“CHIEDIAMO GIUSTIZIA”: IL DENUNCIA DAY DEI FAMILIARI DEI MORTI PER COVID A BERGAMO
IL COMITATO “NOI DENUNCEREMO”: MERCOLEDI’ 10 SARA’ PRESENTATO L’ESPOSTO
L’ultima volta che Claudio Longhini è uscito di casa sulle sue gambe era il 2 marzo. “Pochi giorni fa ho trovato il coraggio di scendere nel box dove aveva l’auto. C’era l’ultima Gazzetta dello Sport che ha comprato. Segnava quella data”, racconta ad HuffPost Cristina, sua figlia. Quello che succede nelle due settimane dopo è un mix di dolore, rabbia, mancanza di assistenza. Disperazione dei familiari. E della sensazione, maturata mettendo in fila i fatti, che Claudio – bergamasco morto per Covid il 19 marzo, a 65 anni – nei giorni che avrebbero potuto essere cruciali per la diagnosi e la cura sia stato abbandonato. E con lui la sua famiglia.
Per questo motivo, mercoledì 10 giugno Cristina sarà davanti alla procura di Bergamo. In mano avrà l’esposto contro ignoti da consegnare ai magistrati.
Con lei ci sarà Diego Federici, che ha perso in pochi giorni entrambi i genitori per il coronavirus, Monica Plazzoli, moglie di Armando Invernizzi, morto per Covid nel giorno in cui i decessi in Italia erano quasi mille. E tanti altri familiari di vittime dell’epidemia.
Sarà un giorno simbolico, sarà il Denuncia day. “Non abbiamo il dito puntato contro i medici che erano in prima linea, anche loro sono vittime. Chiediamo, però, che si accerti la responsabilità di chi ha sbagliato nella gestione dell’emergenza”, spiega ad HuffPost Luca Fusco, fondatore del Comitato Noi denunceremo.
Insieme a suo figlio, Stefano, ha creato un gruppo Facebook all’indomani della morte per Covid di suo padre. “Abbiamo invitato le persone a raccontare la storia dei loro cari. Morti a Bergamo, ma non solo. Non ci aspettavamo tutte queste adesioni”. Il gruppo oggi conta 55mila iscritti, di tutta Italia. Dopo aver condiviso il loro dramma, hanno deciso di trasformare in esposti contro ignoti alcune storie. Quelle in cui sembra esserci qualcosa che non ha funzionato.
“Il nostro obiettivo è capire chi ha fatto errori. Non ci interessa il risarcimento, non sono i soldi il nostro obiettivo. Ci interessa la giustizia”, continua.
Accertare in giudizio eventuali responsabilità non sarà facile. Dal comitato lo sanno, ma non è questo a scoraggiarli.
E il loro sguardo è rivolto soprattutto verso la Regione e le Agenzia di Tutela della Salute (Ats): “Ci limitiamo a raccontare ai magistrati quello che è successo. Fontana è convinto di non aver sbagliato? Se ci sarà un processo, lo dirà in quella sede”, chiosa Fusco.
Con gli esposti si partirà da Bergamo, ma altre persone sono pronte a fare la stessa cosa in tutta Italia: “Mercoledì presenteremo i primi 50 atti. Poi ci saranno gli altri”, racconta ad HuffPost Consuelo Locati, avvocato del comitato. “Ci sono migliaia di parenti che vogliono spiegazioni. Qualcosa non ha funzionato nell’emergenza. Penso alle tante persone morte in casa, agli ospedali al collasso, al piano pandemico inesistente, ai medici di base che non facevano le visite. E allo stato di abbandono sono state lasciate le persone”. Il termine abbandono ricorre spesso quando si parla con i familiari delle vittime di Covid. E anche l’avvocato Locati è tra loro: suo padre è stato ucciso dal virus.
“Oltre alle falle nella gestione, in Lombardia è mancato quel senso di protezione, di accudimento, da parte delle istituzioni. Da quello che mi raccontano i miei amici che vivono lì, in Veneto questo non è successo”.
Passato lo tsunami, i familiari chiedono la verità : “Per ora agiamo in sede penale, anche se sappiamo che potrebbe essere complicato, in alcuni casi, accertare le responsabilità , perchè c’è un groviglio di atti e delibere regionali che si sovrappongono. Stiamo, però, valutando anche di agire in sede civile. Lo faremo probabilmente a settembre”.
Anche Locati tiene a precisare che l’obiettivo del comitato è appurare le responsabilità istituzionali. “Nessuno crede che i colpevoli dei malfunzionamenti siano i medici che sono stati buttati in trincea. Ma, a livello più alto, c’è stato un momento in cui l’interesse economico è stato ritenuto prevalente rispetto alla salute”.
Cristina ricorda tutto degli ultimi giorni di vita suo padre Claudio. Non era lì, accanto a lui. Non poteva esserci, ma ricorda l’angoscia, il senso di impotenza, il tentativo di fare qualcosa per salvarlo. “Papà era andato in pensione a dicembre. Stava bene, aveva il diabete ma lo teneva sotto controllo. Se quel 2 marzo gli avessero detto che da lì a due settimane se ne sarebbe andato, non ci avrebbe creduto”. Claudio inizia ad avere la febbre, poi i problemi intestinali, la debolezza, la perdita dei sensi. Da parte dei familiari, l’ansia crescente, la difficoltà nel trovare un dottore che lo visitasse – “ne abbiamo trovato uno dopo un lungo giro di telefonate. Il medico di base si rifiutava di venire”, racconta ancora Cristina, che pur vivendo a Milano in quei giorni cerca di fare il possibile per il padre che sta a Bergamo. La famiglia si rivolge al numero per l’emergenza. Risposta: “Fino a quando non ha una crisi respiratoria, non veniamo”. La moglie di Claudio riesce finalmente a trovare un medico disposto a visitarlo. La saturazione è bassa, parte la corsa in ospedale. Poi la diagnosi: Covid-19.
“Dalla struttura di Bergamo ci chiedono di collaborare per trovare un posto in terapia intensiva, ci dicono che altrimenti papà non si salverà . Proviamo a cercarlo, sentendoci addosso anche questo peso. Iniziamo a telefonare a tutti quelli che conosciamo”. In terapia intensiva Claudio non arriverà mai. Morirà il 19 marzo, dopo essere stato intubato. Cristina a quel punto deve andare in ospedale: sarà costretta a fare un riconoscimento in fretta e furia. Necessario perchè il padre non aveva i documenti. Può farlo solo lei, perchè la mamma ha i sintomi del Covid, anche se nessuno le farà mai un tampone, e sorella in quei giorni non sta bene. Poi il calvario per scoprire dove era stata portata la salma: “Abbiamo scoperto che era stata cremata a Ferrara, portata lì dall’esercito, solo quando è arrivata la fattura”. La famiglia è riuscita a salutare Claudio un mese dopo la sua morte. Quindici minuti nel cimitero di Bergamo. Il tempo è passato, il dolore resta lì: “Sono farmacista e a Milano vedo la gente che fa scorta di farmaci per partire, in vista dell’estate. Ecco, a noi resta un lungo inverno. La cattiva stagione per noi non è mai finita”.
Per Diego Federici inizia tutto il 18 marzo: “Vado a casa dei miei genitori e trovo mamma a terra con una crisi respiratoria e la febbre alta e papà in stato confusionale. Il 118, vista la gravità della situazione, porta via prima mamma, all’ospedale di Treviglio. Poi viene a prendere papà , ma lo portano in un’altra struttura”. Sarà l’ultima volta che Diego vede i suoi genitori, Renato, 72 anni, e Ida, 73. Per entrambi stessa diagnosi: Covid.
“Mamma stava male – continua Diego parlando ad HuffPost – ci dicono che sta per morire ma che non ce la possono far vedere. Poi le sue condizioni migliorano. Resta in reparto, è stabile. Papà sembra stare meglio. È su un lettino del pronto soccorso, perchè non c’è spazio”. La situazione, però, precipita anche per Renato: si aggrava in poche ore, e se ne va il 21 marzo. Ida vive ancora qualche altro giorno. Poi, un’altra telefonata sconvolge Diego: “Ci hanno detto che le stavano dando la morfina perchè era peggiorata. A quel punto ho domandato perchè non provassero a metterle il casco o a intubarla. Mi hanno risposto che stavano facendo in modo che andasse via senza soffrire”. Ida muore il 25 marzo. Intanto, ai due figli nessuno fa un tampone: “L’Ats ci considera una volta sola. Quando ci dice di restare in quarantena fino al 1 aprile”.
Poi il vuoto e la solitudine. Oltre al dolore della doppia perdita, la consapevolezza di aver potuto contrarre il Covid e di non avere modo per scoprirlo. Se si chiede a Diego cosa non abbia funzionato, risponde: “Niente. Siamo stati trattati come numeri. Oltre alla carenza di umanità , siamo stati ignorati dalle istituzioni che avrebbero dovuto aiutarci. A ciò aggiungo che non ho ancora ricevuto la cartella clinica di mamma. Perchè?”. È solo una delle domande che Diego si pone. Ha 35 anni e tanta rabbia. Quella di chi in un attimo ha visto una malattia sconosciuta portarsi via mamma e papà . E si è trovato solo, senza il sostegno delle autorità sanitarie, ad affrontare il baratro.
Tira un sospiro profondo Monica Plazzoli prima di iniziare a parlare del suo Armando. I giorni prima della morte sono un ricordo confuso: “Non so come abbia fatto a tirare avanti”, racconta ad HuffPost. Suo marito aveva 66 anni, stava bene, faceva l’elettricista e “con tre figli in casa, non ci pensava proprio ad andare in pensione”. Armando si ammala presto, i primi sintomi il 23 febbraio. Solo due giorni prima, da Codogno, era arrivata la notizia del paziente
“Era una febbre strana – racconta Monica – andava e veniva. Non scendeva con la Tachipirina”. Passa il tempo e Armando peggiora. Anche Monica si ammala per qualche giorno. La figlia telefona al numero per le emergenze, ma le rispondono di non temere. Non sembrano casi di Covid. Siamo nel momento in cui ancora non è chiara l’entità del contagio, in cui gli operatori fanno la domanda: “È stato a contatto con qualcuno tornato dalla Cina?”. Mentre Monica sta meglio, Armando non dà segno di guarigione. Lei decide di portarlo in ospedale. “Ci entra con le sue gambe. Era forte, nonostante la febbre”.
Da lì iniziano lunghe giornate di attesa: “Lavoro in una Rsa. Dopo aver fatto la quarantena, ho chiesto i turni di notte, per essere a casa di giorno. E aspettare la telefonata dell’ospedale. Mi dicevano che non aveva altri problemi, ce l’avrebbe fatta”. A volte è Armando a chiamare. Monica percepisce tutta la sua sofferenza: “Mi diceva di portarlo via, che faticava a respirare ma ogni tanto gli toglievano il caso per darlo ad altri. Che a volte non gli portavano da mangiare”.
Passa ancora del tempo e Armando viene intubato. Morirà il 27 marzo, il giorno in cui il bollettino della Protezione civile diffonderà una cifra terribile: 969 decessi. A Monica oggi restano la rabbia, il ricordo della solitudine di quei giorni e un dubbio: “Se non ci fosse stata tutta questa disorganizzazione, se avessero fatto Bergamo zona rossa prima, magari gli ospedali non sarebbero arrivati al collasso. Forse Armando avrebbe potuto essere curato diversamente”.
Passata l’emergenza, sta arrivando il tempo dell’accertamento della responsabilità . “Bisogna distinguere, in relazione alla responsabilità civile, la posizione degli operatori da quella delle strutture. I primi rispondono per colpa, come afferma l’art. 7 della Gelli Bianco che richiama l’art. 2043 cc per chi opera all’interno di una struttura. È evidente che, nella valutazione delle condotte, dovrà tenersi conto dell’eccezionalità dell’epidemia e dell’assenza di risorse disponibili. Elementi che potranno essere invocate per escludere la colpa e quindi la responsabilità ”, spiega ad HuffPost Domenico Pittella, avvocato e docente esperto di responsabilità sanitaria.
“In relazione alle strutture – continua – la responsabilità è modellata sull’adeguatezza organizzativa della struttura, pubblica o privata. La giurisprudenza è rigorosa, ad esempio in materia di responsabilità per danno da infezioni nosocomiali”.
Per quanto riguarda l’epidemia Covid, quindi, “occorrerà verificare se le strutture avrebbero potuto adottare misure volte ad evitare la diffusione del virus e i contagi. Da questo punto di vista, non ritengo che la configurazione della responsabilità della struttura secondo il modello del rischio di impresa o della colpa presunta porti a conclusioni molto differenti: l’epidemia potrebbe integrare o meno, a seconda delle valutazioni che dovranno essere effettuate tenendo in considerazione il caso concreto, il caso fortuito o l’assenza di colpa, che escludono la responsabilità rispettivamente per la prima o la seconda teoria”. Certamente ogni storia sarà un caso a sè: “Non potranno essere adottate soluzioni unitarie, ma occorrerà distinguere le singole situazioni. Alcuni problemi riguardano l’assenza di posti in terapia intensiva altri, invece, la carenza (anche dopo le prime settimane) di dispositivi di protezione”
Per l’avvocato Pittella, in vista dei possibili procedimenti giudiziari, sarebbe stato necessario un intervento a tutela dei medici: “Ritengo che – continua – anche se la normativa attuale, e in particolare l’art. 1218 cc, è in grado di tenere in considerazione dell’eccezionalità della situazione, bene avrebbe fatto il legislatore a prevedere espressamente una attenuazione della responsabilità degli operatori sanitari che sono stati dei veri e propri eroi in questa situazione”. La giurisprudenza “potrà certamente tenerne conto escludendo addebiti di responsabilità ” ma, chiosa l’avvocato, un intervento legislativo sarebbe stato molto utile a sciogliere ogni dubbio e “assicurare uniformità interpretativa”.
C’è poi la questione della responsabilità penale. Prima dell’approvazione del Cura Italia, si era pensato a uno scudo per medici e infermieri. La discussione si è arenata quando è stato proposto di estendere la misura anche alle strutture. Ma, come spiega anche il professore Cristiano Cupelli in un’intervista sul sito Giustizia Insieme, restano molti nodi da sciogliere.
(da agenzie)
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