DRAGHI A GARANZIA DI DRAGHI PER SALVARE IL RECOVERY: PER LA UE IL PIANO E’ TROPPO GENERICO SULLE RIFORME
SENZA RIFORME NIENTE SOLDI: QUANDO DRAGHI SI SFILERA’ NESSUNO FARA’ LE RIFORME NECESSARIE PERCHE’ L’ITALIA E’ IN BALIA DI UNA MANICA DI SCAPPATI DI CASA
“Garantisco io”. Io, Mario Draghi, l’ex presidente della Bce che nel 2012, con l’Europa in fiamme, ha assicurato che sarebbe stato fatto tutto il necessario (“whatever it takes”) per salvare l’euro.
Con la certezza preventiva che sarebbe stato sufficiente. E la storia gli ha dato ragione: la speculazione non ha travolto la moneta unica. Io, Mario Draghi, l’uomo che ha inventato il quantitive easing, cioè miliardi di titoli di Stato acquistati dalla Bce per immettere una valanga di miliardi nell’economia e abbassare lo spread dei Paesi più vulnerabili.
Lo stabilizzatore politico dell’Europa insieme ad Angela Merkel negli ultimi 15 anni. Nessuno avrebbe mai pensato che fosse necessario ricordarlo, se non in qualche sparuto convegno di anti europeisti incalliti.
E invece a dover rispolverare il peso politico di un curriculum eccezionale è stato Draghi. Al telefono, due volte, con Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione europea. Per salvare i soldi del Recovery che spettano all’Italia.
Quella di Draghi che chiama Bruxelles, nel mezzo di una trattativa tecnica sul testo del Recovery plan italiano lunga 48 ore, è l’immagine salvifica di un premier che si è speso in prima persona per portare a casa 221,5 miliardi.
Mai come questa volta c’è da chiedersi – e la risposta è ragionevolmente “un disastro” – cosa sarebbe successo se al posto di Draghi ci fosse stato un altro.
Perché se Draghi alla fine ha potuto incassare il disco verde dell’Ue è stato solo perché lui è Mario Draghi.
E quindi quando la trattativa con i tecnici della Commissione europea si è impallata sulla questione dei tempi delle riforme che accompagnano il Recovery, il premier ha detto a von der Leyen che ci avrebbe pensato lui a rimettere le cose in ordine.
La formula è la stessa che ha accompagnato il discorso del “whatever it takes” e cioè “credetemi, sarà sufficiente”.
Questa volta il messaggio politico è: credetemi, il piano italiano è in linea con lo spirito europeo del Recovery, non è il libro dei sogni, soprattutto assicura una discontinuità su quelle riforme che l’Italia ha sempre mal digerito e su cui la vecchia Europa, quella dell’austerità pre pandemia, a volte ha anche marciato, puntando sulla debolezza, anche politica, dell’Italia.
Draghi ha salvato il Recovery, il piano subirà qualche modifica sui tempi delle riforme, ma non sarà riscritto né tantomeno stravolto.
Ma in questa operazione di lifting esplode un’altra questione, l’altra faccia della medaglia delle due telefonate alla presidente della Commissione europea. Quel “garantisco io” contempla il fatto che Draghi ha dovuto ricordare chi è, soprattutto cosa è stato per l’Europa.
E l’ha dovuto fare, a volti con toni accesi, con quell’Europa che lui ha salvato e che lui, non solo da premier del Paese più colpito dalla pandemia, sta salvando nuovamente con la grande operazione del Recovery. Di più.
Lui che sta imponendo il suo ruolo di guida per un’Europa che a maggior ragione dopo il Covid dovrà farsi sempre più coesa, guardare sempre più agli Stati Uniti d’Europa e sempre meno alle diatribe tra falchi e colombe.
Lui che conta già oggi nella riscrittura delle regole europee e quindi nella definizione dei nuovi rapporti di forza tra i diversi Paesi (con il compito gravoso e aggiuntivo di riposizionare l’Italia del debito monstre).
È come un padre che assiste a un figlio che si fida più di un estraneo che di lui. Certo alla fine tutto si è risolto per il meglio perché nessuno in Europa pensa che sia solo ipotizzabile mettere in discussione una figura come quella di Draghi, ma la trattativa nervosa e spigolosa tra Roma e Bruxelles ha esposto il premier a una vulnerabilità inedita.
È la fatica di due giorni in cui i tecnici di palazzo Chigi e del Tesoro hanno dovuto spiegare e rispiegare perché la riforma del fisco era stata scritta in un modo e non in un altro, e via dicendo.
Il terreno si è fatto scivoloso quando invece tutti avevano ipotizzato che la missione al governo di Mario Draghi sarebbe stata lineare, senza intoppi, salvifica. Non scontata, vista anche la rissosità dei partiti, non facile vista la recrudescenza della pandemia.
Ma sul Recovery, il documento economico per eccellenza, nessuno nutriva dubbi sul fatto che tutto sarebbe filato liscio e al primo colpo. Insomma, se il tema lo scrive il primo della classe, l’imbarazzo non è dell’allievo ma del professore che si ritrova tra le mani l’ingrato compito del giudizio.
E invece il testo del Recovery cambierà. Matita blu, non rossa, ma pur sempre matita. Alla fine quel che conta è la garanzia di Draghi, il fatto che i 221,5 miliardi sono salvi. Ma la fatica e il fatto che il Recovery è stato confezionato con Bruxelles, passo dopo passo, non scritto a Roma in autonomia, sono elementi che destabilizzano.
Non oggi che c’è Draghi, ma negli anni a venire. I soldi del Recovery arriveranno pian piano, fino al 2026, e solo se si faranno le riforme.
Draghi ha assicurato che ci penserà lui a farle e farle veramente, ma tutte le riforme – a iniziare dal fisco – sono legate a una sfilza di decreti, a leggi delega, insomma al lavoro anche del Parlamento. Il che in una democrazia parlamentare è un elemento di pregio, ma per come sono andate le cose in Italia negli ultimi anni c’è più di una ragione per nutrire più di un dubbio e più di un timore.
Chi garantirà e chi salverà l’Italia?
(da “Huffingtonpost”)
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