L’UNICO MODO PER SALVARSI DALLA BARBARIE DEI RUSSI È FINGERSI MORTO
IL RACCONTO DELL’UNICO SOPRAVVISSUTO DEI PRIGIONIERI FUCILATI A BUCHA DAI SOLDATI RUSSI: “CI PORTANO SUL RETRO DELLA CASA, CI FANNO INGINOCCHIARE E CI SPARANO ADDOSSO. IO VENGO COLPITO AL FIANCO. CADO MA NON MI MUOVO. NON RESPIRO”
Nove uomini in fila, curvi, che avanzano guardando l’asfalto e tenendosi per la cintura. Due soldati russi li tengono sotto tiro, li insultano, li guidano verso la morte.
Bucha, 4 marzo 2022. I carri armati e i paracadutisti putiniani sono tornati nel villaggio alle porte di Kiev. Gli ucraini li avevano già respinti e lo faranno anche questa volta.
Di lì a pochi giorni si scopriranno le stragi di civili, di uomini, donne e bambini. Le fosse comuni, i cadaveri con le mani legate. L’inchiesta pubblicata ieri dal New York Times documenta uno di questi crimini: la fucilazione di prigionieri disarmati e inermi.
I reporter del quotidiano americano hanno trascorso diverse settimane a Bucha, hanno raccolto testimonianze, documenti e, soprattutto, tre video girati da persone che abitavano vicino all’edificio di via Yablunska 144 trasformato dagli invasori in una specie di «Villa triste», dove assassinare i nemici.
La clip principale dura meno di un minuto. Comincia con la cattura di alcuni combattenti ucraini, identificati poi dal giornale. Non sono militari professionisti, ma semplici cittadini che hanno lasciato il lavoro in fabbrica, nei cantieri per unirsi alle milizie della resistenza.
Il 3 marzo le radio dell’esercito ucraino avvertono tutte le formazioni combattenti: attenzione i russi stanno tornando a Bucha.
Un gruppo decide di abbandonare gli improvvisati e precari posti di blocco, protetti solo da qualche sacchetto di sabbia, e di rifugiarsi nella casa di Valera Kotenko, 53 anni. La mattina del 4 marzo scoprono di essere assediati. È solo questione di ore. Il New York Times pubblica gli ultimi messaggi inviati con i cellulari.
Andriy Dvornikov, autista di una società di spedizioni, scrive alla moglie Yulia: «Non possiamo uscire. Ti chiamerò appena posso. Ti amo». Verso le 10.30 alcuni testimoni li vedono percorrere in fila indiana una delle strade principali di Bucha, scortati dai soldati russi.
Tra i prigionieri spicca la felpa azzurra di Denys Rudenko: un dettaglio da tenere a mente.
I nove uomini vengono portati nella palazzina di via Yablunska 144. Ivan Skyba, 43 anni, costruttore, è l’unico sopravvissuto. Ecco il suo ricordo: «Mi trovo in una stanza con un mio compagno, Andriy Verbovyi. I russi ci picchiano, ci interrogano. A un certo punto sparano e uccidono Andriy. Poi veniamo a sapere che qualcuno ha confessato: “sì siamo dei combattenti”. Il capo della pattuglia lo lascia andare.
“Che ne facciamo degli altri?” chiede un soldato». La Convenzione di Ginevra garantisce a tutti i prigionieri «un trattamento umano». L’esecuzione sommaria è considerata un crimine di guerra. Skyba continua: «Il comandante risponde: “fateli fuori”. Ci portano sul retro della casa, ci fanno inginocchiare e ci sparano addosso. Io vengo colpito al fianco. Cado. Non mi muovo. Non respiro. Dopo 15 minuti non sento più le voci dei militari. Mi rialzo e riesco a scappare».
Il New York Times ha parlato con i medici che hanno curato Skyba. Poi ha confrontato le foto dei corpi abbandonati nel cortile di via Yablunska 144. Uno di loro indossa l’inconfondibile felpa azzurra di Denys.
(da il Corriere della Sera)
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