QUELL’ONDA DI 360 MILIONI REGALATI A PUTIN PER PULIRE I SOTTOMARINI NUCLEARI
L’ACCORDO VOLUTO DA BERLUSCONI VENTI ANNI FA TRA LUSSI, SPRECHI E DONI MAI CHIARITI
Anche l’Italia ha avuto la sua caccia all’Ottobre Rosso. Una lunga sfida per fare a pezzi i sottomarini sovietici, che si trovassero ancorati nei porti dell’estremo Nord o sommersi nei fondali dell’Artico. Una battaglia combattuta non con i siluri o le bombe di profondità, ma con pacchi di milioni sganciati in Russia: un’ondata di denaro pubblico gettata nei mari più freddi in un ventennio di progetti rimasti fuori dai radar, che hanno inghiottito 360 milioni di euro senza che esista un elenco dei beneficiati.
La madre di tutti gli accordi
Stiamo parlando del programma concepito dal governo Berlusconi nel 2003 per aiutare il Cremlino a smantellare la flotta di sommergibili nucleari creata dall’Urss, proseguito ben oltre la scadenza iniziale del 2013, oltre l’invasione della Crimea, oltre la guerra in Ucraina e persino oltre la scomparsa del suo ideatore: è stato chiuso soltanto la scorsa settimana. E’ la madre di tutti gli accordi, perché sulla scia di questo patto sono germogliate le relazioni politiche e d’affari tra Mosca e Roma, diventate nel corso degli anni così intense da resistere a ogni cambiamento della Storia.
Tutto è cominciato in un mondo diverso. Vent’anni fa la Russia era amica dell’Occidente, entrambi impegnati nella lotta al terrorismo islamista: proprio nella conferenza di stampa di presentazione dell’accordo, Berlusconi tolse il microfono a Putin e lo difese da una domanda sui crimini di guerra russi in Cecenia. Quella era l’epoca della “povera Russia”, precipitata negli anni del presidente Boris Eltsin in una crisi economica che aveva reso misere le istituzioni e ridotto sul lastrico l’Armata Rossa: un Paese allo sfascio, dove tutto era in vendita. Il G8 temeva che navi e sottomarini zeppi di combustibile radioattivo della flotta sovietica lasciata arrugginire potessero creare una catastrofe ambientale o finire in mani pericolose. E il nuovo leader Vladimir Putin aveva amici disposti ad aiutarlo, a partire dal Cavaliere.
Così viene lanciata la missione di soccorso tricolore per finanziare la messa in sicurezza dei sottomarini, con una dote di 360 milioni – che allora erano veramente parecchi – più altri fondi mai chiariti che sono serviti a cementare l’alleanza tra i due Paesi, consolidata da scambi di feste nella dacia del nuovo Zar e nella villa sarda del premier azzurro, con tanto di dono del celebre lettone di Palazzo Grazioli descritto dalle invitate alle cene eleganti berlusconiane.
L’Italia in cerca di discariche atomiche
Dietro la generosità nell’aiutare la flotta russa c’era pure un retropensiero, trapelato all’epoca in alcuni discorsi pubblici poi rettificati o smentiti: rifilare a Mosca le nostre scorie radioattive, che il governo in quei mesi aveva tentato di piazzare in una miniera lucana a Scanzano Jonico, salvo poi fare retromarcia dopo la rivolta di piazza. Sulla scia della bonifica dei sommergibili, rapidi e invisibili pure i bidoni con i resti di Caorso, Latina e Trino Vercellese si sperava avrebbero preso la strada delle basi segrete affacciate sul Polo Nord dove Vladimir avrebbe tenuto a bada i manifestanti. Non a caso, tutta la faccenda è stata messa in mano alla Sogin, che oltre ad avere le competenze in materia era ed è deputata alla ricerca di una stabile discarica per la nostra eredità nucleare. E se leggiamo le indicazioni dell’iniziativa – diventata operativa nel 2005 – balza subito agli occhi come in questa campagna filantropica solo 66 milioni erano destinati a smantellare i battelli della Guerra Fredda mentre ben 208 milioni venivano stanziati per realizzare sistemi di trasporto, stoccaggio e siti per il combustibile atomico esaurito che interessavano alla questione più calda per Sogin. Ma i russi per quanto in miseria non sono mai stati fessi: poco dopo la firma del patto con l’Italia, hanno introdotto regole che vietano l’importazione di residui nucleari
La bonifica spendacciona
Sfumata la prospettiva dello scambio, la macchina della bonifica made in Italy si è comunque avviata. Con qualche stranezza. E’ stata inventata un’unità di gestione progettuale italo-russa con una dote astronomica di 4 milioni l’anno. E allestita una lussuosa sede nella capitale russa di duecento metri quadrati, con un affitto mensile di novemila euro – somma straordinaria in quella stagione di fame – versato al locatario: Antonio Fallico, il plenipotenziario russo di Banca Intesa che negli anni successivi l’ha trasformata nell’istituto di fiducia del Cremlino. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo dedicarono sul Corriere un articolo al party memorabile con cui nel 2005 fu inaugurato il quartiere generale, facendo arrivare sottosegretari e papaveri del centrodestra, con un conto finale di 400 mila euro. Nessuno si è sorpreso per la nomina nel comitato del figlio di uno dei boss di Rosatom, il colosso atomico russo e partner di Sogin. E nessun clamore per un giro di consulenti dai compiti poco chiari pagati 262 mila euro l’anno.
All’inizio, sono stati magnificati dal governo obiettivi favolosi: mettere in sicurezza 117 sommergibili nucleari, addirittura “smantellare l’incrociatore lanciamissili Admiral Ushakov dando prestigio all’Italia”. Quest’ultimo però non aveva nulla di atomico ed era stato ridotto in rottami in India già nel 1992. Gli esperti norvegesi della Fondazione Bellona ritenevano che con 5 milioni – valore dell’epoca – si potesse bonificare un sottomarino. Ma l’operazione Sogin nel 2012 ne aveva sistemati solo cinque nonostante la spesa di 171 milioni.
Nel frattempo l’economia russa era risorta, con bilanci statali in crescita e colossali investimenti in nuovi armamenti. Ma questo non ha intaccato il sostegno ecologico italiano, confermato da governi di centrodestra, centrosinistra o tecnici, che non hanno mai dubitato della necessità di dare un mano al Cremlino, seppur tornato a essere molto più ricco di Palazzo Chigi
Le due navi in omaggio
Ed ecco che abbiamo donato due navi speciali – progettate e costruite da Fincantieri – per trasferire le scorie e le parti di metallo contaminato dei battelli. Sono state chiamate con poca fantasia RossIta, di 84 metri, e ItaRus, di 79 metri. La prima è costata oltre 70 milioni, tutto senza gare d’appalto: trattativa diretta e massima segretezza. Il varo è avvenuto nel 2011. La seconda invece è uscita dal cantiere nel novembre 2015, dopo il blitz in Crimea e le sanzioni contro Mosca: ai funzionari ministeriali romani non è importato e hanno festeggiato con i colleghi russi pure in quest’occasione. Attenzione però: movimenti di RossIta negli ultimi mesi hanno fatto entrare in allarme gli ecologisti scandinavi. Si teme che la “nostra” nave stia contribuendo a trasferimenti segreti di materiale radioattivo verso l’Artico: invece di pulire il mondo, aumenta la sporcizia eterna.
Poi era previsto un impianto di trattamento e stoccaggio temporaneo dei rifiuti a Andreeva Bay, in questo caso disegnato da Ansaldo. I maligni dissero che c’era lo zampino di Claudio Scajola, ministro delle Attività produttive al momento del varo dell’operazione e attento a favorire con quella cascata di milioni realtà della sua Liguria come Fincantieri e Ansaldo. Unica eccezione, la Mangiarotti di Udine che ha ottenuto la commessa per contenitori isolati concepiti da un’azienda russa, premiata con 850 mila euro. Fino al 2013 sono stati firmati “otto contratti, 69 addenda contrattuali e un accordo esecutivo per un valore complessivo di 260 milioni, già trasferiti a Sogin per effettuare i pagamenti”. Non c’è nessun documento che spieghi come siano stati spesi questi soldi. Il progetto iniziale prevedeva pure “45 milioni per protezione fisica dei siti”: l’Italia ha pagato per fortificare i depositi di uranio russi, da cui oggi i materiali dismessi vengono trasformati in testate per i missili dell’apocalisse di Putin?
Tra relitti e stipendi segreti
Tutto segreto. Come i nomi di chi ha ricevuto consulenze e gettoni per gli organismi di gestione. Le iniziative poi sono andate avanti oltre il termine del 2013. Con collaboratori pagati in media 100 mila euro l’anno e costi siderali per la sede di Mosca di Sogin. Tutto qui? A un certo punto – forse perché i russi tornati agguerriti non volevano più stranieri nelle basi strategiche – si è deciso di estendere le operazioni alla ricerca dei relitti di sottomarini nucleari colati a picco nell’Artico: una spedizione ancora più complessa che nel 2018 ha ricevuto fondi per un milione. Soldi usati per studiare il recupero con tedeschi, inglesi e norvegesi di vascelli come il K27, affondato nel 1968. L’ultima voce nota nei bilanci “variazione lavori in corso” ha ottenuto 817 mila euro nel 2019. Ma la “Global partnership” – questo il nome che compare negli atti ufficiali – con Putin è sopravvissuta pure all’assalto contro Kiev, incamerando stipendi e contratti fino alla scorsa settimana: beneficenza verso un Paese non più povero, che anzi si permette di moltiplicare la spesa militare e costruire tanti nuovi sottomarini zeppi di barre d’uranio. Forgiate riciclando quelle ripulite grazie ai compagni italiani.
(da La Repubblica)
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