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ALTRO CHE PORTI CHIUSI E MULTE A CHI SOCCORRE: I DECRETI DI SALVINI VIOLANO LE LEGGI

ECCO IL QUADRO GIURIDICO LA CUI VIOLAZIONE PORTA DRITTI DAVANTI ALLA CORTE DI GIUSTIZIA INTERNAZIONALE

“La guardia di frontiera e costiera europea garantisce la tutela dei diritti fondamentali nell’esecuzione dei suoi compiti a norma del presente regolamento in conformità  del pertinente diritto dell’Unione, in particolare la Carta, il diritto internazionale pertinente, compresi la convenzione del 1951 relativa allo status di rifugiati e il suo protocollo del 1967, così come degli obblighi inerenti all’accesso alla protezione internazionale, in particolare il principio di non respingimento”: così la Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, che   l’Italia ha sottoscritto, garantisce che, nel portare a termine i suoi compiti di controllo e gestione dei confini dello spazio Schengen, l’agenzia Frontex tuteli i diritti umani come stabilito dal quadro giuridico di riferimento.
È proprio sulla base dei principi definiti anche da questa regolamentazione che le Nazioni Unite hanno chiesto all’Italia di ritirare, prima ancora che venisse approvato, il decreto sicurezza bis, la misura fortemente voluta dal ministero dell’Interno in cui veniva ulteriormente inasprita le normativa in materia di immigrazione.
“Il diritto alla vita e il principio di non respingimento dovrebbero sempre prevalere sulla legislazione nazionale o su altre misure presumibilmente adottate in nome della sicurezza nazionale”, scrive la nota, esortando le autorità  italiane a “smettere di mettere in pericolo la vita dei migranti, compresi i richiedenti asilo e le vittime della tratta di persone, invocando la lotta contro i trafficanti. Questo approccio è fuorviante e non è in linea con il diritto internazionale generale e il diritto internazionale dei diritti umani”.
Ma vediamo con ordine la struttura giuridica sovranazionale con la quale si scontra il decreto di Matteo Salvini.
Il primo fra i diritti: il diritto alla vita
La Gazzetta ufficiale dell’Ue rimanda in primo luogo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, conosciuta anche come Carta di Nizza, un documento pienamente vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri, che si propone di definire i diritti essenziali che devono essere garantiti in modo imprescindibile in qualsiasi contesto.
Fra questi, vengono affermati il diritto alla vita, all’integrità  degli individui e alle libertà  della persona, la proibizione della tortura così come di trattamenti inumani e degradanti e il rifiuto della schiavitù; vengono poi sancite uguaglianza, solidarietà  e il principio di non discriminazione.
La Carta riprende quindi l’orizzonte ideale della Dichiarazione universale dei diritti umani, redatta e approvata dai membri delle Nazioni Unite nel 1948, una linea con cui, secondo gli esperti dell’Onu, il decreto sicurezza cozza, “minacciando i diritti umani dei migranti, fra cui ci sono richiedenti asilo e vittime di tortura, di traffico di umani e di altri gravi abusi”.
Nessuna direttiva nazionale e nessuna azione politica del singolo Stato può in alcun modo negare o venire prima di questi diritti: non si tratta quindi semplicemente di una questione morale, ma di principi affermati dalla giurisdizione sovranazionale a cui l’Italia, come membro dell’Ue e dell’Onu, deve fare riferimento.
Infatti, la Costituzione italiana agli articoli 10, 11 e 117, afferma che le posizioni dell’autorità  politica non possono in alcun modo derogare i trattati internazionali sottoscritti.
Ma ci sono anche altre clausole legislative più precise che mettono in discussione la direttiva del Viminale.
Per fare chiarezza, procediamo in ordine cronologico.

Il primo riferimento giuridico alla protezione delle vite in mare risale al 1914, quando l’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), un istituto delle Nazioni Unite, ha deciso di redigere la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (Solas) in seguito al naufragio del Titanic.
Nel 1951 viene invece emanata la Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati, un trattato dell’Onu che definisce chi sono i soggetti aventi diritto alla protezione internazionale e quali sono le responsabilità  dei Paesi che si adoperano per garantire l’asilo agli stessi.
Anche il contenuto di questo documento fa riferimento alla Dichiarazione universale del 1948, specialmente all’articolo 14, e riconosce il diritto a chiedere asilo presso un Paese se in quello di origine vengono minacciate la vita e l’integrità  della persona, ma anche la sua dignità  e libertà .
L’articolo 33 della convenzione del 1951, ribadito anche nel Protocollo firmato a New York nel 1967 e in quello addizionale alla convenzione Ue, è particolarmente fondamentale quando si tratta di flussi migratori verso l’Ue: questo stabilisce il principio di non respingimento, per cui ad un rifugiato non può essere impedito l’ingresso sul territorio, nè egli può esso essere deportato, espulso o trasferito verso luoghi in cui rischierebbe la persecuzione.
“Ciò si riferisce principalmente al paese dal quale l’individuo è fuggito, ma comprende anche ogni altro territorio dove l’interessato si trovi di fronte ad una simile minaccia”, ribadisce anche il rapporto redatto dall’IMO e dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) che si occupa di soccorso in mare.
Lo status di rifugiato non viene automaticamente attribuito a tutti i migranti, ma il quadro giuridico della Corte europea lo applica indipendentemente dal riconoscimento ufficiale o dal fatto che la domanda di asilo sia stata formalizzata
Cosa sono le zone Sar e come si determina un porto sicuro
Nel 1979 viene siglata ad Amburgo la Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, elaborata dall’IMO. Questo è il documento a cui fanno riferimento i diversi ordini della Guardia costiera nazionali nel coordinare le operazioni di ricerca e soccorso (Sar) in mare.
Il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo italiano (Imrcc), in base al trattato, ha il compito di gestire le operazioni di soccorso nell’area di sua competenza, collaborando con gli omologhi internazionali.
La complessità  nel definire le varie zone Sar è stata negli ultimi anni un motivo di scontro fra i governi europei, che si sono accusati a vicenda di non adempiere alle proprie responsabilità  in materia di soccorso in mare.
Fanpage.it ha contattato l’avvocato Dario Belluccio, socio dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), per comprendere meglio cosa siano queste zone e gli obblighi concreti che comporta la loro istituzione per i vari Paesi.
L’avvocato ha sottolineato come in primis sia importante fare una distinzione: “La zona Sar non è una zona in cui lo stato esercita la sovranità , non fa parte dello Stato. Colui che esercita il controllo dovrà  coordinare le attività  di soccorso, ma ovviamente non si può impedire a terzi di navigare in una zona che non fa parte delle acque territoriali”. Queste zone, ha spiegato Belluccio, vengono dichiarate unilateralmente all’IMO, ma il riconoscimento ufficiale non è sufficiente: “Lo Stato deve anche avere gli strumenti per poter portare effettivamente a termine operazioni Sar e si deve adeguare sia alle convenzioni internazionali che tutelano la vita umana”.
In passato sono nate controversie sull’esistenza effettiva o meno di una zona Sar libica e sulla legittimità  dei governi europei di collaborare con le autorità  di Tripoli: “Indipendentemente dai dubbi riguardo all’effettiva esistenza dello Stato libico, stiamo parlando di soggetti che non hanno controllo sul proprio territorio nazionale e sicuramente non hanno la capacità  di operare in ambito di convenzioni internazionali”, ha chiarito Belluccio.
Tuttavia, ha specificato l’avvocato, “la convenzione Sar è una convenzione che si rivolge innanzitutto ai natanti, prima ancora che agli Stati. Ogni natante è tenuto ad intervenire in caso di emergenza: il comandante di qualsiasi nave ha l’obbligo di effettuare operazioni di salvataggio nel momento in ci sia notizia di una situazione di pericolo in mare. Questi obblighi si concludono nel momento in cui le persone salvate vengono portare in un porto sicuro (place of safety, pos)”.
Anche l’individuazione di un porto sicuro è una questione che ha sollevato numerosi dubbi e controversie in materia di accoglienza di migranti.
Secondo la Convenzione di Dublino, qualsiasi richiedente asilo, entrando nello spazio Schengen, deve presentare la propria domanda nel Paese di primo approdo, indipendentemente da quale sia la sua destinazione finale.
Negli ultimi anni, questo ha costretto Paesi come l’Italia e Malta a farsi carico delle operazioni di prima accoglienza, per cui le autorità  hanno iniziato a mostrare una certa riluttanza nell’offrire un proprio porto come luogo sicuro.
La recente retorica del ministero dell’Interno italiano ha spesso puntato il dito verso altri Stati costieri, spingendoli ad indicare un pos lungo le loro coste utilizzando l’argomento della vicinanza, quando si sono verificati episodi di naufragio di migranti nel Mediterraneo. “Il porto sicuro non è il porto più vicino. Su questo la normativa è chiarissima: il porto che viene definito sicuro è il luogo dove possono essere portate a termine le operazioni di salvataggio e le persone possono essere poste in sicurezza; inoltre devono avere la possibilità  di esercitare i diritti fondamentali della persona umana”, ha precisato Belluccio.
“Il fatto che uno Stato non voglia o non possa garantire determinati diritti non costituisce in alcun modo una giustificazione per gli altri Stati, ciò è banale”, ha continuato l’avvocato, aggiungendo che nonostante sia “impossibile andare ad incidere su quelle che sono le determinazioni di altri Paesi, ciò non esclude che i Paesi dell’unione europea, l’Italia in primis, siano comunque tenuti e vincolati a rispettare tali obblighi”.
Determinare un porto sicuro è quindi un’azione che varia caso per caso, spesso dipendendo dalle contingenze del momento.
Quando la discrezione politica viola i diritti umani
“Il comandante ha delle prerogative. È l’unico che può dire, rispetto alle condizioni del mare, se sia opportuno o meno andare in una direzione, piuttosto che in un’altra. Inoltre è anche l’unico che conosce la situazione reale che si presenta sulla sua nave, per cui anche la condizione delle persone a bordo in termini di sanità  e sicurezza o eventuali vulnerabilità . Sono valutazioni che può fare solo lui”, ha affermato Belluccio. Chiaramente il comandante deve consultarsi anche con le autorità  competenti, che dovranno partecipare all’indicazione di un porto sicuro: “Ma se viene chiesto all’Italia di segnalare un porto sicuro, l’Italia non può indirizzare verso la Turchia, verso Malta o verso la Tunisia, perchè evidentemente ciò andrebbe al di là  delle proprie competenze. Può indicare un luogo sicuro fra i porti del proprio territorio, ma il Viminale non ha potere di governare e amministrare i porti di altri stati sovrani”. Continuando a fare il punto della situazione su quella che è una tematica attualissima, visti anche i recenti casi che hanno coinvolto le navi Sea Watch e Mare Jonio, l’avvocato ha spiegato che, in caso non venga assegnato un porto sicuro, il comandante non ha il potere di far sbarcare le persone a bordo della sua nave, “ma questo si ricollega ad una responsabilità  dello Stato che nega l’indicazione di un luogo sicuro”. Questo fatto, potrebbe rappresentare una seria infrazione dei diritti umani, perchè “se nella nave ci sono delle persone in pericolo di vita o le condizioni a bordo dovessero risultare umanamente degradanti, evidentemente lo Stato che nega l’attracco può essere sanzionato da parte anche della Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione degli articoli 1 (diritto alla vita) e 2 (trattamenti umani degradanti) della convenzione Ue”.
Inoltre, ha precisato Belluccio, assumendosi la facoltà  di determinare la chiusura di un porto, il ministero dell’Interno assumerebbe una competenza concorrente a quella del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.
Secondo un altro trattato fondamentale che regola la giurisdizione marittima, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos), firmata a Montego Bay nel 1982, l’attracco ad un nave può essere negato solo in alcuni specifici casi, fra cui lo sbarco illegale di persone su territorio nazionale.
“Ma come fa un’autorità  amministrativa, in questo caso appunto il ministero dell’Interno italiano, a sapere se su quella nave ci siano persone che stanno effettivamente compiendo una azione illegale? Se su quella nave ci sono delle persone che hanno intenzione di fare richiesta di asilo, di protezione internazionale, allora l’ingresso di quelle persone in Italia è consentito dalla legge, è consentito dall’articolo 10 comma 3 della Costituzione, ed è consentito dalla convenzione di Ginevra del 1951. Se su quella nave vi sono dei minori non accompagnati, il loro ingresso in Italia non determina alcuna irregolarità  perchè per legge sono titolari di un permesso di soggiorno. Ad oggi si vuole forzare su questa indicazione di Montego Bay scollegandola però dalle convenzioni internazionali in materia”.
Una questione di priorità 
Secondo Belluccio, è essenzialmente “pericoloso il fatto che, sulla base della normativa relativa al procedimento per l’irrogazione delle sanzioni amministrative, cioè la legge 689 del 1981, si preveda che sia il Prefetto a poter stabilire determinate sanzioni nei confronti della nave che abbia trasgredito all’ordine dell’autorità  amministrativa, e contestualmente sia lo stesso Prefetto, cioè un organo del ministero dell’Interno, a poter operare il sequestro cautelare della nave”.
In sostanza, questo significa che il governo ha la facoltà  di ostacolare le operazioni Sar, un’attività  stabilita da trattati che portano anche la firma italiana, come si è visto. “Si è arrivati ad una forma di criminalizzazione diretta e stabilita per legge delle navi che operano in attività  Sar. Attraverso un apparato di sanzioni si ostacola ad operare. Ma non ci sono mai stati episodi di violazioni delle convenzioni internazionali e nemmeno della normativa nazionale in materia di salvataggio e soccorso dei naufraghi da parte della Marina militare italiana o di navi private italiane o straniere. Inoltre dobbiamo considerare che queste navi non si dirigono verso Paesi terzi per portare vie le persone e traendone una qualche forma di profitto. Queste sono imbarcazioni che salvano dei naufraghi in mezzo al mare”.
“Il punto fondamentale è che nell’ambito dei valori che vengono stabiliti dalle costituzioni e che vengono riconosciuti a livello internazionale, evidentemente il più alto e il più importante è il diritto alla vita. Chi opera per salvaguardare questo valore, che è il più grande di tutti quanti, non può essere sanzionato, non può avere ostacoli. Questo per un giurista è un fatto banale, ma dovrebbe esserlo per qualsiasi persona. Purtroppo oggi si sta verificando una progressiva inversione del paradigma analitico con cui siamo abituati a attribuire maggiore o minor valore a determinati diritti, e quello alla vita per le persone povere e straniere sembra ora soccombere rispetto ad altre questioni”, ha concluso l’avvocato.

(da “Fanpage“)

This entry was posted on sabato, Maggio 25th, 2019 at 15:08 and is filed under Immigrazione. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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