BERLUSCONI DAL PALCO: SBERLE AL COLLE E GAFFE SULLA SARDEGNA
A CAGLIARI PER UN COMIZIO, BERLUSCONI ATTACCA NAPOLITANO: “NON LO RIVOTEREI, FU COMPLICE NEL COLPO DI STATO CONTRO DI ME”… POI UNA SERIE DI GAFFE
Il vecchio marpione torna sulla pista — due mesi dopo la decadenza — ma dei suoi vecchi numeri di successo non gliene riesce nemmeno uno.
I duemila tifosi irriducibili che lo aspettano per oltre due ore alla Fiera di Cagliari – ingannando l’attesa con le prove dei cori e dei calorosi applausi per la degna accoglienza — vengono travolti da una raffica di gaffe che stringono il cuore anche al più spietato antiberlusconiano.
Per non parlare dello scivolone prettamente politico: non si sa se per calcolo o per distrazione, B. molla uno schiaffone a Giorgio Napolitano, dicendo a chiare lettere, in un’intervista pomeridiana alla tv cagliaritana Videolina, che oggi non lo rivoterebbe.
Poi spiega: “La storia giudicherà quella che è stata la parte del presidente della Repubblica in questo colpo di Stato del 2011, che è stato lungamente preparato a partire dal 2010 e anche per quanto riguarda l’ultimo, altrettanto negativo colpo di Stato, quello di condannare ingiustamente, con una sentenza lontana dal vero e scandalosa, il leader del centrodestra”.
Il presunto colpo di Stato del 2011 (con la nascita del governo Monti) avviene però un anno e mezzo prima della decisione di B. di rieleggere Napolitano.
E la riapertura delle ostilità — condita con l’accusa al Colle di aver interferito nella trattativa con Matteo Renzi sulla nuova legge elettorale per aiutare i “partitini” a ottenere l’innalzamento dal 35 al 37 per cento della soglia per il premio di maggioranza — mette in imbarazzo il leader del Pd, Matteo Renzi, strenuamente impegnato nella rilegittimazione di B.
Il fatto è che la domanda delle domande (“ci fa o ci è?”) non attraversa solo le attonite schiere renziane ma anche la platea dei suoi ultras cagliaritani.
La cui pazienza è stata messa a dura prova da oltre due ore di attesa seguite da 75 minuti di discorso monocorde che si è concluso alle 14,40, ma anche dagli infortuni del capo.
È bastato il primo a stendere sulla platea un gelo irrimediabile.
Per giustificare le due ore di ritardo B. dà la colpa alla Capitale alluvionata: “Oggi Roma sembrava la Sardegna, ho impiegato più di un’ora per raggiungere l’aeroporto di Fiumicino”.
Poi umilia il presunto astro nascente di Forza Italia presentandolo per quello che è, un illustre sconosciuto: “Si chiama Giovanni Toti, dai, alzati, fatti vedere”.
Il poveretto, in platea, si tira in piedi per salutare con qualche imbarazzo la folla festante, quando il capo gli dà il colpo di grazia, giusto per rassicurare i maggiorenti del partito ingelositi dal nuovo pupillo: “Io non rottamo nessuno. Toti è solo uno che ha rinunciato a uno stipendio altissimo in Mediaset per venire a collaborare con me. L’ha fatto per amor mio, ma voglio precisare che non siamo due gay”.
Il governatore sardo Ugo Cappellacci, in piedi accanto a B., ma giù dalla pedana per attenuare quei trenta centimetri di statura che li separano, sente il bisogno irrefreneabile di dire la prima frase della giornata: “Non avevo dubbi”.
E mentre il Toti, frantumato dalla presentazione, esce rapido dalla sala per andare ad accendersi una sigaretta , il Cappellacci non sa che, a dispetto del tempestivo omaggio alla virilità del capo, adesso tocca a lui.
B. prima insiste per un po’ sulla gag stucchevole di chiamarlo Franco, per poi spiegare che non sta sbagliando ma gli viene di chiamarlo per l’ossessione del governatore uscente e aspirante rientrante per l’ideona della “zona franca integrale” (la Sardegna che viene risollevata dalla sua crisi drammatica ottenendo l’esenzione dal pagamento delle tasse di ogni ordine e grado). Anzichè provare a spiegare alla tifoseria speranzosa se tale strampalata proposta ha un minimo grado di realizzabilità , B. decide di raccontare una barzelletta che chiunque ha già sentito alle elementari o al più tardi alle medie.
E dunque c’è un signore che va da B. presidente del Consiglio (tutta la narrazione berlusconiana è ormai segnata da queste senili nostalgie di quando eravamo giovani e potenti) e chiede di poter cambiare il suo nome, visto che si chiama Giancarlo Merda.
Il potente e sensibile politico fa tutto quello che sa e deve fino a che il buon signor Merda risolve il suo problema.
Soddisfatto, B. lo chiama per sapere quale nuovo nome si è scelto. E indovinate qual è stata la scelta? “Ugo Merda”, grida trionfante il vecchio comico.
La sala ammutolisce. Sbianca addirittura l’Ugo originale, che al capo deve tutto, ma ancora si ricorda che cinque anni fa, quando lo lanciò contro Renato Soru, lo presentò con un discorso fluviale che terminò con il fulminante: “Ugo, dì qualcosa anche tu”.
Ora Cappellacci avrà di che rimpiangere il soprannome di allora, “Ugo-dì-qualcosa-anche tu”, se nelle due settimane di campagna elettorale che lo separano dal voto regionale del 16 febbraio gli toccherà — come pare ormai inevitabile — qualche dose di “Ugo-Merda”.
B. invece va avanti come un treno. Snocciola i suoi ricordi, rimpianti e nostalgie, tiene una interminabile lezione di diritto costituzionale per spiegare ciò che Renzi dice in tre parole (“il Senato si leva”), finisce per annoiare i tifosi al punto che, alle 14,25, una voce si leva dalla platea: “Silvio, parla della Sardegna!”.
Silvio rimane per un momento immobile, come se gli avessero dato un pugno.
Non se l’aspettava la rivolta del fan affamato e irritato. È un attimo.
Poi si riprende: “Ti invito a pranzo, così ne parliamo dall’antipasto al gelato”.
Ma nessuno gli crede.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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