METAMORFOSI IN SEI ORE DI CONTE
DALLA “SOBRIETA” SBANDIERATA IN MATTINATA A UNA REPLICA DOVE DISTRIBUISCE BOTTE DA ORBI ALLA LEGA
Alle ore 17.45 la giornata prende all’improvviso una piega inaspettata.
Giuseppe Conte si rialza dai banchi del governo per replicare al dibattito cui il Parlamento ha dato vita dopo il suo interminabile e sonnecchioso discorso d’insediamento.
E inizia a sparare palle chiodate in direzione dei banchi della Lega. Un vero e proprio regolamento di conti, una zuffa in grande stile, con il presidente del Consiglio a sfidare anche con la prossemica i banchi leghisti, e questi a ribollire di urla e cori, un deputato brandisce una sedia in mano (Sì, una sedia. Sì, nell’aula di Montecitorio), scatenando l’ira di Roberto Fico e il riflesso pavloviano di un team di commessi che scatta verso il branditore.
Un corpo a corpo. Le repliche di un presidente del Consiglio al dibattito d’Aula possono essere generiche, riannodare i fili dei buoni propositi enunciati nel discorso di qualche ora prima e poco più, scavalcare asperità e critiche.
Possono esserlo, non lo sono state. Conte parte subito in quarta: “Avete parlato di tradimento, oltraggio agli italiani, sequestro di voto. Mi chiedo se la nostra Costituzione esista ancora o è stata stracciata. Non cambierete la realtà dei fatti, la vostra è una mistificazione”. Scatta il boato della nuova maggioranza, il Partito democratico è il primo a scattare in piedi.
Lega e Fratelli d’Italia marcano a uomo il presidente. Partono le girandole di cori: “Elezioni, venduto, dignità , mai col Pd, inciucio” vengono scanditi senza soluzione di continuità .
Il presidente non si sottrae, non smorza, non smussa, non vola alto. Si gira, mette il corpo in favore di Carroccio, li sfida con lo sguardo, gli molla ceffoni come “la vostra coerenza è solo alle vostre convenienze elettorali”, o “avete sbagliato giuramento, non perseguite l’interesse esclusivo della nazione”.
Il tono nasale e la voce roca attenuano appena un po’ la violenza verbale squadernata dall’avvocato della maggioranza giallorossa.
Sono passate solo cinque ore da quando aveva assicurato che il linguaggio del nuovo governo sarà “mite”.
E in effetti per tutta la chilometrica prolusione mattutina quello dell’avvocato del popolo lo era sempre stato, mite. Mite e felpato, garbato, cortese, sublimatosi nel discorso di cambio maggioranza nel quale la rimozione lessicale degli spigoli era arrivata a essere tangente a una certa involuzione di democristiana memoria. “Il patto politico si proietta in dimensione intergenerazionale”. “Serve una nuova e risolutrice stagione riformatrice”. Citava Giuseppe Saragat: “La Repubblica e la democrazia siano umane”.
“Manco la pace de Kant”, lo fulminava un funzionario di Montecitorio con la saggezza di anni di onorato servizio. “Il presidente non voleva lasciare fuori nulla — spiegava un membro del suo staff — per questo può essere sembrato prolisso”.
Un appannato ricordo, il pomeriggio spazza via qualsivoglia bizantinismo da novello Forlani del premier bis. Giancarlo Giorgetti e Lorenzo Fontana sono seduti vicini, sguardo basso. Compulsano gli smartphone per non ritrovarsi nell’imbarazzo di non seguire la gazzarra dei loro.
Il Pd continua ad applaudire, sono solo i pretoriani di Matteo Renzi — Luca Lotti e soprattutto Maria Elena Boschi — a tenere le braccia incrociate.
L’avvocato del popolo siede sul banco della difesa 5 stelle: “Il Movimento ha subito un tradimento e ora viene accusato, è assurdo”.
C’è un punto esclamativo alla fine del virgolettato, lo si desume evidentemente dal tono in cui viene pronunciato. Il capogruppo pentastellato Francesco D’Uva si alza, invita i suoi a non dare adito all’emiciclo di infiammarsi.
La metamorfosi è totale, Conte cavalca e esaspera quel crinale comunicativo che lo identifica nel campione dell’anti salvinismo, comandante di una nave che viola il blocco del porto che lui stesso ha contribuito a chiudere.
Rinfaccia le alleanze europee del Carroccio, schernisce gli uomini di Bellerio: “Pensavate di avere l’ipoteca sulla sicurezza e la difesa di questo paese, non è così”
Alla fine è di nuovo standing ovation. Della parte opposta dell’emiciclo rispetto a quella alla quale ci si era abituati nell’ultimo anno.
È cambiato il mondo, la maggioranza, forse anche il presidente del Consiglio, che ha passato simbolicamente la campanella a una versione 2.0 di sè stesso.
Si fa l’ora di cena, i deputati votano la fiducia. L’emotività della giornata fa sorridere democratici e grillini, è tutto un mulinare di pacche sulle spalle, c’è la fila per complimentarsi con il finto refuso di D’Uva, che aveva chiesto “per quale mojito” Salvini aveva staccato la spina.
Si sciama lentamente via, gli uni da una parte, gli altri dall’altra, senza una vera amalgama. Durerà ?
(da “Huffingtonpost”)
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