IL GRANDE ABBAGLIO DEL “PIANO MATTEI”
CHI L’HA SCRITTO NON DEVE ESSERE MAI USCITO DAL RECINTO DEGLI ALBERGHI AFRICANI A 5 STELLE: DEI PROBLEMI DELL’AFRICA NON SA NULLA
L’incerto e il mistero, meravigliosi in amore dove sono propizi ad ogni sorta di intrigo, sono catastrofici in politica. Perché rischiano di propagare il regno del sospetto e di mettere in piedi un rapporto obliquo con la verità.
Prendiamo dunque il piano Mattei. Prendiamolo con la punta delle dita, delicatamente, non con gli artigli di un terzomondismo proiettivo che peraltro si è estinto con il Terzo Mondo come entità autonoma: sosteneva, lo sciagurato, saltimbanchi sanguinari che si pensava incarnassero il nuovo eden rivoluzionario.
Per carità: un piano come quello del governo italiano che si prefigge di inventare «un rapporto non predatorio» con l’Africa merita ben altro che liquidazioni sarcastiche. Anzi: tirar fuori una idea per questa vecchia Europa che si rintana e tace mentre in quello che un tempo si chiamava il “continente nero” Stati Uniti, Cina e Russia intervengono e si immischiano in ogni cosa può esser lodevole.
Smuove quanto meno ideologie balbuzienti. Si accusa: ma è il solito «aiutiamoli a casa loro» per toglierci il fastidio (per le destre ma non solo) di vederseli davanti, gli africani, con gli abiti ancora gocciolanti di Traversata. Vediamo piuttosto se può funzionare.
In fondo la politica è anche retorica e passione e, ogni tanto, una idea che accenda la immaginazione di milioni di persone. Leggiamo i sei articoli dell’impegnativo progetto diventato legge. Affiorano concetti antichi come fossili nello scisto, «cooperazione allo sviluppo», e geroglifici retorici nuovi di zecca, oscuri ma pervasivi: ricerca e innovazione, sfruttamento sostenibile delle risorse, tutela dell’ambiente, imprenditoria ovviamente femminile (un giretto in qualsiasi suk africano farebbe scoprire agli estensori che da quelle parti sono avanti in questa faticosa eguaglianza) e ovviamente la modernizzazione digitale. Si vuole estrarre ogni frammento di luce da questa terra disgraziata.
Mi viene da pensare che gli ideatori, con ingenua innocenza, non siano mai andati oltre il recinto degli alberghi africani a cinque stelle e delle accoglienti ambasciate. Perché avrebbero scoperto che decine di milioni di africani da contrattualizzare non sanno che farsene della modernizzazione digitale, hanno il problema paleolitico della mancanza di acqua potabile e di energia elettrica a cui colonizzatori ed eredi non hanno neppur pensato.
Quanto al green potrebbero darci lezioni perché da secoli sopravvivono con siccità, cavallette e tirano l’aratro di legno con la forza delle braccia, energia che non inquina.
Questi popoli mortificati e umiliati forse bisognava incontrarli di persona prima di scrivere il contratto. C’è un pudibondo velo di oscurità sui fondi che devono alimentare il piano. Si confida immagino, nel solito bancomat di Bruxelles: si trovano miliardi per comprare munizioni, ci mancherebbe che l’Unione lesina soldi per l’Umanitario per di più di taglio imprenditoriale! Ma il sospetto dello scarto, dell’errore è semmai nella parola Africa. Perché quando si vuole stipulare un contratto con qualcuno, addirittura lasciarsi dietro decenni di post colonialismi, razzie meticolose, razzismi supponenti e bioccose carità improduttive, la geografia non basta, bisogna indicare di chi saranno le firme in fondo ai futuri impegnativi documenti.
I contratti dovranno esser firmati con gli africani! Sì, ma quali? Temo che il presidente del Consiglio, come i suoi predecessori per altro, conosca solo quelli che lo accolgono sul tappeto rosso degli aeroporti con i deliziosi picchetti di bimbi che agitano le bandierine.
Ahimè sono presidentissimi che costituiscono da mezzo secolo l’Africa che Kofi Annan definiva pudicamente «un coktail di disastri». Senza risalire al regno assassino del negus rosso o alle macabre buffonate di Amin, è la recentissima, contemporanea Africa dei bambini assassini, degli stupri collettivi, delle guerre civili in Sudan, Ruanda, Somalia, Nigeria, Costa d’Avorio, Etiopia, della guerra dei Grandi Laghi con quattro milioni almeno di morti. L’Africa dei golpisti di successo che hanno cacciato i colonialisti francesi, dove Russia e Cina firmano ogni giorno piani di aiuto con poca retorica ma con i kalashnikov eloquenti della Wagner e assegni senza condizioni politicamente corrette.
Gli africani del piano Mattei sono i soliti amici nostri? Il borioso despota pandettaro della Tunisia? Il negus etiope che ha creato milioni di profughi affamati nel tigrai e si è comprato uno sbocco al mare? I golpisti saheliani? I presidenti «eletti democraticamente», ci mancherebbe, dal Senegal al Congo, ove le accuse di brogli ormai sono così ovvie che gli sconfitti non aspettano neppure la proclamazione dei risultati per denunciare invano? I Mobutu del terzo millennio, corrotti e autoritari, che hanno scoperto come il rito elettorale non costi nulla e renda molto in immagine?
Il contratto per dimostrare che non siamo per l’ennesima volta dei benestanti dal viso pallido che fanno affari con chi depreda, li dovremmo firmare con i ribelli, gli oppositori, gli scismatici dei tribalismi e delle camarille claniche, con i rivoluzionari africani che – ahimé! – non sono nel programma delle tournée diplomatiche. Dovremmo fornire sostegno finanziario, morale, politico, patrocinare, invitare, proteggere quelli che sono in galera, minacciati, costretti a farsi migrante fuggiaschi o a ripiegare nel jiadismo. Come abbiamo fatti con i dissidenti dell’est o gli oppositori dell’islamo-fascismo iraniano e califfale. Questo sarebbe un buon piano Mattei. Sapendo però che i rivoluzionari veri non appartengono a nessuno.
(da La Stampa)
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