ELOGI PUBBLICI E LITI PRIVATE
IL MATCH DI CONTE E DI MAIO, PRETENDENTI ALLO STESSO TRONO
«Vai! Vai! Vai!», diceva sottovoce Luigi di Maio. «Me li trovi?», rispondeva Giuseppe Conte, una maschera di ansia. «Te li cerco io i fogli, tu comincia a parlare Giuseppe! C’è il microfono acceso!».
Se fosse stato tutto come «la nostra prima scena» — formula individuata da Claudio Baglioni per celebrare in una sua canzone le tappe di una storia d’amore scivolata oltre i titoli di coda — Conte e Di Maio sarebbero stati gli eterni protagonisti di un perenne libro Cuore.
L’uno per l’altro, l’altro per l’uno. Così erano sembrati il 6 giugno 2018 a Montecitorio, nel giorno della fiducia al governo gialloverde, quando all’improvviso — prima di cominciare le repliche — il presidente del Consiglio fresco di nomina perdeva i fogli col discorso giù scritto ed entrava in una cinquantina di secondi fatti di puro panico, con Di Maio lesto nel soccorrere il neo-capoclasse come il generoso Garrone faceva con i compagni di scuola più indifesi.
Ora che tre anni e un mese dopo l’incantesimo rotto è sotto gli occhi di tutti, con la riforma della giustizia di Marta Cartabia a fare da detonatore a uno scontro tra un Di Maio ipergovernista e un Conte barricadero, è fin troppo semplice elencare le volte in cui tutto era sembrato già scritto, in cui gli scricchiolii di un rapporto fondamentalmente mai nato hanno fatto più rumore degli abbracci in pubblico e delle dichiarazioni di affetto.
La celebre sera dell’«abbiamo abolito la povertà», ottobre 2018, Di Maio è il barricadero che esce sul balcone di Palazzo Chigi e Conte il premier che simula terzietà tra Lega e M5S rimanendo chiuso dentro; un anno dopo, quando al governo c’è il Pd e Salvini è finito all’opposizione, la scena si ripete sulla riforma del Mes, anche se nessuno dei due ride più.
«Non ci parliamo, ecco», spiegò il ministro degli Esteri in privato, raccontando di essersi sentito tradito da un Conte allora troppo europeista, con una linea troppo sovrapposta a quella del Pd.
Tra «isso» ed «essa», come nello scheletro narrativo della sceneggiata napoletana, a volte la storia ha infilato un terzo incomodo, che nella rappresentazione popolare era raffigurato come «o’ malamente».
Così Alessandro di Battista — all’epoca al fianco di Di Maio, poi contro tutti e due, oggi spalleggia Conte contro «gli incapaci e pavidi» ministri M5S del governo Draghi — ha tentato di dimostrare con la sua sola presenza sulla scena chi dei due fosse al momento il più grillino, il più vaffa, il più «della prima ora», come una silenziosa certificazione di conformità al grillismo delle origini.
Peccato che adesso Grillo — che era al fianco di Di Maio nei tentativi di limitare Conte (2018), che ha sostenuto quel governo Conte II che forse Di Maio non voleva (2019), che ha elevato Conte a dispetto dell’allora capo politico Di Maio (2020) e che ha finito per stare dalla parte di Di Maio per limitare i poteri di Conte (2021) — adesso difenda a spada tratta questa riforma della prescrizione che mescola tutte le carte e che fa sembrare preistoria l’inizio di tutto, quel «Giuseppe!» appena sussurrato, quella scialuppa di salvataggio per un canotto in tempesta. «Te li cerco io, i fogli, tu comincia a parlare…».
C’eravamo tanto amati ma, in fondo, neanche troppo.
Simili nel portamento, sovrapponibili in quello stile che a occhio poco attento è sempre parso neo-democristiano, in fondo, Conte e Di Maio hanno sempre saputo prima degli altri che due pretendenti sono comunque sempre troppi quando il trono è uno solo. Adesso si guarderanno da lontano, come fecero per tantissimo tempo colossi della Dc come Giulio Andreotti e Ciriaco De Mita.
Sapendo che una tregua, prima o poi, potrebbe pure arrivare. Ma sarebbe solo l’ennesimo armistizio di una guerra infinita, armi deposte in attesa di essere dissotterrate, silenzi nascosti, abbracci tattici e qualche volta una pacca sulla spalla. Sempre che non arrivi prima una scissione, a far calare il sipario su quello che c’è stato e che non tornerà. Forse.
(da Il Corriere della Sera)
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