LE PAROLE CHE DRAGHI NON DICE
SE RINUNCIASSE UFFICIALMENTE AL COLLE, CHIARIREBBE TUTTO
Un po’ della confusione politica è provocata da Draghi, che non chiarisce le sue intenzioni. Mancano due mesi al voto sul Quirinale e ancora dobbiamo sapere se il presidente del Consiglio sarà candidato o meno.
Svariati indizi farebbero supporre di sì. Per esempio Draghi ha tollerato che il suo nome finisse nella giostra dei papabili, anzi in cima alla lista, senza mai smentire; non ha preso le distanze da Giancarlo Giorgetti nemmeno quando una semplice telefonata sarebbe bastata per intimare al ministro di lasciar perdere il semi-presidenzialismo “de facto” e l’idea ardimentosa che, con questa nostra Costituzione, il capo dello Stato possa fare le veci del premier.
Imperturbabile quanto un Andreotti dei giorni nostri, Super Mario ha lasciato dire e fare.
Così nel suo silenzio sono fiorite mille ipotesi per la possibile successione: da Renato Brunetta in quanto ministro più anziano, a Daniele Franco nella sua veste di fedelissimo.
Si è sparsa voce che, per non contrariare i partiti in vista dell’elezione, Draghi abbia un filo annacquato il proverbiale decisionismo facendosi concavo e convesso circa le misure da prendere su Green Pass, Reddito di cittadinanza e pensioni.
Nelle cancellerie europee, nei salotti buoni, nei circoli della finanza, negli ambienti altolocati si dà praticamente per certo che il nostro uomo non disdegnerebbe di trasferirsi al Colle, qualora gli venisse offerto.
Lo vedono già pronto all’ennesima arrampicata, dalla direzione generale del Tesoro alla Goldman Sachs, dalla Banca d’Italia alla Bce, adesso (forse) dalla guida del governo alla suprema carica della Repubblica. Insomma: la candidatura è sulla bocca di tutti, tranne che su quella del diretto interessato.
Una sua parola farebbe chiarezza; ma Draghi aspetta a pronunciarla, che è l’atteggiamento tipico di chi ci ragiona sopra e, prima di sbilanciarsi in via definitiva, vuole capire se potrebbe farcela, se in Parlamento troverebbe i voti, cosa gli chiederebbero in cambio i vari leader, quanti sarebbero i “franchi tiratori” e con quali argomenti li metterebbe a tacere.
Lui si è finora sottratto nascondendosi sotto una foglia di fico (“per rispetto del presidente in carica”) e dietro a un’ovvietà (“sarà il Parlamento a decidere”).
Fosse un personaggio qualunque, lo si potrebbe capire: non vuole bruciarsi anzitempo perciò traccheggia in attesa di piazzare la zampata. Però Draghi non è uno che passa per caso.
Veste i panni di salvatore della patria che, per statura e competenza, il mondo ci invidia. È perno dell’equilibrio politico, dalle cui scelte personali discenderanno conseguenze a cascata: il destino della legislatura, la sorte delle riforme, i miliardi del Recovery Fund, il piano vaccinale specie in vista della terza dose. Qui nasce il paradosso.
Tra soli 60 giorni Draghi potrebbe raccogliere il testimone di Mattarella, eppure al momento nessuno è in grado di prevedere se questa maggioranza potrebbe reggere senza di lui, se un altro esecutivo sarebbe in grado di nascere, se il neo-presidente scioglierebbe eventualmente le Camere, se andremmo di corsa a votare in primavera, se la tregua reggerà fino al 2023 oppure a Palazzo Chigi tra pochi mesi ci ritroveremo Giuseppe Conte o Enrico Letta, Matteo Salvini o Giorgia Meloni, e come reagirebbe l’Europa, come la prenderebbero i mercati (per non dire degli italiani).
In attesa di venirne edotti, si brancola letteralmente nel buio. L’incertezza scatena fibrillazioni, suscita nervosismi politici, moltiplica le manovre intorno al governo, attira speculatori e avvoltoi, indubbiamente favorisce chi mira allo sfascio. E la responsabilità, spiace ammetterlo, almeno in parte è della sfinge Draghi.
La via maestra per sciogliere l’ambiguità sarebbe che, mettendo da parte le pur legittime ambizioni, si presentasse davanti alle telecamere e pronunciasse il discorsino seguente: “Signori, nessuno pensi che io abbia accettato di guidare il governo come trampolino di lancio e, dopo appena dieci mesi in politica, io possa lasciare il lavoro a metà. La mia unica ambizione è portare a termine l’impresa senza farmi confondere dalle sirene. Dunque non mi candiderò al Quirinale e prego tutti di lasciarmi in pace. Chiedo semmai, anzi a questo punto io lo pretendo, che lassù venga eletta una persona in grado di coprirmi le spalle, di difendermi fino a quando la mia missione da premier non sarà compiuta”.
Rinuncerebbe al Colle, con supremo disinteresse e sprezzo della poltrona; ma la nebbia verrebbe spazzata via e Draghi passerebbe agli annali quale personaggio di levatura morale superiore; gli farebbero i monumenti in piazza come a Mazzini e Garibaldi.
Cincischiando invece in attesa che si sciolga il nodo del Quirinale, Draghi rischia il cliché – giusto o sbagliato – del solito italiano furbo, calcolatore, pronto a balzare sul treno giusto.
Forse diventerebbe primo cittadino della Repubblica ma perderebbe i superpoteri, e diventerebbe un politico come gli altri.
(da Huffingtonpost)
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