DAL LIBRO “L’IMPREVISTA” UN RITRATTO DI ELLY SCHLEIN: LA PASSIONE PER LA MUSICA E IL CINEMA, LA SVOLTA NELLA POLITICA SENZA CEDERE SUGLI IDEALI DI VITA
UNA VITA CONTROCORRENTE, ISTANCABILE, DETERMINATA, CAPACE DI UNIRE, ESIGENTE CON SE STESSA, LONTANA DALLE CORRENTI, IMPREVEDIBILE: PER QUESTO NON L’HANNO VISTA ARRIVARE
Estratto da “L’imprevista. Un’altra visione del futuro” (ed. Feltrinelli) di Susanna Turco
A Elly Schlein piace mangiare i panini degli autogrill, le lasagne, le patate al forno, canticchiare le canzoni che passa la radio, guardare Sanremo commentandolo con le amiche su Facebook minuto per minuto, secondo un rito stabilito nel 2009 e che non si è interrotto nemmeno con l’arrivo alla segreteria del Pd, staccare un po’ la notte giocando ai videogiochi (dalle saghe storiche di Super Mario e Zelda a Grand Theft Auto, ma si diverte ancora coi primi “punta e clicca” come Monkey Island e giura di aver finito tutti gli Assassin’s Creed), passare un pomeriggio dentro la Fiera Nerd di Bologna, anche cimentandosi in pubblico e senza paura di perdere. “Sono una gamer, una nerd degli anni novanta,” è una delle sue sintesi più efficaci.
Per descrivere quel poco di vita che si tiene fuori dal lavoro, si intende (per il resto è doverista e instancabile, sfiancante). Una giocatrice di Trivial, di Cluedo, di ping pong, di biliardo. Una cinefila dura e pura, da festival di Locarno mattina pomeriggio e sera, altro rito celebrato da oltre vent’anni. Una appassionata di musica, capace di elencare brano per brano intere discografie. Una che usciva quasi tutte le sere, fino a quando non ha cominciato con la politica a tempo pieno. Che all’università organizzava “Le notti vintage” lunghe fino all’alba, in cui, ai piatti, metteva i dischi degli Chic, di Donna Summer e di KC and the Sunshine Band. Che è stata chiamata dalla politica come ti può chiamare un grande amore: senza averlo calcolato.
Una donna la cui storia politica, personale, familiare la rende capace di tenere insieme tante appartenenze incompiute, le proprie e quelle della gente che rappresenta e la rende capace di fare da ponte tra dentro e fuori, tra i palazzi e le persone, che la considerano una di loro come non facevano da anni.
È un altro elemento che certi mondi arroccati – della destra, ma in particolar modo della sinistra – non le perdonano, o meglio che, pesantemente stratificati e rivolti dentro loro stessi, non riescono nemmeno a cogliere. Un vuoto di comprensione che riempiono basandosi sui propri specchi. Impedendosi di vederla arrivare. Salvo poi – come dopo il successo alle europee – invece di ammettere l’errore di valutazione, spingersi a sostenere, al massimo, che è lei a essere cambiata, a essere migliorata.
A dispetto di tante leggendarie ricostruzioni, Elly Schlein nasce e cresce ad Agno, paesino della Svizzera italiana che fra l’altro ospita il piccolo aeroporto di Lugano. Poco più di tremila persone tra lago e montagna, un posto che in Italia potrebbe chiamarsi Orio al Serio, Ciampino, Correggio, in una zona dove gli italiani sono l’etnia di immigrati più numerosa. Immigrati, come i suoi genitori.
Il padre Melvin è nato e cresciuto nel New Jersey, figlio di due ebrei emigrati negli Stati Uniti agli inizi del secolo scorso: sua madre Ethel era originaria della Lituania, suo padre Herschel, poi diventato Harry, veniva invece da Zólkiew, una cittadina vicino a Leopoli, oggi Ucraina. Di tutta la sua famiglia rimasta in Galizia, fratelli e nipoti, si è persa ogni traccia durante l’Olocausto: dei quattromila ebrei della cittadina, alla fine della guerra, ne sopravvissero ottanta.
Quando nel 2018 Elly e i suoi genitori partono per Leopoli, alla ricerca di qualche segno degli Schlein (originariamente Schleyen), non trovano nulla, nessun documento. All’indirizzo del negozio di uno zio da cui arrivavano lettere e foto ormai sbiadite, c’è ora un muro che ha preso il posto della vetrina davanti alla quale posavano sorridenti quelli che erano i cugini che suo padre non ha mai potuto conoscere. A Zólkiew, grazie a uno zelante funzionario comunale, ritrovano soltanto una mappa catastale che indica dove sorgeva la casa in cui nacque il nonno, poi rasa al suolo dai sovietici. Come se l’odio nazista e la foga nazionalista non avessero voluto spazzare via solo intere famiglie e comunità, ma anche ogni traccia della loro esistenza.
La madre di Elly Schlein, Maria Paola Viviani, è di Siena: viene da una famiglia della borghesia della città, numerosa e molto cattolica per tradizione, che ha però come eccezione suo padre, Agostino
Viviani. Laico e socialista, unico non iscritto al Guf, nel 1933 si laurea in camicia bianca (gli altri erano in camicia nera) per diventare avvocato; antifascista, membro di Giustizia e Libertà, scampato per un soffio all’ordine di cattura del fascista Tribunale speciale per la difesa dello Stato, sarà negli anni settanta deputato del Psi, poi radicale. “Mio nonno amava sostenere anche le cause più difficili, che altri direbbero perse.”
Famiglie in cui la lotta per sentirsi a casa, dall’altra parte dell’oceano o anche nella propria città, è nelle sue declinazioni un pane quotidiano che attraversa le generazioni. E non è finita. Padre americano e madre senese si conoscono a Taormina, a una conferenza sul federalismo che Melvin Schlein ha organizzato per il Sais (School of Advanced International Studies) della Johns Hopkins University di Bologna, dove lavorava. Lui è relatore, lei invitata in quanto ricercatrice all’università di Milano. Si trasferiscono in Svizzera nel 1973, per un’opportunità di lavoro a Lugano, dopo essersi sposati e aver vissuto per un anno a Bologna.
Elly è la più piccola in famiglia, dieci anni meno del fratello Benjamin, sette meno della sorella Susanna. Cresce giocando tra i boschi di castagni che sono vicino casa, con i prati che via via si restringono per far posto a nuove lottizzazioni, i genitori che continuano a insegnare all’università, il padre a Lugano, la madre pendolare prima con Milano e poi con Como e Varese. C’è il calcio, al quale gioca coi maschi, in mancanza di una squadra femminile.
C’è il pianoforte studiato svogliatamente a cinque anni sul vecchio strumento di casa coi tasti ingialliti che è ancora lì, sempre lo stesso: “Mi addormentavo sulla tastiera, trovavo il solfeggio noiosissimo. Il maestro mi dava le caramelle all’eucalipto, gommose. Ho continuato da autodidatta, mi pento delle lezioni che non ho preso”.
C’è la prima chitarra, una finta Stratocaster comprata di nascosto con i soldi messi da parte ai compleanni. C’è in generale tantissima musica: “A Natale del 1996 mi regalarono il mio primo cd: Così com’è degli Articolo 31, lo so ancora tutto a memoria”. Ci sono i sabati a sciare nei dintorni con lo snowboard e il cd player nelle orecchie, e la sorella e il fratello più grandi che vanno a studiare fuori – come tutti, in zona – lasciando la piccola di casa sola con i genitori.
Da ragazzina, Elly Schlein è abbastanza solitaria, occhialuta e prima della classe: “Non era sempre facile fare amicizia in quel periodo, forse anche perché andavo bene a scuola e questo non facilita mai le relazioni, ho dovuto lottare molto per superare i pregiudizi e costruirmi una rete di amici. Poi c’era qualche cattiveria, qualche sfottò, qualche voce rispetto alle mie diversità. Studiavo non perché volessi il risultato, ma perché ero curiosa, non credevo mai di sapere abbastanza. Poi magari invece prendevo il massimo dei voti. Sono sempre stata molto esigente con me stessa. Non davo mai niente per scontato. Come faccio adesso, d’altra parte: ogni volta che devo fare un intervento penso di non averlo preparato abbastanza”.
Esigente ma con un piglio suo: diplomata al liceo letterario con il massimo dei voti in tutte le materie (tranne la ginnastica) e un premio per aver ottenuto la media più alta degli ultimi vent’anni, si presentò alla prova orale di latino con la chitarra elettrica in spalla: “Mi avevano chiesto di sostituire il chitarrista di un gruppo rock metal che doveva suonare alla festa per la maturità, così mentre studiavo per gli esami studiavo pure le cover dei Metallica e dei Cranberries. Subito dopo l’esame dell’ultimo giorno bisognava fare il soundcheck, come quelli veri, e il liceo era a quaranta minuti da casa coi mezzi. Non avrei avuto il tempo di fare avanti e indietro, e così la chitarra è entrata con me sotto gli occhi della commissione”.
All’università Elly Schlein studia giurisprudenza, ma non pensa di diventare un’avvocata o una magistrata: il suo sogno è quello di diventare regista. Nel suo primo anno di università, in effetti, era iscritta al Dams: non ha funzionato, ma il cinema resta la sua passione, così fa la videomaker da autodidatta e vede più film che può. Anzitutto frequentando il festival di Locarno.
“La mia vera formazione cinematografica è avvenuta lì. Ho iniziato ad andarci nel 2003, a diciotto anni, per due o tre anni ho fatto parte della Giuria dei giovani, poi non ho più smesso. È diventata casa mia, lo è tuttora, sono una specie di pezzo di arredamento a Locarno, ho conservato i pass di tutti gli anni. Ci sono tornata in tante vesti, quando scrivevo di cinema, oppure da semplice appassionata, come ora. Era il mio modo di viaggiare, perché io non ho mai fatto grandi viaggi: ad agosto, nel momento in cui gli altri andavano in vacanza, io andavo a Locarno.
Di solito per una decina di giorni, appuntamento fisso. A volte ero con gli amici, prendevamo in affitto una sorta di solaio dove stavamo coi sacchi a pelo, accampati, altre volte gli altri non c’erano, ci andavo da sola. Arrivavo a guardare anche settanta-ottanta film tra lungometraggi e corti: il programma iniziava la mattina e andava avanti tutto il giorno, fino ai due film della sera, in Piazza Grande, che ha lo schermo più grosso d’Europa, ottomila posti a sedere sotto le stelle. Bellissimo.
Guardi così tanti film, in lingua originale, che alla fine ti ritrovi a pensare in altre lingue, anche quelle che non conosci. Là ho visto delle perle del cinema strepitose. Tipo Rubber, il cui protagonista è uno pneumatico che va in giro a far cose per il deserto californiano, e non è neanche il più stravagante che mi sia capitato.
Grandi retrospettive, splendidi documentari, tanti cortometraggi, scoperte. È lì che ho incontrato il cinema di Kim Ki-duk, un regista che ho amato tantissimo: lo premiammo nel 2003 con la Giuria dei giovani, per Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, che la giuria dei grandi snobbò e che invece divenne poi uno dei suoi film più noti, soprattutto dopo che il regista vinse a Venezia con Ferro 3, l’anno dopo. La cosa bella di quel Festival è che è costruito su misura di chi il cinema lo ama: non è di quelli un po’ fighetti, o rivolti ai professionisti del settore, più chiusi, meno accessibili. Con l’abbonamento da studente, a Locarno puoi guardarti tutti i film del festival, compresi quelli in piazza.
E la sera, nei ristoranti e nei locali, è facile incontrare attori e registi, il che è importante perché permette, anche a chi il cinema lo fa, di confrontarsi direttamente con chi il cinema lo guarda. A me questo aspetto piaceva molto, andavo pure ai dibattiti, curiosavo. A volte ho avuto degli incontri speciali. Nel 2007 Robert Rodriguez, regista di tanti film, alcuni con Quentin Tarantino, venne a presentare Planet terror, una specie di grande tributo agli splatter di serie B la cui protagonista aveva un fucile automatico montato al posto di una gamba.
Finita la presentazione, mi diressi verso l’albergo in cui Rodriguez alloggiava, con la mia moto – avevo una 125 RS dell’Aprilia, quella del Valentino Rossi degli inizi – per vedere se riuscivo a incrociarlo e a scambiare due parole con lui. Mentre ero lì che aspettavo nel parcheggio, mi si è avvicinato un signore un po’ anziano e ci siamo messi a chiacchierare. Gli ho raccontato che ero un’appassionata di cinema, che avrei voluto fare la regista ma non sapevo da dove cominciare, avevo ventidue anni all’epoca.
Mi disse che anche lui era del settore. A me sembrava un altro cinefilo capitato lì per caso e ci mettemmo a parlare di come iniziare e lui mi diede un consiglio. Mi disse: ‘Sai qual è il modo migliore per comporre una sceneggiatura? La devi scrivere tutta di getto, fino in fondo. Quando l’hai finita, la metti in un cassetto, chiudi e la lasci lì dentro per cinque anni. Dopo cinque anni riapri il cassetto, la tiri fuori, la strappi e la riscrivi daccapo. Allora sarà una grande sceneggiatura’.
A quel punto l’ho ringraziato e sono andata via, era stato bello parlarsi, ma Rodriguez non usciva mai dall’albergo. Finii la serata in piazza, come tutte le sere. Presentarono il film – quella sera era Funeral Party – e davanti a ottomila persone chiamarono sul palco il regista: salì proprio il signore con cui avevo parlato quel pomeriggio. Cavolo, era il mitico Frank Oz!”
Figlia di emigrati, sia pur professori, vive sulla sua pelle le appartenenze incompiute e mancate che sono il segno della contemporaneità. Essere, appartenere, e al tempo stesso essere tante altre cose. Crescere in un posto dove non è cittadina, andare in vacanza dove sono le sue origini, sentirsi perennemente un po’ a casa e un po’ no. Sempre considerata come una che “non è di lì” da chi è incasellato in una sola appartenenza, ma in realtà in linea con un percorso largamente condiviso nella sua generazione.
Come tante e tanti, Elly Schlein non è pienamente “di lì” in Svizzera e non è pienamente “di lì” nemmeno a Bologna, dove si trasferisce a diciannove anni per fare l’università – “un po’ per amore e un po’ per l’anima di questa città, battagliera, combattiva, rossa” – per poi diventarne un’orgogliosa figlia adottiva che non se ne va più neanche dopo gli studi. Da qualcuno non è considerata “una di lì” neanche adesso che è segretaria del Pd. Eppure quel partito è nato proprio per superare le famiglie politiche fondative, immerse nel Novecento, senza disperderne il patrimonio.
Lei di quella ibridazione è figlia. Le sue appartenenze incompiute la rendono particolarmente capace di interpretare la contemporaneità e la sinistra di questi anni. Donna di questo tempo. Significa anche non avere le convinzioni granitiche delle generazioni precedenti, ma identità da costruire pezzo per pezzo, più nell’incontro con gli altri che nella lettura dei testi sacri. E significa avere alle spalle una formazione atipica, intrecciata al decennio che ha sconquassato la sinistra italiana.
Atipica perché per Elly Schlein la politica è una scelta, una passione che si prende lo spazio, non è la piegatura naturale di una generazione, è eterodossia e non ortodossia. Cresciuta nell’epoca nel berlusconismo, inizia negli anni dieci, molto dopo il G8 di Genova del 2001 con il movimento no global stroncato violentemente, quando per Michela Murgia “cominciò tutto”, nel mezzo del governo berlusconiano nella sua fase più espansiva e poi nel suo crepuscolo.
Nella crisi sociale ed etica, si fa largo l’anticasta, antesignana del Vaffa grillino. La politica viene scansata via, i partiti anche di più, si fatica a credere che possano essere uno strumento ancora utile per qualcosa: vince l’antipolitica, e poi, ancora peggio, l’antipolitica che diventa opportunismo di Palazzo.
Elly Schlein va in direzione contraria, lei che pensava di voler fare la regista viene risucchiata dentro da una passione ancora più forte, e punta sulla politica proprio quando la politica deraglia. Comincia a costruire da lì, per un senso di appartenenza che non è mediato dall’ideologia o dalla sociologia, dove la porta il suo disagio per l’esistente, la sua istintiva voglia di combattere le ingiustizie, di cambiare le cose.
Forse è anche un pezzo della sua storia familiare che si riaffaccia: suo nonno materno, l’avvocato socialista, non aveva dubbi quando si trattava di difendere le persone dalle ingiustizie, lo fece anche in tribunale con gli ebrei negli anni delle leggi razziali.
Schlein ha un percorso diverso anche da chi ha solo pochi anni più di lei, nel Pd e negli altri partiti del centrosinistra, ma non condivide neppure il fontanone dell’antipolitica. Cita sempre la Costituzione – che suo nonno le regalò a otto anni insieme ai Quattro Codici: Civile, Penale e Procedure –, è per la Repubblica parlamentare pura, più vicina in questo a una politica antica che alla logica del Parlamento trasfigurato in luogo del malaffare da aprire come una scatoletta di tonno. Occupy Pd, nel 2013, è in fondo l’immagine opposta: da fuori entrare dentro, per cambiare.
E lei, da giovane attivista del Partito democratico, fa il suo esordio sulla scena come uno dei volti della protesta di Occupy Pd nel momento di massimo crollo di credibilità del partito, con i 101 parlamentari che hanno pugnalato Prodi alle spalle durante la corsa per il Quirinale e le dimissioni di Bersani dalla segreteria. Ma ha sempre rifiutato di diventare un’operazione mediatica, preferendo la via più lunga a possibili candidature, visibilità, ruoli. Nel suo percorso c’è una lista di opportunità non colte, di rotondi no: “Non mi sono prestata, io non sono un’operazione mediatica, non sono governabile. Ho una testa mia. E una visione”.
Non ha padrini alle spalle che la lanciano. È andata sempre a prendersi i voti sul campo e in mare aperto, persona per persona, preferenza per preferenza, prima alle elezioni europee del 2014, poi alle elezioni regionali in Emilia-Romagna nel 2020, alle politiche del 2022, alle primarie del 2023. E perfino da segretaria, alle europee del 2024. Dieci anni di lotte politiche e di gavetta sul territorio, nonostante qualcuno ancora la tratti come fosse Coso, il personaggio dei fumetti del “Super Cane Magic zero” disegnato da Sio, quello “talmente sbadato che una volta era caduto dalle scale ed era diventato il presidente della Repubblica”.
Il suo modo di porsi, in maniera eguale e contraria avvicina quelli che incontra nelle piazze e allontana quelli abituati a farsi dar retta nei palazzi. Gli uni mediamente empatizzano, gli altri mediamente sono ostili.
Tende a smontare i presupposti di partenza: non si atteggia a leader, non fa citazioni per darsi un tono, è capace di ballare e gridare le canzoni a memoria da un carro del Pride, non sembra avere alcuna fretta di arrivare e le interessa di più il come; prima di rispondere alle domande pensa, quando non è costretta dai tempi televisivi arriva a fare dei silenzi lunghissimi, oppure risponde alle domande con altre domande, rendendo chiaro perché sulla pagella i professori scrivessero: “Esuberante”.
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