QUI LO VOTO E QUI LO NEGO: DA BERSANI A FASSINA, IL FUOCO E POI L’ESTINTORE
ITALICUM, RIFORME COSTITUZIONALI E JOBS ACT: SONO LE ULTIME TAPPE DEL DISSENSO A PAROLE CHE FINISCE AL MOMENTO DEL VOTO IN AULA
Non è facile dire di “no” a Matteo Renzi, o meglio, c’è chi lo fa a parole, ma poi nella sostanza pigia il tasto giusto e vota tutto quello che il premier desidera.
D’altra parte intenzioni di voto smentite al momento decisivo non sono una novità arrivata con il renzismo.
Prima di tutto: la lealtà verso la ditta
Partiamo dall’acerrimo nemico interno Pier Luigi Bersani: “L’Italicum va cambiato. Produce una Camera di nominati. Non sta in piedi. Il combinato disposto tra norme costituzionali e legge elettorale rompe l’equilibrio democratico. Se è deciso che la riforma della Costituzione non si può modificare, io non accetterò mai di votare questa legge elettorale senza modifiche. Ormai credo si sia vista la mia estrema lealtà verso la ‘ditta’, ma i partiti sono uno strumento. Prima viene l’equilibrio democratico. Questo combinato disposto non lo voterò mai”.
E una riflessione sul jobs act: “Penso sia fuori dall’ordinamento costituzionale”. Parole pronunciate sull’Avvenire il 26 febbraio.
Ma l’unica cosa che resta, per ora, è la fedeltà alla ditta appunto, perchè i suoi voti su riforme costituzionali, Italicum e jobs act, nei vari passaggi parlamentari, fin qui non sono mai mancati.
Che Bersani sia capace di ingoiare rospi ormai è cosa nota; nell’agosto del 2011, governo Berlusconi in carica, replicò così, in commissione alla Camera, alla lettera-diktat della Bce: “Non si parli di cose che non esistono in nessun posto al mondo. Il pareggio di bilancio in Costituzione? Noi non è che intendiamo nei secoli castrarci di ogni possibile politica economica”.
La castrazione è avvenuta, con tanto di voto di Bersani, nell’aprile 2012, governo Monti.
Minoranze che si dimenano e minacciano ma alla fine eseguono gli ordini
La minoranza del Partito democratico in epoca renziana si dimena molto, minaccia anche, come dimostra spesso Gianni Cuperlo: “Se noi licenziamo l’Italicum così com’è uscito dalla Camera, io credo che ci siano margini di rischio di costituzionalità di quella legge”.
Era il luglio 2014. E pochi giorni fa ha addirittura scritto al premier una lettera: “Sul jobs act il governo ha ignorato esattamente suggerimenti e linee votati dalla direzione del Pd e poi dalle commissioni parlamentari. Sulla riforma costituzionale non avete tenuto conto neppure di un voto che avrebbe permesso, al Senato, di correggere quelle storture e incoerenze che rischiano, nei fatti, di rendere farraginosa la riforma”. Però, fino a qui, anche Cuperlo ha votato tutto.
Le barricate cedevoli del prode “Fassina chi?”
Poi c’è “Fassina chi?”, l’ex sottosegretario Stefano Fassina, l’unico a dire il vero che abbia alzato la voce contro Renzi in pubblico (assemblea nazionale del Pd a dicembre: “È inaccettabile la delegittimazione di chi ha posizioni diverse dalle tue, se vuoi il voto dillo”), però è anche lui molto disciplinato nei momenti che contano.
A novembre avvertiva: “L’Italicum non va”. A febbraio, dopo l’elezione del capo dello Stato, i toni si sono ammorbiditi: “Visto che il Pd, unito, ha ottenuto un risultato di grande valore con l’elezione di Mattarella, approfittiamo della rottura del patto del Nazareno per migliorare le riforme, a cominciare dall’Italicum”.
Ma Renzi non cambia niente, cosa farà Fassina? Annuncia sorprese, vedremo se ci saranno.
A proposito di Mattarella, la corsa al Colle ha mostrato al fermezza degli alleati di governo di Ncd.
Il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha cambiato posizione in pochissime ore: “Mattarella è una persona degnissima. Ma voteremo scheda bianca anche alla quarta votazione, non partecipando a una scelta maturata esclusivamente dentro il Pd”.
Era giovedì 29 gennaio, poche ore deputati e senatori di Ncd hanno scritto compatti sulla scheda: “Mattarella”.
Dalla minoranza Pd, passando per Ncd, arriviamo ai dissidenti di Forza Italia e alle loro battaglie campali, sostenute come se niente fosse, facendo finta di dimenticare il passato.
Nel novembre 2014 la rivista Formiche scrive: “Le argomentazioni degli studiosi in trincea contro l’architettura monetaria europea trovano accoglienza nel ragionamento di Raffaele Fitto. Il quale ritiene che il terreno propizio all’iniziativa di Forza Italia è ‘lavorare con tutte le energie nelle istituzioni’ per mettere in discussione il Fiscal compact dal punto di vista politico e giuridico”.
Dal terribile Fiscal compact alle guerre di Libia
Già , per Fitto il Fiscal compact, misure europee in termini di bilancio, è uno degli argomenti preferiti di critica al governo e all’austerità euro-tedesca; già nel maggio 2014 Fitto dichiarava: “Bisognerà intervenire con fermezza per modificare l’impostazione del Fiscal compact e chiedere con forza una proroga nell’attuazione del programma di rientro finanziario che, così concepito, metterebbe in ginocchio il nostro Paese senza offrire alcuna prospettiva di crescita”.
Era un’afosa giornata del luglio 2012, la Camera doveva votare proprio sul Fiscal compact, Silvio Berlusconi era assente, 48 deputati dell’allora Pdl si astennero o votarono addirittura contro. Fitto c’era e votò a favore.
Poi c’è la guerra di Libia, nel 2015 l’ultracattolico Beppe Fioroni, per fare un esempio, è sicuro: “Per spegnere un incendio bisogna usare le sostanze giuste, sbagliare sostanza rischia di far divampare l’incendio a dismisura”.
Insomma, oggi niente armi, nel 2011 votò a favore dell’intervento anti Gheddafi. Cambiare idea è lecito e, in questo caso, assolutamente doveroso.
Giampiero Calap�
(da “il Fatto Quotidiano”)
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