grazie al quale il vecchio Piaggio Mp3 delle sue scappatelle è stato battuto all’asta per più di venticinquemila euro giusto un anno fa. L’uomo è di carne con o senza autoblu, come constatò a sue spese il presidente della regione Lazio, Piero Marrazzo, che non adottò la soluzione Hollande per le proprie distrazioni ma ci si fece accompagnare; l’uomo è di carne, come toccò considerare agli uomini di scorta di un celeberrimo pentito di Cosa nostra, il quale aveva precisato ai magistrati che senza visite periodiche alle professioniste dell’amore gli si sarebbe arrugginita anche la lingua. E continuò felicemente a parlare.
Ormai solo i non più giovanissimi possono ricordare in prima persona la cruenta stagione degli attentati mafiosi del ‘92/93. Lo stato versò sangue però vinse e gli esponenti di quella criminalità o sono morti o sono vecchi sparuti, murati al 41-bis come Leoluca Bagarella (non è il caso di Giovanni Brusca, che grazie al pentimento è tornato libero – e sotto scorta). Restano i misteri e le polemiche che si rinnovano a ogni commemorazione, nonché testimonianze residuali dell’epoca che fu: come il servizio di tutela riconosciuto ancora all’avvocato Alfredo Galasso, difensore di parte civile nel maxiprocesso di Palermo; o all’ex sindaco Leoluca Orlando, anche se le foto di copertina che lo ritraevano con il giubbotto antiproiettile attorniato dagli uomini coi mitra spianati sono, fortunatamente, sbiadita memoria di un’infausta storia. Ma la protezione è stata assegnata anche a chi è divenuto depositario successivo di quelle memorie come Maria Falcone, sorella del giudice massacrato a Capaci con Francesca Morvillo e la scort
il 23 maggio 1992. Cosa nostra è ridotta a un rimasuglio però i rischi sono sempre imprevedibili, sicché vive sotto massima protezione dal ‘93 il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, titolare di numerosi procedimenti giudiziari (e di ventiquattro cittadinanze onorarie). Con cospicuo dispiegamento di sirene che annuncia ogni mattina, al vicinato, la sua uscita di casa.
Certo che non è facile la vita degli scortati. Eppure, a farci l’abitudine, il felice o infelice protetto si rivela restio al cambiamento salvo rare eccezioni. Quando fu revocata la scorta all’ex procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, prima sceso in politica poi datosi all’avvocatura, per riaverla ricorse alla giustizia amministrativa e riottenne la tutela, benché impegnato su fronti meno rischiosi come la cura degli interessi legali di Gina Lollobrigida.
Ma non tutto si può ridurre ai freddi calcoli del rischio e a esigenze di sicurezza. C’è da osservare che tra scortanti e scortati può instaurarsi pure uno schietto rapporto di dimestichezza, per cui anche i primi vengono illuminati di riflesso – in Aura Gloriae – desiderando proseguire nel servizio. Se poi il tutelato si sposta di frequente, altrettanti sono i fogli missione compilati specie quando (com’è accaduto al procuratore capo della Repubblica di Roma, Francesco Lo Voi) alla personalità sono negati i voli di stato ed è costretta a viaggiare sugli aerei di linea come un qualunque passeggero, ma con due agenti a protezione.
Nei casi migliori, nei tempi lunghi delle tediose attese, tanti scortanti hanno potuto elevare il proprio livello di istruzione con full immersion nei corsi delle università telematiche. Non a cas
è un carabiniere in pensione, il professor Calogero Di Carlo, ad avere intuito le potenzialità degli atenei online diventando responsabile nazionale delle sedi d’esame della Pegaso. Nei casi peggiori qualcuno dovrà portare a scuola il rampollo della personalità protetta, costretto magari alla baruffa con i vigili urbani che si sono incaponiti a multarlo perché percorre un tratto pedonalizzato: accadde per il figlio di un ex presidente della Repubblica, che al mattino attraversava abitualmente con l’auto di scorta tutta via Condotti a Roma accompagnando il bambino. Qualcuno, ancora, avrà dovuto riempire alla vigilia di ogni vacanza estiva il Fiat Ducato provveduto in aggiunta per trasferire le masserizie del protetto in villeggiatura al mare con famiglia. L’estate è paventata come la stagione più crudele soprattutto da chi è assegnato a protezione delle eminenti personalità che vanno a refrigerarsi nei circoli di Mondello, mentre l’implacabile calura siciliana incrudelisce sulle madide sentinelle e avvampa i vetri fumé delle blindate.
Più spesso però tra scortanti e scortati si sviluppa un rapporto fiduciario e felice: a fine 2016 lo staff di Paolo Gentiloni appena diventato presidente del Consiglio suggerì per la scorta un tale agente dell’Aisi, il quale a sua volta caldeggiò un paio di colleghi; i tre rimasero in servizio a Palazzo Chigi anche con i premierati di Giuseppe Conte, finché all’epoca di Mario Draghi vennero tutti rimandati all’Agenzia informazioni e sicurezza interna né furono rimpiazzati con personale della polizia di stato, perché il premier pro tempore era rimasto soddisfatto del risparmio. Qualche volta, come accade in tanti ambienti di lavoro, possono affiorare disaccordi tra colleghi che si rivelano insanabili: successe nella scorta di Mario Monti, quando le
divergenze indussero a richiamare all’Aisi il caposcorta e il suo vice.
C’è scorta e scorta, come c’è rischio e rischio. Concreto, eventuale, aleatorio o divenuto tale col passaggio del tempo, che nei decenni divora anche i cattivi. Agli osservatori profani risulta che più sono tenui le minacce più la scorta la gestisce lo scortato. Non è propriamente la condizione di un “ostaggio” anche se le esigenze personali vanne conciliate con le cautele imposte, a meno di sottrarvisi di tanto in tanto in stile Hollande (vai a saperlo) o rinunciarvi proprio come fece, per esempio, Enrico Letta dopo aver lasciato la presidenza del Consiglio. In teoria, liberarsi della scorta è il desiderio vagheggiato da tutti quelli che ce l’hanno, anche se riprendere la condizione di angelo senz’ali – con i corrivi e obliati grattacapi di chi conduce un’esistenza comune – suscita un pizzico di inconfessata apprensione. Perché a tutto ci si abitua. L’epica dei lampeggianti che saettano nel traffico delle città, il riverbero del blu persino se affiochito nel modesto quarto livello di una vettura sola senza blindatura, rende ogni don Blasco memore di quando fu egli stesso il Giacomo XIII con “venti cavalli in istalla”.
Sic transit scorta mundi? Non siatene così sicuri.
(da ilfoglio.it)

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A INGUAIARE OCCHIUTO SONO I RAPPORTI CON IL SUO “CERCHIO MAGICO”: IL PRESIDENTE DELLA CALABRIA DI FORZA ITALIA, INDAGATO PER CORRUZIONE, DICE DI “NON ESSERE SERENO NEANCHE PER IL PIFFERO”

Giugno 16th, 2025 Riccardo Fucile

AD ALLARMARLO È IL DECRETO DI PERQUISIZIONE CHE LA FINANZA HA NOTIFICATO A PAOLO POSTERARO, SUO EX SOCIO E ATTUALE CAPOSEGRETERIA DEL SOTTOSEGRETARIO MATILDE SIRACUSANO, COMPAGNA DI OCCHIUTO … I PM INDAGANO ANCHE SULLA TRUFFA E SULLE NOMINE CHE A POSTERARO SONO FRUTTATE MEZZO MILIONE DI EURO: INCARICHI CHE GLI SONO STATI “CONFERITI DA PARTE DI PUBBLICI UFFICIALI CON I QUALI OCCHIUTO PUÒ VANTARE RELAZIONI”

“Sereno un piffero”. Aveva ragione il presidente della Calabria Roberto Occhiuto annunciando di essere indagato per corruzione. L’inchiesta della Procura di Catanzaro è molto più ampia. A inquietare il vicesegretario di FI sono le 12 pagine del decreto di perquisizione che la guardia di finanza ha notificato a Paolo Posteraro, suo ex socio e attuale caposegreteria del sottosegretario Matilde Siracusano, compagna di Occhiuto
I pm indagano anche sulla truffa e sulle nomine che a Posteraro sono fruttate mezzo milione di euro. Per l’esattezza “554 mila 217 euro”: incarichi che gli sono stati “conferiti – si legge – da parte di pubblici ufficiali con i quali Occhiuto può vantare relazioni”.
In un’informativa del 27 maggio c’è scritto che “Paolo Posteraro è legato a Roberto Occhiuto per esserne stato socio” in diverse aziende. Sono almeno cinque le Srl nel mirino del procuratore Salvatore Curcio: “Dalle intercettazioni sembra emergere che Posteraro avrebbe conferito denaro nelle comuni società, laddove Occhiuto si sarebbe limitato a trarne benefici”.
“Denaro; utilizzo esclusivo, per sé e per i propri familiari, di tre autovetture; pagamento di sanzioni per violazioni stradali
commesse da Marco Occhiuto (suo figlio, ndr); ricariche di una multicard utilizzata per il rifornimento di carburante”. Ancora: “Dalle ultime società nelle quali era socio con Posteraro”, all’inizio del 2025 “Occhiuto ha esercitato il diritto di recesso ottenendo la promessa di un rimborso di circa 135 mila euro”.
Nel pacchetto anche una Smart: Occhiuto l’ha acquistata a gennaio, per la figlia Angelica, alla modica cifra di 50 euro dalla Parametro Holding che nove mesi prima l’aveva pagata 13.500 euro. Ma le auto sarebbero due.
Questioni societarie e attività istituzionale sembrano la stessa cosa: nelle carte si parla di un incontro conviviale tra Posteraro e il governatore per definire la liquidazione di quest’ultimo. L’incontro non è stato intercettato, però, gli investigatori l’hanno ricostruito dal resoconto fatto al telefono da Posteraro: “Occhiuto sembra aver promesso un incarico in un ente riconducibile alla Regione Calabria, allo stato non ancora conferitogli”.
In ballo c’era la presidenza del Parco Nazionale d’Aspromonte: “Sulla mancata nomina che, in un primo momento potrebbe essere stata promessa a Posteraro, potrebbe avere inciso l’interessamento del deputato Francesco Cannizzaro (non indagato, ndr)”. Una parte dell’inchiesta ruota attorno alla “Tenuta del Castello Società Agricola”: nell’aprile 2022 Occhiuto ha venduto le sue quote (il 48%) a Posteraro che, così, è diventato proprietario al 99% mentre il restante 1% era di un altro fedelissimo, l’ex collaboratore parlamentare Vincenzo Massimo Pezzuto (non indagato).
Due soci di un’azienda privata di Occhiuto e due incarichi pubblici: Posteraro alle Ferrovie della Calabria (e nella
segreteria della compagna) e Pezzuto alla Regione, come responsabile amministrativo della sua struttura speciale. Pure a Valentina Cavaliere, consulente della “Tenuta”, l’ufficio collocamento di Occhiuto avrebbe garantito un posto pubblico. Anzi due.
Fondi pubblici finiti su conti correnti privati. Anche in quello di Occhiuto la cui azienda agricola aveva “ricevuto un finanziamento di 58 mila euro relativo alla partecipazione ad un progetto comunitario Tracewindu”, finanziato dall’Ue. Per i magistrati “somme incamerate dalla società, ma né giacenti nelle casse sociali né destinate all’uso per il quale erano state erogate”. L’importo sarebbe stato “totalmente distratto” con cinque bonifici uno dei quali, da “12 mila euro”, per Occhiuto.
I pm non hanno dubbi: “Ne emerge, allo stato, il fumus di una malversazione nonché, qualora fosse accertata la carenza dei presupposti per l’ammissione al finanziamento, di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche”.
(da Il Fatto Quotidiano)

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IL 67,9% DEGLI ITALIANI HA FIUTATO IL DOPPIO STANDARD: L’EUROPA SI E’ MOBILITATA A DIFESA DELL’UCRAINA, SANZIONANDO LA RUSSIA DI PUTIN, MA NON MUOVE UN DITO PER DIFENDERE GAZA DALLA BRUTALITA’ DELL’ESERCITO ISRAELIANO

Giugno 16th, 2025 Riccardo Fucile

GHISLERI: “IL 66,3% DEL CAMPIONE INTERVISTATO RITIENE CHE I GOVERNI EUROPEI STIANO FACENDO POCO O NULLA NEL MERITO. IN MAGGIORANZA I CITTADINI ITALIANI (42,4%) SEPARANO IL POPOLO PALESTINESE DA HAMAS NEI LORO GIUDIZI

Gran parte degli italiani è convinta che i governi europei e la stessa Ue non mettano sullo stesso piano i conflitti israelo-palestinese e russo-ucraino. La percezione della differenza di atteggiamento rispetto alle due guerre alle porte del continente è dimostrata dai numeri. Quasi il 70% degli intervistati nel sondaggio realizzato da Only Numbers per la trasmissione Porta a Porta sostiene che esiste una differenza importante nell’approccio.
Il 67,9% dei cittadini percepisce quindi un doppio standard nei principi dichiarati. Da una parte l’Unione europea difende con forza il diritto internazionale in Ucraina sui principi della sovranità e di integrità territoriale, mentre è ritenuta meno interventista e più soft nell’approccio al conflitto sui territori di Gaza.
Il 66,3% del campione intervistato ritiene infatti che i governi europei stiano facendo poco o nulla nel merito. Nel conflitto russo-ucraino l’Unione europea ha assunto una posizione netta contro l’invasione russa, imponendo sanzioni severe alla Russia e fornendo sostegno militare, economico e politico all’Ucraina, mentre nella guerra in Medio Oriente le sue posizioni appaiono più sfumate.
Molti governi in Europa sostengono il diritto di Israele alla difesa, ma allo stesso tempo esprimono preoccupazione per le vittime civili di Gaza e per l’espansione degli insediamenti; tuttavia, in questo caso, le sanzioni o le misure concrete che si registrano sono rare.
Affiora una maggiore sensibilità alla causa palestinese tra l’elettorato di centro sinistra che legge il conflitto come uno squilibrio di potere in cui i diritti umani e la giustizia sociale sono stati messi da parte. Anche tra gli elettorati di centro destra si trova una certa condivisione di questi principi, ma che viene promossa con minore vigore.
Se tra le fila del Partito Democratico e di Alleanza Verdi e Sinistra queste convinzioni si avvicinano al 100% delle indicazioni, nell’elettorato di centro destra non superano il 60%. Significativo è il 51% dei sostenitori di Forza Italia, che seguendo le indicazioni del loro leader, Antonio Tajani, è persuaso che i governi dei diversi Paesi europei stiano facendo tutto il possibile per fermare quanto sta avvenendo a Gaza.
A differenza che in Ucraina, la sofferenza della popolazione palestinese è spesso causata sia dalle scelte politiche e belliche interne di Hamas sia di quelle di Israele, ed è proprio la gente, le famiglie, i bambini che ne stanno pagando il prezzo senza avere un reale controllo.
In maggioranza i cittadini italiani (42,4%) separano il popolo palestinese e il movimento politico e militare di Hamas nella considerazione dei loro giudizi. Un cittadino su tre (28,6%) li separa nella considerazione, ma denuncia una certa connivenza, mentre il 12,6% li identifica in un’unica soluzione.
È evidente che risulta importante distinguere tra le diverse posizioni, per evitare facili generalizzazioni che possono alimentare incomprensioni e pregiudizi politici. Tuttavia, osservando i risultati del sondaggio, si vede come il centro sinistra italiano tende ad essere più vicino alla causa palestinese a differenza degli elettori di centro destra.
Questo avvicinamento non è universale, ma è una tendenza visibile in molti contesti europei e globali in cui Israele è percepito come una potenza occupante e militarmente dominante, mentre i palestinesi come un popolo privato della propria autodeterminazione.
Alessandra Ghisleri
per “la Stampa”

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